venerdì 30 gennaio 2009

La vita è sogno


Giorgia ha paura di non riuscire ad addormentarsi. Forse l'ho già scritto e la situazione non è migliorata. Anzi no. A pensarci bene è migliorata eccome, infatti da qualche settimana dorme da sola nella sua stanza (mentre prima preferiva quella dei fratelli maschi, cedendo la sua stanza all'impavido Giovanni). Ciò che resta invece è la sua ansia che è tardi... che al mattino successivo farà fatica ad alzarsi... che non ce la farà a dormire insomma. Da padre comprensivo e che ricorda di non essere stato immune da paure quand'era bambino (temevo che i miei genitori, nel bel mezzo della notte, uscissero di casa e mi abbandonassero lì solo, al buio) non le ho mai fatto pesare la cosa, raccontandole che io non ero troppo diverso da lei, da piccolo; rammentandole che nelle 3000 e passa notti precedenti (dal giorno in cui è nata, insomma) non è mai capitata una sola notte in cui sia rimasta davvero sveglia; consigliandole di mettere la testa sotto il cuscino e pensare a cose belle, di sognare a occhi aperti finché il passaggio dalla veglia al sonno diventa naturale. E proprio mentre le stavo dicendo queste cose, ieri, ad un tratto m'è venuta in mente una cosa che mio padre mi ha ripetuto centinaia di volte prima di ammalarsi. "Giorgio - mi diceva - io sono sempre stato contento perché sono sempre stato un sognatore". E per sogno lui intendeva non tanto quelli che accadono nella fase Rem, bensì quelli ad occhi aperti, che forse sarebbe più corretto chiamare "desideri, speranze, ambizioni, attese, aspettative" o, meglio ancora, "aspirazioni". Forse non è esatta nemmeno questa definizione. Mi rendo conto che nel momento in cui me lo diceva, io capivo, realizzavo perfettamente cosa intendeva, anche perché anch'io sentivo di essere così, ma adesso ch'è venuto il momento di mettere tutto nero su bianco trovo le parole inadeguate al concetto. In ogni caso, me lo appunto qui, perché ieri sono stato catapultato indietro nel tempo e non vorrei dimenticarlo di nuovo.
Foto by Leonora

giovedì 29 gennaio 2009

L'uno e l'altro


"Non ti manca la televisione?". E' una domanda che mi sento rivolgere spesso. La risposta è no. Gli amici con cui lavoravo, quello sì. Li ricordo tutti, uno a uno. Il mezzo no. Primo perché fin che sono stato a Etv ho avuto modo di fare tutto ciò che avrei voluto: programmi d'intrattenimento, telegiornale, trasmissioni giornalistiche, servizi, dirette, interviste... Secondo perché adoro "fare il giornale", creare titoli, mettere foto, pensare didascalie e, soprattutto, scrivere. Terzo perché non considero l'addio a Espansione Tv un congedo definitivo al mezzo televisivo. Nella vita, non si può mai sapere.

L'unica cosa che mi manca è l'immediatezza, la spontaneità che si può avere intervistando una persona davanti a una telecamera, la possibilità di guardare una persona negli occhi, fargli una domanda e sapere che altri occhi ti guardano, fanno da testimoni al colloquio che sta avvenendo, possono in qualche misura giudicare la schiettezza di chi fa domande e la sincerità di chi risponde. Una sensazione che riesco a provare anche nei video sperimentali che sul sito de La Provincia stiamo realizzando (l'ultimo, in ordine di tempo, quello di oggi, con Mara Invernizzi).

Video e carta. Tastiera di computer e telecamera. Inchiostro e microfono. In effetti, se mi guardo alla spalle, pago dazio per non aver mai scelto definitivamente l'uno o l'altro. Ma se ci penso meglio, credo proprio che tutto ciò che ho siano frutto della passione per l'uno e per l'altro.

mercoledì 28 gennaio 2009

Generazione Social network


Ieri discutevo con Maddalena dei social network e, nonostante lei sia assai giovane, riflettevo tra me e me che non fa parte della "Generazione Facebook".
"Generazione Facebook" o più correttamente " Generazione Social network", potranno essere definiti coloro che non hanno conosciuto il mondo prima che essi esistessero. La differenza è quella che passa tra uno per cui l'inglese è lingua madre e un altro che invece ha parlato, magari anche benissimo, a parlarlo.
Maddalena, con i suoi ventun anni, non sa come stavano realmente le cose prima dei telefoni cellulari. Credo non ricordi (ma glielo domanderò) cos'erano i gettoni della Sip, che costavano prima cinquanta, poi cento e infine duecento lire e servivano per telefonare dagli apparecchi pubblici. Maddalena non sa come si viveva senza sms, mentre ricorderà per tutta la vita che nelle relazioni interpersonali, prima di Facebook, se la cavava lo stesso egregiamente (ma indubbiamente peggio, di oggi, che per raccogliere il parere sull'idea di un centro culturale gli basta un clic e subito centinaia di persone possono risponderle in merito).
Da parte mia, sono escluso sia dalla "Generazione cellulare", sia da quella dei social network, pur usando proficuamente l'uno e l'altro.
Ricordo infatti benissimo le sere d'estate, innumerevoli sere d'estate, passate sul piazzale della chiesa ad attendere che Elena e poi Isabella e le sue amiche passassero davanti in bicicletta. Un incrocio di sguardi e via, fino al giorno dopo, più o meno alla stessa ora, se eravamo fortunati. Altrimenti, di giorni ne passavano tre o quattro, settimane intere o mesi, da settembre fino al maggio successivo, perché le ragazze d'inverno non uscivano. Un contatto vero e proprio avveniva due, tre volte al massimo all'anno. Durante le feste comandate. Il venerdì santo o il palio del paese: momenti sfuggenti, in cui non c'erano molti argomenti, poiché si conosceva poco dell'uno e dell'altro. Più che altro erano sogni, vaneggiamenti che al culmine non producevano nulla se non sorrisi timidi, che però permettevano di sognare ulteriormente, a lungo. Sto parlando dei miei tredici, quattordici, quindici anni. Non c'erano sms, al massimo bigliettini furtivi, scambiati all'intervallo. Ricordo quelli di una mia compagna delle medie, me li lasciava in mano e io mi vergognavo come un ladro, perché non mi piaceva, ma non avevo cuore di dirglielo. E parimenti ricordo tutti quelli che avrei voluto mandare a chi mi faceva mancare il fiato, ma non mi riusciva mai di dirglielo. Chissà se ci fosse stato Istant Messanger, o addirittura Facebook. Probabilmente sarebbe stato altrettanto magico e misterioso d'un tempo e io imbranato lo stesso.
P.S. Meglio chiamarla "Generazione Social network" perché Facebook dopotutto non è che una marca, un logo, come lo era Altavista, poi sostituita da Yahoo e ora da Google. E scambiare la marca con il mezzo comporta curiosi anacronismi, come gli svizzeri, che chiamano ancor oggi "Natel" il telefono cellulare, nonostante il "Natel" sia nel frattempo diventato Nokia, Samsung, Motorola, Sony...
P.S.S. Maddalena, mesi fa, ha scritto un bellissimo post (lo trovate qui) su Facebook e su alcuni effetti collaterali che può comportare. Mi ha fatto sorridere e riflettere insieme.

Foto by Leonora

domenica 25 gennaio 2009

Pro memoria (felicità)


Ieri l'altro discutevo di felicità e della ricerca che se ne fa, che se ne deve fare, anzi, se felici si vuole essere. Felicità non come dono che si ottiene una volta per tutte (Primo Levi in un suo libro - per spiegare come è potuto sopravvivere alla tragedia dei campi di sterminio - sosteneva che non esiste una perfetta infelicità, così come parimenti non è possibile una felicità perfetta, dove per perfetta io ho sempre inteso "totale, totalizzante"). Felicità insomma come punto di equilibrio, come stato d'animo da cui derivano sentimenti positivi, quali la gioia, la serenità, la pace, la quiete, un sensazione di appagamento, di pienezza, di soddisfazione. Proprio essendo un punto di equilibrio, non sempre si trova ed è per questo che la si deve continuamente cercare. Se penso a me stesso, credo di cercarla in due modi: abbassando la soglia di desiderio materiale (se ci si accontenta di ciò che si ha, che si può avere, è più facile non sentirsi insoddisfatti e quindi infelici) e guardando sempre al lato positivo delle cose, al bicchiere mezzo pieno, alle opportunità che scaturiscono in contemporanea ad ogni difficoltà. Nel primo caso cerco di ricordare la lezione di Diogene il Cinico (cinico sì, ma saggio) che si era abituato a sopravvivere con un piatto di lenticchie al giorno e non gli pesava affatto non poter banchettare ai quattro palmenti come facevano alcuni suoi contemporanei, servi però di un padrone. Nel secondo caso mi sforzo di trovare il lato buono delle cose, non perché io sia migliore di altri, bensì per una convenienza assai più egoistica, perché so che così vivo meglio.
P.S. Scrivo queste cose, non come lezione da impartire, bensì come pro memoria per me stesso, per tutte le volte che nonostante ora mi sia chiaro cosa fare, poi nel concreto smarrisco strada e direzione.
Foto by Leonora

domenica 18 gennaio 2009

Una meraviglia



Prendo tra le mani un nuovo libro, "E' la stampa, bellezza!", autobiografia di Giorgio Bocca. L'ho cominciato ieri, però non avevo con me una matita per sottolineare le frasi che meritano di essere ricordate. Era da molto tempo che non succedeva, mentre ci sono stati anni in cui non solo segnavo a matita i capoversi, ma addirittura li trascrivevo poi su un agenda (un agenda di Snoopy, con i colori della bandiera in copertina, che mi aveva regalato Antonella). Ora le occasioni sono più rare, anche se non manco di stupirmi per pensieri altrui. In questi giorni mi godo il lavoro, come un dono ricevuto e ormai insperato, e quasi soppeso istante per istante la fortuna di poter esercitare la massima libertà possibile per un giornale. Sempre ieri, bevendo un caffè macchiato a Curtoni, un vecchio giornalista ch'è stato il mio primo direttore a La Gazzetta di Como, che tuttora tiene una rubrica su La Provincia, mi sono sentito dire: "Giorgio, in dodici anni, mai una volta che qualcuno mi abbia detto: no, questo non puoi scriverlo. Sappi che non è sempre così". Lo so. Sempre Curtoni ha aggiunto: "Quando lavoravo all'Ordine, con quel genio di don Peppino Brusadelli, i migliori venivano allontanati e lui soleva dire: qui l'unico che pensa sono io, per gli altri la porta è quella". L'ho presa larga, pur se avevo una sola cosa da annotare qui, oggi. Un consiglio, un suggerimento: la lettura di un articolo comparso oggi su La Provincia, scritto dal collega Paolo (che lo riporta qui, sul suo blog).


L'ho tirata lunga, per poi dire solo questo: che leggendolo mi sono ricordato - pur se non ce n'era bisogno - che mestiere meraviglioso è il nostro.

Foto by Leonora



giovedì 15 gennaio 2009

:-)


Riflessione odierna, di fronte al computer di redazione: quando lo "smile" :-) verrà sdoganato sui giornali, nel linguaggio scritto corrente? Per me è solo questione di tempo. E non so se rallegrarmene o immalinconirmi. Rallegrarmene perché ormai lo "smile" è trasmigrato dai messaggi telefonici al linguaggio via Internet. Ricordo Mauro Migliavada, la prima volta che gli inviai un :-) a chiosa di un messaggio: mi rispose sdegnato con un: "No, ti prego, non anche tu con questi sorrisini!" Col tempo ha cambiato idea o semplicemente ceduto anche lui. Io stesso, raramente riesco a farne a meno nella comunicazione informale e non nego la tentazione di utilizzarli anche in commenti o articoli sul giornale. Uno "smile" sottolinea un emozione, con ben traduce il termine "emoticon", è un valore aggiunto alle parole.

Al contempo però, m'immalinconisco. Poiché potrebbe non esserci più un tempo in cui l'ironia è semplicemente tra le righe, in cui si strappa un sorriso senza dover ribadire ch'è opportuno ridere, in cui le parole bastano a stesse, proprio come ora accade sui giornali, nei libri, senza che sia necessario alcun segnale indicatore di cosa si vuol realmente esprimere.

Nel frattempo, sorridiamoci sopra...

P.S. :-)


Foto by Leonora

sabato 10 gennaio 2009

Classe quarta elementare 1975


Un anno fa, esattamente come oggi, moriva mio padre. Ne ho già scritto parecchio e non voglio aggiungere altro se non che mi manca, ma me lo sono "goduto" quand'era in vita e non ho rimpianti.

C'è un altro pezzetto del mio passato che torna. Ieri, spulciando in Facebook, mi sono imbattuto in Federico Saladanna, un compagno delle elementari (entrambi le abbiamo fatte al collegio Santa Chiara di Como). Lui non si ricordava di me, io sì di lui. Insieme abbiamo messo assieme una lista di compagni che non mi dispiacerebbe ritrovare. Un paio (Marinella Zanetti, Stefania Mazzetto e pure Marco Natali, adesso che ci penso) li ho incontrati negli anni scorsi. La maggior parte rimangono per me volti sorridenti su una fotografia a colori tendenti al rosso scattata nel 1975 (eravamo in quarta) e un pugno di ricordi nitidi e senza tempo. Il refettorio, dove non mangiavo nulla essendo a quel tempo schizzinosissimo. La palestra e una maglia arancione e una gara di gimncana. Un prato con in mezzo un carretto dove nascondersi e le galline che sporcavano dappertutto. Un piazzale enorme, dove aspettavamo il pullman giocando a calcio. Corridoi immensi e una scala che portava alla palestra, dove ho dato il mio primo bacio. Una sala teatro, in cui arrivarono a cantare i Gen Rosso. Suore terribilmente severe (suor Egidia, suor Gabrielangela), suore che parevano già ottuagenarie (suor Bartolomea) e insegnarono per vent'anni ancora. Una maestra giovane giovane, ch'era nipote di suor Geltrude e fu la nostra insegnante di quinta e per me aveva un debole e non l'ho mai dimenticata, anche se morì di leucemia pochi anni dopo, quando era ancora una ragazza. Fu lei a farci leggere in classe "Lettere a una professoressa" di Don Milani e a farci guardare il telegiornale, unendo i banchi a gruppi di quattro o cinque e assegnandoci ruoli giornalistici diversi (io mi occupavo degli esteri).
Sono stati begli anni, in cui si studiava tosto e che mi hanno permesso poi di fare le medie a Lurate vivendo di rendita. Erano una bolla di serenità in quegli anni Settanta di scioperi e terrorismo, coloranti nei cibi e inquinamento selvaggio nei corsi d'acqua, nell'aria e nei terreni. Anni che porto con me tuttora, sperando di riveverli un giorno, quando deciderò che è il momento di fermarmi e di scendere.
Foto by Leonora

domenica 4 gennaio 2009

L'illuminazione


Ci sono coincidenze che mi sorprendono. Una di esse m'è capitata stamattina, quando Don Pierpaolo, il sacerdote che ha celebrato la messa delle 11.30 nella parrocchia di Caccivio ha tenuto l'omelia. Questo il riassunto: nel Vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana, Gesù entra nella sinagoga, prende un rotolo delle Scritture e legge un passo del profeta Isaia. Se però si mette a confronto ciò che riporta Luca nel Nuovo testamento e quel che è scritto da Isaia nell'Antico Testamento, si nota che delle sette frasi del profeta Gesù omette di leggerne una (quella che parla della "vendetta di Dio"). Don Pierpaolo motiva così l'omissione: Gesù in quella scelta sottolinea che a Dio sono attribuibili "solo cose buone". E di "solo cose buone" ha continuato a parlare anche nel resto della predica. Cosa c'è di strano? Nulla, tranne che proprio oggi, sul giornale, abbiamo dato il via a una serie di articoli sull'ottimismo e io ho scritto un commento intitolato proprio: "Solo cose buone". Ora, dato per scontato che Don Pierpaolo (docente al seminario di Venegono e dunque poco interessato alle vicende comasche) non legge "La Provincia", è curiosa la coincidenza tra l'espressione usata da lui e il concetto che da qualche giorno mi frulla per la testa (e da cui ho preso spunto per la serie di articoli-intervista). Curiosa e significativa: per me vuol dire che di cose buone c'è proprio bisogno e beati coloro i cui occhi sanno vederli e il cuore goderne.
P.S. Se avete un motivo per cui siete ottimisti e volete scriverlo, ve ne sarò grato. Secondo me, come ho scritto oggi sul giornale, l'ottimismo non è soltanto uno stato d'animo, un dono ricevuto, ma anche e soprattutto una scelta possibile per guardare il mondo e affrontare la vita, giorno per giorno.
Io, ad esempio, pur se gli economisti annunciano una terribile crisi, sono convinto che il tempo che ci aspetta sia ricco e fecondo e, sommato tutto, lieto. Forse saremo più poveri finanziariamente, non umanamente. Ricordo ciò che scrive Luca De Biase nel preludio del suo libro "Economia della felicità": "Un nuovo contesto culturale è davanti a noi. Una cultura che per ora non ha forma definita. Ma che lascia segnali sempre più chiari. In questa cultura si recuparano valore precedentenete compressi. Il valore del tempo da dedicare alle persone. La sapienza di sapere distinguere quello che vale e quello che non vale. La ricchezza della qualità. L'indifferenza per l'ostentazione. In questa cultura si rivaluta ciò che non ha prezzo. Perché quello che dà significato alla vita non si misura con la moneta: l'amore, la bellezza, la tenerezza, l'amicizia, la passione per fare bene quello che si sa fare".

Foto by Leonora


venerdì 2 gennaio 2009

Spunta la luna dal monte



Ho cominciato l'anno con un'energia positiva e questo 2009 per me è già ricco: di buone intenzioni. Leggo un'intervista ad Andrea Agnelli, figlio di Umberto, su sport e dintorni. Mi colpisce una frase su Sergio Marchionne, l'amministratore delegato della Fiat: "Lavora come un matto, dalle sei di mattina a mezzanotte. Ma i risultati si ottengono così. Naturale". Penso a quante volte in vita mia ho percepito il lavoro come altro rispetto alla vita, come ore buttate in un pozzo per dovere di sopravvivenza e scippate a ciò che invece c'è di bello, di saggio. Per fortuna, sono state eccezione. Di regola considero il lavoro parte stessa della vita e non un peso, bensì un'opportunità di essere un uomo migliore, di conoscere cose nuove, di incontrare persone, di instaurare relazioni e, sommato tutto, di realizzare me stesso. Credo che il segreto consista nel raggiungere una buona armonia e che le persone fortunate siano quelle che riescono a non dividere in compartimenti stagni la loro esistenza, di considerare lavoro e vita un tutt'uno. Un monte di cui contemplo la cima dalle falde.

Foto by Leonora