venerdì 30 settembre 2011

Buon compleanno Laura

La superbia. Se non conosco tra i vizi capitali l'invidia, sono tentato spesso dalla superbia. Talvolta allo stato puro (io buono, bravo, intelligente, compassionevole, l'altro stolto, arrogante, incompetente), altre volte mascherata da orgoglio, "machismo", cocciutaggine per una buona meta.
Umiltà. Ci vuole più umiltà. Lo riconosco ora, in un giorno ormai agli sgoccioli, ma che ha avuto la sua importanza. Era, è il compleanno di mia sorella, Laura, la persona più dolce, generosa, buona che conosca. La vita non lo è stato altrettanto, con lei, è il risultato è più sorprendente ancora, a dimostrazione che non importa quanti acri di terra ti abbia concesso madre natura, bensì la voglia di coltivarla e trarne frutto, contro ogni avversità e carestia.
Gli faccio gli auguri qui, scusandomi per le troppe distrazioni e ringraziandola per tutto ciò che è per me, per noi, cioè il regalo più grande: farci sentire una famiglia.

P.S. E in più, fa la torta di mele più deliziosa che abbia mai assaggiata.

Foto by Leonora

giovedì 29 settembre 2011

Dieci posti da sogno

Oggi non ho nulla da dire. Ma, a differenza delle donne di Oscar Wilde, quel nulla non lo so neppure dire bene.


Perciò, alzo le mani, m'arrendo e mi accontento di fare l'elenco incompleto dei posti dove vorrei essere e non sono.






  • Nella stanza della lanterna di un faro in Croazia, mentre fuori c'è burrasca.

  • Seduto a un tavolino di piazza delle Cinque Lune a Roma.

  • Con i piedi a mollo sulla battigia di Zanzibar.

  • Sulla quinta strada, a New York.

  • A mangiare gamberi e polpa di granchio su un molo della baia di San Francisco.

  • Su un divano a prendere il thé con la mia compagna di liceo, Carla Molteni, al King's college di Londra.

  • In una cantina da qualsiasi parte nelle Langhe, ad ascoltare un vecchio contadino che mi racconta come si produce il vino buono.

  • In una masseria della Puglia, da un altro vecchio contadino, mentre assaggio sul pane l'olio.

  • A potare cipressi in Val Chianina.

  • Davanti al computer, nella redazione di un giornale.

Per fortuna, almeno in uno di questi posti, stamattina sarò. E con i tempi che corrono non è poco.



Foto by Leonora

mercoledì 28 settembre 2011

Le cose brutte (ma io corro più veloce)

"Dentro ogni ragazza si cela una principessa". Lo leggo in un articolo che in anteprima mi ha proposto una collaboratrice del giornale (quando sarà pubblicato, metterò il link) e non mi è mai parso vero quanto adesso, che invece dentro mi sento sgraziato elefante, goffo bradipo, rospo.
Basta infatti poco per farmi cadere le braccia e diventare fumentino, scuro in volto e grigio dentro.
Poi ripenso a mio padre, al suo insegnamento, alla capacità di sorridere quando impazza il vento, poiché non esiste modo migliore di rispondere ai detrattori, agli invidiosi che restando sereni, sicuri di sè, positivi, senza scendere al loro livello, che immancabilmente è basso.
Lo spiego a Giorgia, che principessa lo è davvero, come tutte le bimbe di undici anni. Nei giorni scorsi ho scritto di Giovanni, di Giacomo e non di lei. Rimedio ora, per raccontare le paure che l'assalgono quando va a letto, rubandogli il sonno.
"Papà, penso sempre alle cose brutte" mi dice, con gli occhi lucidi. Le cose brutte sono la morte, la caduta di un aereo l'auto dove viaggiamo che casca in un canale e affonda, trascinandoci a fondo. Stralci di episodi realmenti accaduti da qualche parte nel mondo e letti sul giornale o ascoltati in tv, che nell'universo ovattato di una bambina si diffondono come eco in una valle dai mille monti uno di fronte all'altro.
Allora l'abbraccio, le dico parole rassicuranti, la prendo anche in giro, cercando di sottolineare con l'umorismo la possibilità di domarli, quei brutti pensieri, di riportarli alla proporzione che meritano, sgonfiando il gigante spropositato che sono. Più delle parole però vale il contatto fisico, quel tenerla stretta, mettere il mio viso accanto al suo, mentre la stanchezza per la lunga giornata introduce il sonno e scaccia l'incubo.
Cinque minuti dopo mi alzo da letto, quatto quatto, senza però riuscire ad uscire senza che lei apra un'ultima volta gli occhi e mi dica: "Papà, ti voglio benissimo".
E poi dovrei prendermela se al mondo c'è qualcuno che credendo di farmi un dispetto si dà una mazzata con il suo stesso martello?

Foto by Leonora





martedì 27 settembre 2011

Contro il mammonismo (Lasciamoli pedalare, ma davvero)

Completo un pensiero lasciato a metà - me ne rendo conto solo adesso - nel post precedente. Aggiungendo questo: non si fanno crescere i giovani, i ragazzi, a parole, bensì evitando di metterli sotto una cappa di vetro, non proteggendoli troppo, lasciando loro quella libertà che noi stessi abbiamo avuto ma che ora difficilmente concediamo. Un quesito semplice semplice, proprio in base all'esempio citato ieri: se mio figlio volesse prendere la bicicletta e a quindici anni, cioè adesso, andarsene con un paio di amici al lago di Ghirla, lo lascerei andare. O penserei: "Oddio, e il traffico? E se gli succede qualcosa? Almeno che abbia il cellulare. Ma deve proprio andare? Ma se facesse dieci volte avanti e indietro da qui a Gironico (il paese accanto al nostro) non sarebbe lo stesso? Non può aspettare l'anno prossimo?".
Il fatto, come riconosce Angelo - sì, lo stesso Angelo che veniva con me in bici a Ghirla - è che spesso vogliamo usare l'esperienza maturata negli anni e non soltanto metterla a disposizione dei nostri figli, ma anche imporla, senza tener conto che l'esperienza è giusto se la facciano loro, sbattendo pure il muso, a volte, ma imparando ad osare, cadere e rialzarsi, quando è il caso.
Siamo una generazione di mammoni e lo scrivo senza giudizi sprezzanti, sapendo che il primo ad esserlo sono io. Confondiamo la vicinanza con l'invadenza, lo stare a fianco con il mettersi davanti e tracciare il sentiero. Così facendo però non solo non scopriranno mai una strada loro, ma saranno pure deboli, passivi, dimessi, senza visione, oltre che uno spazio proprio.

Foto by Leonora

lunedì 26 settembre 2011

Forza giovani: lasciamoli pedalare

Pedala che ti passa. E in effetti ci doveva passare se in bicicletta, anni fa, percorrevamo distanze che ora fatichiamo a raggiungere in macchina.
Me ne sono accorto ieri, andando a Luino e passando per il lago di Ghirla.
D'estate con Angelo, quando avevamo quindici, sedici anni, partivamo di pomeriggio e non ci fermavamo per chilometri, con pausa in Valganna, appena dopo la galleria, in quella che adesso è un'enorme casa vuota ma allora ospitava ristorante, birreria. Poco prima, in uno spiazzo sulla destra, c'era sempre un venditore ambulante di frutta. Insieme compravamo mezzo chilo d'uva e lo mangiavamo, lavandola alla cascata d'acqua di fronte. Quando tornavamo invece, giunti a Lurate, era sosta obbligatoria al bar Bugnoni e la gara ricominciava, ma a suon di gelati al limone. Anche tre, quattro coppette per volta, io, Angelo altrettanti, ma preferiva i coni.
Questi però sono dettagli. Che importa è l'ardire, l'assenza di timore, di calcolo. Sessanta, settanta, cento chilometri in bicicletta e non da corsa, con i cambi, ma da donna. Non ci spaventava la fatica, la meta cancellava tutto ciò che stava nel mezzo. Il resto era un salto, pur se durava mezza giornata e ora, visto da qui, assomiglia a un'impresa se non folle, certo ardua.
Se lo scrivo qui è perché in quell'incoscienza sta tutta la grandezza dei giovani. E lo dico ora, che pur non farei cambio con i miei sedici anni in fatto di consapevolezza, di serenità, di soddisfazione per la vita. Ma il non porsi limiti, il coraggio, il cuor di leone, la generosità non hanno pari.
Perciò, se dipendesse da me, darei ai ragazzi più responsabilità civili, sociali, mentre accade l'esatto contrario: siamo un paese in cui ci si abbarbica al potere e non lo si molla fino agli spasimi. Perdendoci in due: i giovani, perché diventano vecchi senza poter contare, e i vecchi, perché si condannano a comandare mentre potrebbero passare il tempo godendosi appieno la pienezza degli anni.

Foto by Leonora

sabato 24 settembre 2011

Il dissuasore di talpe

So cos'è una gazzarra e senza bisogno di cercare la parola sui vocabolari.
Sdraiato sul terrazzo, all'ombra dell'ultimo sole senza neanche essere un pescatore, stavo leggendo un saggio di Edward W. Said, ascoltando prima la brezza del vento (un vento a cui, a dispetto della poesia di De Luca, non so associare un nome) e poi qualche canzone sull'iPod.
Tutt'attorno, nei prati, non c'era un rumore. Fino a che nella compilation anni Ottanta non è partita una canzone di Alison Moyet, Love resurrection. Due secondi dopo sei gazze, nere e bianche, bellissime, eleganti, come mai potrebbe essere neppure un abito di Giorgio Armani, sono planate sul faggio poco distante e a turno, ritmicamente, hanno cominciato a lanciare versi striduli, acuti, fortissimi, in una danza ch'è durata quanto la canzone. Poi, com'erano venute, se ne sono andate, lasciandomi a bocca aperta per quell'estemporanea esibizione. Il silenzio è tornato e nel pomeriggio di un settembre incantevole, non una mosca ha disturbato la quiete.
Oggi, senza Alison Moyet, le gazze sono tornate, ma senza far troppo chiasso, tenendosi distanti. Poco distanti, maestosi ma meno chic e pure un filo inquietanti, c'erano un paio di cornacchie e un corvo, nero pece. Nel prato qualche piuma di piccione: il loro banchetto, nel cerchio della vita che per ogni preda pretende un predatore.
Io, nel mio piccolo, cerco di farlo con le talpe, che in questo periodo devastano i prati. L'anno scorso le ho lasciate fare ed è stato un disastro. Quest'autunno provo un sistema diverso: ogni volta che sbucano in superfice lasciando una piramide, prima disperdo la terra in modo che non faccia danni all'erba, poi lascio cadere della saliva nel tunnel dove passano. La talpa avverte l'odore dell'uomo a metri di distanza e da lì non passa più.
La mia speranza è così che restino o se ne vadano al di là della recinzione, dove il prato è incolto e possono svernare in pace. Non so se ci riuscirò, in ogni caso mi sento assai fiero di questo passaggio nell'evoluzione di uomo: ieri cacciatore, oggi dissuasore.

Foto by Leonora

giovedì 22 settembre 2011

I nostri bambini e la violenza subdola

Non c'è soltanto uno schiaffo, il pizzico sul braccio, una pedata.
La violenza peggiore che possiamo fare ai bambini è far ricadere su di loro la colpa della nostra durezza, della nostra irragionevolezza.
Le lacrime del capriccio sono così differenti da quelle della sofferenza vera, che è terribile quando viene subita.
Una ventina di giorni fa ne ho avuto sulla mia pelle la riprova.
Dovevamo uscire, la sera, per andare a casa di amici. Poi, nei minuti precedenti, era successo qualcosa che mi era andato di traverso (non ricordo cosa, questo a testimonianza che sono una testa di cavolo vera).
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata l'insistenza di Isabella nel voler portare anche Giovanni (otto anni), che - impegnato come era con i suoi dinosauri e Lego e macchinine varie - ovviamente non ne voleva sapere ed è iniziata una lagna, con tanto di urla, lacrime, strepiti da parte sua, caricato comunque a forza sulla macchina. La tiritera era continuata fino a che, dopo un paio di chilometri, avevo fatto inversione di marcia ed ero tornato a casa, con conseguente litigio tra me e Isabella. Risultato: lei e Giorgia erano andate, io e Giovanni rimasti a casa.
Il peggio è successo appena loro sono ripartite ed io ho aperto la porta. Invece di assumermi le mie responsabilità me la sono presa con Giovanni, dicendogli in poche parole che se eravamo dovuti tornare, se avevamo rovinato la serata, se io e la mamma avevamo litigato era colpa sua. Il capriccio allora s'è trasformato in disperazione vera, palpabile, sfogata con voce strozzata. "Ma non dovevate ascoltarmi! Io venivo, ero in macchina!" mi ha detto.
Ed è lì che mi sono sentito una schifezza. L'ho preso in braccio, l'ho abbracciato e pentito di tanta mia cattiveria, con sua grande sorpresa gli ho detto: "E' vero Giovanni, non è colpa tua, ma mia, che sono nervoso e ho esagerato a prendermela. Tu non devi fare i capricci, ma tu non c'entri se se siamo tornati e abbiamo litigato".
Quello che ci siamo detti dopo - tra padre e figlio - non aggiunge, né toglie nulla a questa storia, perciò preferisco tenerlo per me. Dico soltanto che abbiamo visto insieme un film, un bel film, e quando è tornata Isabella ho chiesto scusa anche a lei. Abbiamo chiesto scusa: io per la parte mia, Giovanni per la sua. E tra le pur belle serate d'estate quella è stata ancora più bella.

Foto by Leonora

mercoledì 21 settembre 2011

Il valore dell'aria

Paola ha scritto al post precedente un commento bellissimo, di cui qui riporto il finale: "La crisi? E' una piega sulla fronte, un pensiero che attraversa la mente mentre vedi che un paese così bello come il nostro si arena in un pantano di fatti pesanti, di stupide (offensive) parole intercettate e in un modo di pensare, di vedere la vita, le donne, la famiglia, il futuro che non mi rappresenta (non ci rappresenta). La crisi è questo pensiero che continua, ancora, ancora e ancora a non avere voce."
Scrivo "crisi" e penso immediatamente, riflesso condizionato, a una questione di soldi.
Vorrei per un istante che sparissero ma non dalla banca (dove purtroppo se ne vanno davvero, cicala ingorda che dilapida anni e anni di formichina) bensì dalla testa.
Vorrei che nell'agenda degli interessi tornassero in testa quei valori immateriali che sono come l'aria che respiriamo: necessaria, indispensabile alla vita eppure data per scontata, tanto da neanche accorgerci che esiste.
Ne parlavo poche ore fa con una persona che non voglio nominare e che nel corso degli anni ha avuto una bella vita: auto, moto, barche. La cassa però s'è prosciugata e oggi l'ho sentito dire: "Al mattino esco senza soldi, così non li spendo, eppure sono felice lo stesso, godo più le cose semplici".
Per farlo, ha dovuto toccare il fondo, finire in ginocchio e persino subire umiliazioni.
Faccio un passo indietro, all'intervista di Terry De Nicolò e alle pecore che vivono a duemila euro al mese. Io le pecore e i leoni non li giudico dai soldi, ma dalla capacità di essere sereni, dalla saggezza nell'affrontare le cose, dalla stima che raccolgono tra chi li conosce bene, dal ricordo buono che lasciano.
Finiamola di mettere al primo posto i soldi, torniamo ad imparare come riuscire ad essere soddisfatti, felici, scoprendo particolari ora spesso lasciati nello sgabuzzino (gli affetti, le relazioni, la curiosità di imparare, il far funzionare il cervello, il culto della memoria, il gusto del bello, il sapore delle pietanze genuine...) e assaporandoli esattamente come quando dopo esser rimasti a lungo senza fiato sentiamo l'aria scendere nei polmoni.

Foto by Leonora

La crisi e le veline (Isabella's version)

C'è una saggezza nelle donne chsorprendente, poiché più frutto d'istinto che di riflessione. O almeno è ciò che penso io, che non ho verità in tasca, semmai mi limito ad osservare.
Oggi, a pranzo, Isabella si lamentava che Giacomo (prima liceo) non era ancora arrivato, che ci sono pochi bus, che sono strapieni, che se ne perdi uno poi l'altro c'è dopo un bel po', che le Fnm Autolinee dovrebbero provvedere, e perché nessuno lo dice, perché nessuno si lamenta, perché non lo scrivo io che pure lavoro in un giornale, che se non scrivo queste cose utili tanto vale che vada a lavorare, che per forza i giornali li comprano sempre meno, perché sono queste le battaglie della gente, che ora lo dice alle mamme, che bisogna fare una raccolta di firme, che è uno scandalo, una vergogna, un delusione.
All'apice della filippica borbottante, scorgendomi prima indispettito, poi sempre più distratto, mi ha puntato addosso gli occhi ed ha aggiunto: "Allora?".
"Allora che cosa?" ho risposto.
"Perché non mettono un bus in più, visto che lo prendono centinaia di studenti" ha ribadito.
E io lì non ci ho più visto e come sempre, quando perdo la pazienza, sono sbottato, dicendo che era ora di finirla, che il liceo l'ho fatto anch'io, che lo fanno tutti, e che se non si lamenta Giacomo non vedo perché dovremmo farne un dramma noi e, per concludere, quasi urlando ho chiosato: "E poi, ma non capisci che invece di metterne altri i bus li tagliano! Non te ne sei accorta? C'è la crisi!!!".
Silenzio. Occhi truci. I suoi occhi truci e silenzio. Ancora silenzio e sguardo tra lo sdegnato e l'offeso. Poi, ad un tratto, secche, taglienti, due parole: "Prima di tutto, abbassa la voce - mi ha detto - e poi, c'è la crisi c'è la crisi, ma intanto Cicciolina prende quattromila euro al mese per quando è stata in parlamento. E le veline altrettanto".
E' in quell'istante esatto che ho capito che i conti non tornano e che questo governo è nei guai, altro che per le pressioni del Fondo monetario internazionale o per le intercettazioni.

Foto by Leonora

martedì 20 settembre 2011

Fiocco azzurro (blog Sette giorni)

Oggi è un giorno speciale: sono diventato di nuovo padre.
No, niente carne della mia carne, il figlio di cui parlo si può vedere e persino toccare, anche se nell'essenza è impalpabile.
Sto parlando di un blog, che da oggi affiancherà questo. Si intitola Sette giorni (dal nome della rubrica che da tre anni tengo la domenica, sul giornale) e rispetto alle Venti righe sarà più professionale, non soltanto perché fa parte del sito de La Provincia, ma anche per il fatto che mi concentrerò su argomenti legati alla cronaca della città in cui abito e ai temi del presente e futuro dell'informazione.
Sul resto ho poco da dire e molto da scrivere: nei prossimi giorni, mesi, anni.
Aggiungo soltanto una curiosità, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, inducendomi ad aprire un nuovo blog, proprio nei giorni in cui ci stavo pensando ed ero anche un poco indeciso sull'opportunità di farlo o meno. Poi, domenica scorsa, tornando dalla partita di Giacomo sono passato dalla cucina di mia madre, trovandola intenta a leggere. Non un libro, un quotidiano di carta, un giornale, bensì l'edizione su iPad de La Provincia, con una naturalezza, una facilità da lasciarmi basito. Non solo. A un certo punto Giorgia, undici anni, voleva guardare anche lei, ma l'applicazione si è chiusa e non riusciva a raccapezzarsi. In suo soccorso è tornata la nonna, che ha preso l'iPad, ha toccato lo schermo e le ha detto: "E' questo il bottone, se metti un dito qui si apre".
Non ho avuto parole. "Il futuro è già qui - ho pensato tra me e me - non possiamo più perdere tempo e aspettare". Sette giorni è nato lì, una mattina grigia eppure luminosa di settembre.

Foto by Leonora


lunedì 19 settembre 2011

Non smettere mai di sognare

Non smettere mai di sognare. L'ho detto ieri, a Giacomo, prima che scendesse dall'auto ed entrasse nello spogliatoio, per la prima partita del campionato (Regionale eccellenza giovanissimi A: Faloppiese contro Insubria).
Non smettere mai di sognare lo diceva sempre mio padre e anch'io - che a volte lo scordo, preso come sono dal caricarmi sulle spalle il contingente - ho sempre avuto cari i sogni, le aspirazioni, i progetti, i desideri, anche quelli immensi, impossibili.
Giacomo, a differenza dell'anno scorso, in campo non è partito titolare.
Giusto così. Di notte evidentemente qualcuno lo tira per i piedi ed è diventato ancora più alto, superando il metro e ottanta nonostante i suoi quattordici anni. Ed è magro. Non magrissimo. Anzi, bello tosto. Ma asciutto. E così alto da sembrarlo ancora di più.
Sta di fatto che rispetto a un paio d'anni fa qualcosa ha perso in smalto e molto altro deve ancora riequilibrarsi, in quel corpo d'albatro che stenta a spiegare le ali.
Comunque sia, ieri è entrato che mancavano dieci minuti, non combinando gran che fino al primo di recupero, quando su un passaggio teso ha stoppato la palla non perfettamente: cinquanta centimetri di troppo verso destra, che sembravano essergli costati il pallone.
Invece no. Con un calcio potente è riuscito a scagliarlo dritto come un fuso nella rete. Un gol spettacolare, che ha consentito alla Faloppiese di pareggiare. Ma la cosa più bella è avvenuta un istante dopo, quando Giacomo, pazzo di felicità, ha cominciato a correre verso il centrocampo cercando lo sguardo dell'allenatore, che a sua volta era scattato dalla panchina, modello Mourinho, con una rapidità che pure Usain Bolt sarebbe stato battuto senza fiatare. Si sono incrociati nel cerchio di centrocampo e abbracciati d'instinto, con una gioia, una foga commovente.
Quell'abbraccio è stato il regalo più bello che Giacomo potesse farmi, perché ha dimostrato di non lasciarsi cadere le braccia, di sapere accettare le scelte di chi è più grande di lui, di essere più intelligente del suo stesso genitore, che come tutti i genitori - anche se non lo dice né lo ammetterebbe, neppure con una pistola puntata sul crapone - pensa di essere lui stesso più bravo, più scaltro, più capace di qualsiasi allenatore.
"Sai papà - mi ha detto Giacomo, quando è salito in macchina e io facevo la faccia seria, di quello che vuol fare intendere che non gliene importa nulla ma ha un sorriso da un orecchio all'altro, difficile da dissimulare - sai papà, sono contento di aver segnato soprattutto per l'allenatore, perché io ero lì, in panchina, e sentivo come ci teneva, come era teso per questa partita, quanto desiderava vincere o almeno non perdere. E' per quello che appena ho visto il pallone entrare sono corso da lui, era quello che se lo meritava di più".
Bravo Giacomo, tuo padre è orgoglioso di te, anche se non te lo dice e preferisce scriverlo qua, senza doverti guardare negli occhi, che se no si imbarazza e imparpaglia pure. Ora sai che non è importante partire titolare, che si può anche stare seduti in panchina per partite e partite e partite, ma basta un minuto per ripagarti di rabbia, sconforto e delusione. Non perdere mai la speranza di trovarlo quel minuto, non smettere mai di sognare.

Foto by Leonora

domenica 18 settembre 2011

La perla sotto il tappeto (ci deve essere, basta trovarla

Lo ammetto, non ce l'ho fatta. Mi hanno massacrato i cabasisi, picchiato ai fianchi per due giorni, chiuso all'angolo e pestato come Alì contro Foreman a Kinshasa. Alla fine io, a differenza di Alì, sono andato al tappeto. Sotto il tappeto, in quel luogo dove generalmente si getta la polvere che Terry De Nicolò (ebbene sì, è della sua intervista che parlo) ha tirato fuori spacciandocela per oro che luccica.
Abituato ai miei cent'anni da pecora, non è che mi sia stupito sentendomi dire come si diventa leone. Lo so benissimo e se non lo dico chiaro e netto è perché mi pare perfettamente inutile, lo sanno tutti, esattamente come tutti sanno come si espletano i bisogni intestinali ma non è che poi ci rilascio un'intervista o ci scrivo un libro o scateno migliaia di commenti, tra cui il mio, non raro esempio di predicare bene e razzolare male.
Chiedo ammenda per la mia debolezza, dunque, tramite questa umilissima confessione. A differenza di molti peccati commessi in vita mia, di questo tuttavia mi pento, amaramente, tanto che al minuto tre e ventidue secondi ho interrotto il filmato e sono tornato qui, cosparso di cenere. Con un traguardo, un obiettivo da raggiungere e per cui mi occorre un aiuto dall'alto, essendo impresa improba per qualsiasi essere umano scovare e leggersi tutte le intercettazioni, al solo scopo d'ottenere risposta a una domanda semplice semplice: "Ma in questo spaccato di mondo scintillante e putrido insieme, c'è uno straccio di telefonata, un dialogo, anche solo un sms in cui qualcuno, qualcuna dica qualcosa di serio, di dignitoso, di non sconveniente?".
Che ne so, una vent'enne che quando le propongono la casa del grande fratello dopo le lenzuola del piccolo nonno dica: "Ma mi faccia il piacere!". Oppure un politico, un funzionario pubblico, un professinista, un imprenditore che invitato in modo allusivo ai party delle mille tette risponda: "Brutti zozzoni, vergognatevi!".
Non scherziamo, ce ne dev'essere almeno una, fra tutte le intercettazioni.
Per chi la trova, metto una taglia, con premio. Una pizza assieme. Pizza e birra e basta, perché mica sono un leone, bensì una bella (bella?) pecora anche un po' incazzata, con i miei bei duemila euro al mese e la barba quasi bianca.
Foto by Leonora

sabato 17 settembre 2011

Godersi la vita senza venderla

E Dio creò la colpa, perché la perfezione avrebbe reso l'uomo pazzo. M’è venuto in mente stamane, mentre facevo scendere dal distributore automatico una bottiglietta d’acqua e pensavo che davvero sono di poche pretese, che mi accontento.
“E se dovessero levarmi tutto?” ho pensato.

La salute, i figli, gli amici più cari… Anche la casa, la mia casa. Le cose importanti insomma.

No, quelle no. Ma il resto? I piccoli privilegi che pian piano uno si conquista, i benefici di un lento e paziente accumulo?
Sto uscendo dal seminato, ritorno al punto. L’asceta che non ha desideri o, peggio, che non conosce vizi, rischia una durezza che schianta chi gli sta accanto.

Pur essendo immune da alcuni vizi (invidia, avarizia, ingordigia, brama di potere e ricchezza...) sono comprensivo con chi ne è ostaggio poiché conosco i punti deboli, le tentazioni, gli errori che commetto io stesso.

Cambio pagina, nel senso letterale, e mi imbatto nelle intercettazioni su Berlusconi, Tarantini e tutto il circo Togni (mi perdoni il buon Togni) che si portavano appresso.

I commenti sulla faccenda si sprecano e non sarò io a estrarre dalla custodia il trombone per aggiungere all'ampio coro il mio fiato. Del resto, su un uomo che si vanta in una sera di averne avute alla porta undici ragazze ma di essersela spassata soltanto con otto, avevo già scritto tempo fa. Stavolta cambio spartito, o almeno soggetto, mettendo a fuoco l'altra parte del letto. Non è più lui, il satrapo, bensì le cortigiane che mi lasciano stupito.

Leggo un passaggio di Guido Ruotolo ("La Stampa") in cui si scrive dell'insistenza con cui Tarantini convinceva le ragazze a concedersi al primo ministro. "Chi è fidanzata e non vuole tradire, chi è a Parigi...". Faticava, nell'opera di persuasione, ma alla fine riusciva.

Ed è qui che mi fermo. Perché se penso a me stesso sulla soglia degli ottant'anni, come ho già detto in un post di un anno fa, mi immagino su una panchina sotto il faggio, a giocare con in braccio i nipoti o a leggere un libro e non in un guazzabuglio di gambe e seni da far venire l'infarto pure a un toro.

Ammesso che io possa impazzire, che la lussuria sia l'ultimo appiglio a una vita che mi sta sfuggendo di mano, vorrei che "chi è fidanzata" e ha sessant'anni meno dell'uomo che la vuole concupire voglia continuare a "non tradire" il suo fidanzato e che "chi è a Parigi" non si sogni nemmeno di tornare e se ne stia là, a godersi l'esistenza al meglio.

Se la domanda è incontrollabile, sull'offerta possiamo immaginare un freno?

Non posso infatti assicurare - ahimè - sulla mia salute mentale e sulle derive che possa prendere una navicella svuotata di regole e allo sbando, però posso insegnare qui e ora a mia figlia Giorgia la linea neppure troppo sottile tra il giusto e lo sbagliato, tra l'ambizione e la decenza, tra la frivolezza e la dignità del proprio corpo, oltre che dello spirito. Godersi la vita non significa venderla, neppure a caro prezzo. Perché una volta che l'hai venduta, non è più tua.



Foto by Leonora

venerdì 16 settembre 2011

Giuseppe, Fortuna e la magia di Lampedusa

Sì, viaggiare.
Esiste un incipit più banale del copiare una canzone di Battisti? Non credo.
Cerco di farmi perdonare prendendo a prestito le parole che un'amica, Sabine, tedesca di origine ma ormai italiana di cuore e spirito, mi ha scritto in un messaggio, a proposito di un suo recente soggiorno su una delle isole incantevoli del Mediterraneo.
Lo scrivo qua perché così prolungo l'estate e mi sembra di essere là dov'è stata lei e dove un giorno, spero, andrò anch'io.

"Sono stata a Lampedusa poco fa e mi sono innamorata pazzamente dell'isola, delle persone, del posto, dell'alberghetto in cui sono stata con una mia amica. E del cibo siciliano, che adoro già da qualche tempo. Il pescatore Giuseppe, un uomo di 68 anni ma che ne dimostra molti di più, porta i turisti con la sua barca e fa il giro dell'isola. Con timidezza, cerca di spiegare tutto ciò che conosce del mare, di quel fazzoletto di terra emersa, senza stancarsi delle nostre domande insistenti e curiose. Ho conosciuto una famiglia con due ragazzi, lui di 11 anni, lei di 14 anni, che sono venuti già tre volte sull'isola e ogni volta si fanno portare fuori da Giuseppe. Senz'altro, hanno detto, torneranno una quarta volta e non soltanto per il cibo buono, che prepara direttamente sulla barca. In via Roma, la "via principale", abitano due sorelle, Fortuna e Francesca, ciascuna con il suo negozio. Ti dico soltanto che appena siamo entrate, prima ancora di acquistare qualcosa - e in seguito abbiamo acquistato parecchio - Fortuna ci ha invitato per un caffè. Le siamo entrate subito in simpatia e così lei per noi: sono queste le cose belle, che mi fanno vivere bene. Prima di artire per il ritorno a casa ci ha dato un suo biglietto da visita. Se abbiamo voglia di fare una telefonata, lei ci sarà, ci ha detto. Dimenticavo: non abbiamo potuto incontrare neanche uno profugo. Strano. L'isola a sentire tg e giornali ne è talmente piena da non fanno arrivare i turisti...... Buona giornata, Sabine".

Foto by Leonora

giovedì 15 settembre 2011

Porto Kaleo: una recensione

Che mi sia piaciuto l'ho già scritto, però sul Porto Kaleo ho promesso una recensione e una recensione qui la metto. Non è mia, ma di un altro ospite, più severo di me nel giudizio.

Preferisco la sua, perché sono convinto che è solo alzando l'asticella si possa imparare a saltare più in alto. Conoscendo i proprietari del villaggio, so che terranno conto di ciò che c'è scritto, sorridendo per le cose che vanno bene e sforzandosi di cambiare quelle che si possono migliorare. In ogni caso, troverete in neretto qualche nota a margine, scritta di mio pugno. Il succo del mio giudizio è questo: per me Porto Kaleo è un ottimo villaggio, con alcuni aspetti da migliorare ma che ripaga alla grande il rapporto qualità prezzo.

Ho soggiornato a Porto Kaleo la prima settimana di Settembre 2011 con mia moglie e i miei due figli di 3 e 6 anni, alloggiando in una “family suite”. (le "family suite" sono ampie e belle, perché tutte al piano superiore, con tanto di terrazzo)

La vacanza ci ha lasciato in generale un ricordo abbastanza positivo, nonostante diversi aspetti da migliorare.

Tra i punti di forza metterei al primo posto l’ubicazione del villaggio, una buona struttura con una ventina d’anni sulle spalle portati discretamente, adiacente ad una riserva naturale che tutela un mare bello e pulito, anche se non paragonabile alla Sardegna, e una spiaggia dalla sabbia grossa ma non fastidiosa ben gestita dall’ottimo Antonello, al quale è affidata anche la gestione degli ombrelloni, ben distanti l’uno dall’altro. (concordo)

Per chi non sa nuotare, segnalo che il fondale degrada, si, ma in modo abbastanza repentino.

Il noleggio gratuito di varie tipologie di natanti come canoe, windsurf e barche a vela consentono di diversificare le attività della giornata, ritmate altresì da un’animazione molto efficiente e, almeno in spiaggia, discreta. (c'è un po' di coda per quanto riguarda le canoe a due o tre posti, può capitare di dover attendere un dieci minuti prima di salirci; sempre disponibili quelle singole)

I 400 m che separano la spiaggia dal villaggio sono ben coperti da un trenino elettrico che accompagna i turisti in modo pressoché continuo e comunque si possono tranquillamente percorrere anche a piedi in un viale non trafficato. (io andavo sempre a piedi; l'anno scorso dicono ci fosse un trattore geniticamente modificato, ora il trenino elettrico è perfetto, oltre che ecologico)

Anche le piscine mi sono piaciute.

Sono pulite, sicure e non troppo affollate, inoltre la più piccola prospiciente alle family suite è meno frequentata e consente anche un po’ di nuoto libero soprattutto nel tardo pomeriggio.

Grande affluenza, invece, sugli scivoli della piscina grande dove purtroppo le normali regole di condotta civile sembrano dimenticate e ciò che più sconcerta è che sovente sono i genitori stessi che inducono i figli a saltare le code, anzi, usandoli come teste di ponte per conquistare posizioni in fila. (io agli scivoli non ho incontrato molti maleducati; il tempo di attesa per quelli più ripidi sono dieci secondi, mentre un paio di minuti occorrono per chi vuole scendere dai due con le curve)

Le camere sono spaziose, confortevoli e pulite e all’occorrenza le richieste eccezionali come un cuscino o un asciugamano supplementari vengono esaudite dal discreto personale addetto. (verissimo: ogni giorno cambiavano teli, asciugamani e fornivano di bagnoschiuma in abbondanza, cosa che ormai non capita più nemmeno negli hotel più costosi)

In generale il servizio è buono e tutti gli operatori, camerieri, animatori, inservienti, receptionist si sono dimostrati professionali e disponibili.

Tra gli animatori mi sento di evidenziare la fenomenale Natasha che la sera canta, balla, recita con un talento e una professionalità degna di un’artista di Broadway e di giorno insegna umilmente acquagym in spiaggia. (l'animazione - in qualsiasi struttura sia ospite - non mi vede neppure dipinto sul muro, però erano davvero bravi, anche negli spettacoli serali. A me era simpatico il capo animazione, Diego, a parte il tastierista, Mauro, che è cresciuto con me all'oratorio ed è bravissimo. Bellissima, ma bellissima davvero, la ballerina di tango, Ilaria credo)

Passiamo in rassegna ora agli aspetti da migliorare.

Il primo che mi sovviene è la qualità e la gestione del cibo al ristorante. Abbiamo trovato una certa ridondanza di piatti di qualità per altro mediamente non eccellente. Cotture approssimative, poca varietà e poca ricercatezza. (in parte concordo: credo che il problema principale sia la varietà. I primi due giorni mi sembrava tutto buono, poi - complici le abbuffate iniziali - ho cominciato a notare qualche pecca e i sapori mi parevano sempre uguali)

Curioso come la creatività influisca solo la denominazione dei piatti: una torta bianca può essere presentata come una torronita o una cassata siciliana o un semifreddo al cocco….ma sa sempre di panna e ricotta.

Gelato giallo? Spacciato per gusto crema o zabaione o zuppa inglese, indifferente….ma in bocca è vaniglia.

Trancio di pesce? Mi è stato presentato come trancio di branzino, che notoriamente si taglia a filetti e non a tranci. Infatti era un pesce spada. Bah! (non "Bah", ma "Beh": beh, lì era colpa del cameriere, che sorrideva ed era gentilissimo, ma neanche sapeva cosa metteva nel piatto)

Anche in questo caso, al ristorante, sarebbe auspicabile l’abolizione del self service al buffet, a favore di operatori che distribuiscano in modo equo e civile le pietanze. Meno libertà ma più democrazia. (io, in questo caso - e ormai solo in questo caso - sono per il Popolo della Libertà: viva il buffet. Anche perché sceglievo orari in cui l'orda dei primi ad accorrere al banchetto fosse passata e i camerieri riportassero nuovi vassoi con tutto)

Lo scenario che si presenta ai pasti, infatti, è talmente sconcertante da chiedersi se certa gente sia stata a digiuno per giorni prima di giungere a Porto Kaleo. (sconcertante è un termine forte, però un po' è vero: ma quanto mangia certa gente?)

Già alle 13 o alle 20 si trovano i vassoi degli antipasti saccheggiati da orde di ingordi che prelevano portate smisurate di cibo, per altro spesso abbandonate sui tavoli senza essere state consumate dai medesimi, cosa moralmente disdicevole. (concordo sul "moralmente disdicevole")

A poco valgono le compensazioni di un imbarazzato metre in quanto ad ogni nuova uscita dalla cucina i vassoi vengono assaliti dai soliti invasati. (qui c'è da dire che il mitico recensore - che ringrazio per la schiettezza - era anche sfortunato, tipo Fantozzi, perché io gli invasati riuscivo quasi sempre ad evitarli)

Alcuni piatti li ho sentiti solo raccontare e non ho mai avuto il piacere di degustarli (gamberi, cozze, seppie….apprezzati solo nei piatti altrui).

L’assenza di un’educazione civica porta i voraci predatori a vantare i propri trofei senza pudore anche in pubblico: “ Stamane mi son portato via 20 monoporzioni di Nutella” ; “ Mi sono fatto 3 piatti di cozze”; “ Tengo occultati nello zaino 5 panini col prosciutto prelevati abusivamente al ristorante, così me li mangio dopocena (!) ” (purtroppo questo è clamorosamente vero!)

In una fila per i dessert sono stato speronato dalla pancia e poi superato da una bambina che con gli occhi sgranati ha richiesto 8 coppette di gelato 8….ed era il secondo giro. (l'ho vista anch'io, c'era davvero!)

Deducendo anche dalle braccia aperte e rassegnate dei camerieri, che la linea di condotta era assolutamente abituale per la struttura, ho riposto ogni velleità di ribellione o incazzatura nel subire tutte queste piccole ma fastidiose ingiustizie, limitandomi a segnalare con ironia gli abusi ai protagonisti – o ai loro genitori - nell’illusione di impartire un minimo di senso civico educazione.

In alcune occasioni, questi valori vengono purtroppo compromessi anche dall’animazione e indirettamente dalla direzione generale che dovrebbe essere deputata ad organizzare gli orari degli eventi interni al villaggio.

Mi riferisco agli spettacoli serali che si svolgono nell’arena poco distante dalle family suite.

Il volume degli altoparlanti è talmente alto da essere fastidiosamente distorto e gli orari non sono certo rispettosi del sonno dei bambini. Gli inviti di diverse famiglie a riconsiderare decibel e timing non hanno avuto successo e la musica da discoteca ad alto volume è garantita tutte le notti fino all’1 se non oltre. (è vero, ma soprattutto è un disagio che si avverte il primo giorno, poiché nel resto del soggiorno si è talmente stanchi e soddisfatti che ci si addormenta lo stesso)

A mio parere la Proprietà di questa struttura dalle grandi potenzialità, sebbene ovviamente incolpevole in merito all’educazione civica dei turisti, potrebbe con una miglior organizzazione risolvere concretamente e nel breve diversi punti di debolezza e offrire un servizio d’eccellenza valorizzando un sito meritevole. (concordo. Ripetendo ciò che è già stato scritto: la maleducazione di molti ospiti non è imputabile alla proprietà. Ma questo è un problema che non si limita al Porto Kaleo. Credo che se i gestori di albergo potessero permettersi di selezionare la clientela all'ingresso, metà dei clienti sarebbero esclusi. A volte pensiamo che pagare un servizio dia il diritto di essere padroni in casa d'altri, fino all'abuso).

mercoledì 14 settembre 2011

Calabria: l'educazione civica, i ceci tostati e lo scempio

Rimando di un giorno la recensione del villaggio Porto Kaleo (tanto sta chiudendo e fino al giugno prossimo non riapre) per due parole sulla Calabria.
Scrive Cafecaracas a commento del post che precede questo: "La vacanza piu' bella della mia vita l'ho passata proprio in Calabria, a Soverato. L'accoglienza, l'ospitalità, la gentilezza che trovammo lì, ci sorprese e ci fece riflettere sui nostri stupidi preconcetti".
Verissimo. Ospitalità, gentilezza, accoglienza li ho sperimentati anch'io.
Non solo. Mi ha affascinato il racconto di un signore di Arezzo, che a Marinella di Cutro andava a fare campeggio libero trent'anni addietro, quando non esistevano alberghi e strutture attrezzate ma unicamente sperdute case di contadini. Uomini e donne dai volti segnati dal sole e dalla terra grigia di quelle parti, persone d'una povertà che faceva spavento ma che non accettavano soldi o compensi per le verdure che andavi a chieder loro, per abbinare alla carne il companatico. "Gli uomini - ci ha detto il toscano, che nel frattempo s'è costruito una casetta a Scalea - quando ti fermavi a chiacchierare un minuto, avevano sempre in tasca dei ceci tostati, che ti offrivano al momento del congedo, in segno di amicizia. E le donne guai a farti pagare quattro uova o mezzo chilo di pomodori. Per lasciare un mille lire dovevo fare i salti mortali e, quasi sempre, lasciarli sul tavolo e scappare, mentre erano affaccendati in qualcos'altro".
Una fierezza e una generosità senza pari, come dicevo, ed è questa la Calabria che tuttora ci fa restare ammirati, quella che leggevamo nei libri di Alvaro, una terra aspra eppure per molti aspetti del tutto simile a mille altre zone rurali d'Italia, da Ragusa a Bolzano.
Ma c'è un'altra Calabria che in tutta onestà e schiettezza detesto. E' la Calabria dei paesi dove le case sono tutte appiccicate, brutte, quasi sempre senza intonaco oppure non finite o lasciate a metà, con enormi pilastri di cemento, il tetto e qualche parte finita qua e là, a seconda del caso.
E più ancora la Calabria dell'immondizia lasciata ai bordi delle strade, lungo i sentieri incantevoli che dal mare si inerpicano sui rilievi circostanti, sulle spiagge: bottiglie, sacchetti di plastica, imballaggi di polistirolo, vecchi frigoriferi, sacchi neri, pneumatici... Di tutto.
Non ne conosco la ragione, non so perché avvenga, come mai non si abbia cura della propria terra, della culla stessa in cui ogni essere umano lì è cresciuto.
So di rischiare il ridicolo, proponendo soluzioni a problemi complessi e profondi e che sono intrecciati con la natura stessa di una gente che non conosco a fondo. Tuttavia, sforzandomi di pensare che la via migliore che unisce due punti sia sempre la linea retta, ho un suggerimento: cinque ore settimanali di educazione civica in tutte le scuole della penisola, dalle elementari fino al liceo.
Se non possiamo convincere gli adulti dello scempio che attuano, proviamo a formare i nostri figli, insegnando loro che non si gettano i rifiuti per terra, non si abbandonano, che occorre avere rispetto per l'ambiente, in qualche modo preservarlo, custodirlo.
Ore e ore di educazione civica, sia teorica, mostrando il disastro che viene compiuto da chi è incivile, sia applicata sul campo, portando tutti i ragazzi in età scolare a pulire, a eliminare e in qualche modo compensare ciò che generazioni di nonni e di padri ha creato. I figli devono essere coinvolti e responsabilizzati in prima persona, in modo che quando tornano a casa diventino loro i paladini del buon costume e pretendano dai genitori un comportamento più congruo, assillandoli e stressandoli finché la smetteranno di essere sciatti, di comportarsi come se l'intero creato non sia altro che una fogna, dove abbandonare il superfluo.

Foto by Leonora

martedì 13 settembre 2011

Porto Kaleo e la donna che l'ha inventato

Non c'è il due senza il tre: che il tre sia.
Dopo Antonello e Massimo, ecco la terza persona che ho incontrato in vacanza. Una donna. Due donne. Una famiglia anzi.
Un passo indietro: il villaggio in cui siamo stati si chiama Porto Kaleo, a Marinella di Cutro (domani metto un post con il giudizio sulla struttura stilato da un amico di cui mi fido, aggiungendo anche il parere mio).
Al quarto giorno che ero lì, notando una cura, un'attenzione ai particolari insolita per strutture così grandi, mentre mi crogiolavo al sole ho detto a Isabella: "Mi piacerebbe conoscere il direttore, domandargli come fa a gestirlo così".
Isabella, che se avesse fatto la giornalista avrebbe fatto un baffo a "Dagospia", mi ha spiegato che non esisteva un direttore. O meglio, che il villaggio non è proprietà di un grande gruppo, bensì di una famiglia e che una delle sorelle era la signora gentile che ci aveva accolto, la prima sera.
Salto i convenevoli. Con quella signora (Paola) ho parlato, scoprendo una storia che merita di essere raccontata.
Il villaggio è stato costruito, vent'anni fa, da una donna. Il suo nome è Carla Rettura, moglie di Michelangelo Notarianni, un calabrese diventato ingegnere a Pisa e imprenditore di materie plastiche nella sua terra d'origine (sulla sponda tirrenica), è la mamma di Paola. Alla fine degli anni Ottanta, quando il turismo era visione di pochi e non frutto di una strategia, fu lei a decidere di trasformare quel fazzoletto di terra brulla, a trecento metri dal mare, in un complesso dotato di parco acquatico, campi da tennis, calcetto, teatro all'aperto e trecento camere, tenute in ordine, con precisione svizzera.
All'inizio era in società con un gruppo più grande, poi - dopo un avvio stentato - decise di rilevare tutte e quante le quote e di occuparsi anche della gestione in prima persona.
"Chi non è calabrese - mi ha detto sua figlia - non può capire cosa significhi non soltanto essere una donna, qui, ma essere una donna imprenditrice. Mia madre diceva agli operai: quell'albero lo pianterei lì e loro nemmeno l'ascoltavano. Pretendevano che decidesse un uomo".
Paola parla di sua madre con trasporto e insieme una tenerezza contagiosa. Il giorno dopo ce la presenta. La signora Carla è una signora colta, d'una dolcezza di sostanza e non di facciata, che fa velo però su una tempra d'acciaio e una determinazione straordinaria. Carla ha una scintilla negli occhi, mentre parla, e una modestia pari soltanto alla cortesia. Scambiamo quattro chiacchiere, poco per conoscere meglio l'intera storia, abbastanza per capire cosa gli sta più a cuore, il motivo che la rende orgogliosa: che i figli vadano d'accordo, che ciò ch'è stato costruito non vada in malora e soprattutto non crei divisioni, bensì unisca la famiglia. I figli, come detto, sono quattro: Paola Notarianni, che ha studiato architettura, vive a Firenze e aiuta nei mesi di apertura; Simona, che si occupa della gestione in prima persona; Giovanni, al quale sono delegate le questioni amminisrative; Gabriella, che vive e insegna negli Stati Uniti, a Pasadena.
La chiudo qua, perché lì ero un normale turista e non un giornalista curioso, che poteva permettersi domande irriverenti.
Aggiungo soltanto, chiudendo la parentesi delle persone incontrate in vacanza, il filo rosso che le accomuna: in un tempo di crisi, quando aprire i quotidiani ogni giorno è una ferita e un macigno di sofferenza, loro sono un esempio positivo, di gente seria, che lotta in ciò che crede, che si distingue, che non si fa cadere le braccia, che mi fa dire: "Nonostante tutto, ce la faremo, non sarà per questa nostra Italia il capolinea".

P.S. Per chi mi conosce è inutile scriverlo, per tutti gli altri lo metto così da evitare sospetti o dietrologie maliziose: al Porto Kaleo non ho avuto un euro di sconto o un favore in più di quelli concessi alla normale clientela. E non accadrà in futuro, per il semplice fatto che con Isabella non siamo tornati in un posto dove siamo già stati in vacanza. Anche questo, come tutti gli altri, è un commento all'insegna della gratuità, verso gente che se l'è meritato, per semplice riconoscenza.
Mi scuso anche per eventuali imprecisioni: al mare non porto taccuini, solo buona volontà e memoria.

Foto by Leonora

lunedì 12 settembre 2011

In barba al disagio

Ho fatto crescere la barba.

Una quisquilia insignificante, una facezia che non meriterebbe lontana menzione, se non fosse che stasera, tornando a casa e scorgendo la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore dell'auto, mi si è insinuato un pensiero, un dubbio, insistente quanto un tarlo, pervicace come quegli insetti che s'intrufolano nella mela e la lasciano splendida all'esterno ma bacata dentro.

Il sospetto è questo: c'è un significato recondito nel farsi crescere la barba? O peggio: farsi crescere la barba può essere la manifestazione inconscia di un disagio interiore, di un ostacolo che si stenta a superare, ad affrontare e pure a riconoscere?

Non è un pensiero casuale. Il due più due m'è venuto allorché al mio volto nello specchio s'è sovrapposto quello di un amico che, anni e anni fa, comincio a farsi crescere una barba che divento presto lunga fino al petto. Faceva l'assessore e aveva cominciato a non andar d'accordo con il sindaco, con i colleghi di giunta, a cui era legato da un rapporto prima fraterno e poi sempre più freddo, staccato. Era stato Angelo, credo, a dirmelo: "Fa crescere la barba per esprimere disappunto, tormento". "E che cavolo, non fa prima a dirlo?" avevo replicato io, squadrato come un legno di robinia ed elementare nell'approccio, con quei due neuroni che essendo appunto due non potevano conoscere altro percorso mentale di quello diretto, avanti e indietro.

Quel ragazzo, quell'uomo anzi, perché i trent'anni lio aveva superati da un pezzo, alla fine si dimise, ma fu uno strappo che lo lasciò lacerato, almeno per quanto riguarda l'impegno pubblico.

Il fatto si ripropose qualche anno dopo. Allora fu un collega che si fece crescere la barba e un altro amico, Mauro, a dire: "E sì, è in crisi con il mondo ed è il modo di mostrarlo senza dirlo". "Ci risiamo - pensai - quanto è complicato il mondo!".

Oggi però un'ombra m'ha accompagnato nel cammino. "E se capitasse anche a me? E se anch'io stessi rivelando a chi mi sta attorno e per primo a me un cruccio, un groppo?" ho riflettuto, spegnendo il motore dell'auto.

Poi ho chiuso il garage, ho percorso il viale del giardino, ho aperto la porta di casa, ho fatto le due rampe di scale, sono entrato in anticamera, ho slacciato la cravatta, ho aperto il primo bottone della camicia e nell'istante stesso in cui mi sono seduto, di fronte a un piatto di lasagnette al sugo di funghi, mentre con le mani aggiungevo una spruzzata di Parmigiano, ho capito che disagio o non disagio interiore io sto benissimo, mi sento un uomo felice, fortunato. E che la barba, almeno per me, non dice nulla se non la pigrizia di farla e la voglia di essere, una settimana all'anno, un po' diverso dal solito Giorgio. La tengo ancora qualche giorno, poi la taglio.



Foto by Leonora

Primo giorno di scuola, nessuno escluso

Per la professoressa Milani, che mi ha salvato in terza liceo.
Per le suore del Santa Chiara e tutti i compagni delle elementari che non ho più rivisto.
Per L'Emilio Bollini e la "sciùra segretaria" Anna Maria, che erano l'intero "personale non docente" della sezione staccata del Giovio.
Per il ciclostile, che stampava fogli difficili da decrittare modello dispacci di "Enigma".
Per il benedetto intervallo e le ore di ginnastica.
Per i compiti a casa che dovevo copiare la mattina presto.
Per le lezioni di latino che cercavo di imparare la sera tardi.
Per ogni volta che mi sono alzato alle sette sbuffando come un bufalo, giurando che la sera sarei andato a letto "alle nove, macché alle nove, alle otto, alle sette!" e poi la sera arrivavano le undici e stavo ancora guardando la tv, perdendo tempo.
Per le schiacciatine che si sbriciolavano in cartella.
Per la cartella di pelle marrone e parte superiore in cavallino (pelo vero!) che avevo in prima elementare.
Per l'elastico con fibia che alle medie usavo invece della cartella, stringendo libri, quaderni e l'astuccio.
Per gli esami a settembre di inglese, matematica e un paio d'anni anche latino.
Per Giacomo, che domani comincia il liceo.
Per me, che il liceo - non so come - l'ho finito senza mai essere bocciato.
Per la "mitica curva", i compagni nei banchi della zona ad angolo del ferro di cavallo.
Per la fortuna di essere il numero uno, almeno nell'elenco degli studenti sul registro di classe.
Per la Miorin (Tiziana?), che aveva un anno meno di me e chissà che fine ha fatto, ma ricordo che era bellissima, facevamo ginnastica nelle stesse ore, vederla correre era un incanto e noi maschi ci ritrovavamo a incespicare per la distrazione, con sguardi persi e imbambolati in stile Pippo.
Per la tensione di ogni primo giorno di scuola, con la paura di finire in prima fila o comunque lontano da coloro che nel bene o nel male quando eri in difficoltà ti aiutavano.
Per i sonnellini che si facevano al pomeriggio.
Per i telefilm su Antenna Nord, poi Italia Uno, che si guardavano mentre si mangiava, quando si tornava a casa.
Per quanto mi pesava andarci.
Per come ora un poco, ma solo un poco, la rimpiango.
Per tutti questi motivi e un altro milione che qui non trascrivo, oggi non è un giorno qualunque.
Buon primo giorno di scuola, nessuno escluso.

Foro by Leonora

venerdì 9 settembre 2011

Oltre la Vespa (Massimo Zaniboni Arkema studio design)

Ho detto che volevo parlare di tre persone conosciute in vacanza. A uno ho riservato un post, oggi dedico qualche riga al secondo, il mio vicino di camera nonché piacevolissimo commensale a tavola.
Si chiama Massimo Zaniboni, anche se per mia moglie e i miei figli è sempre stato e probabilmente sempre rimarrà "il Bonazzi". Bonazzi è il cognome della moglie, Paola (che è tale e quale a Paola Cortellesi, non sono nell'aspetto fisico, anche nella perspicacia, che sovente diventa battuta tagliente, arguta) con il quale è stata fatta la prenotazione al villaggio e la conseguente etichetta segnaposto in bella vista. Tra l'altro anch'io, per il medesimo motivo, per una settimana sono stato "il signor Dominioni".
Nomi e cognomi a parte, Massimo è davvero una bella persona. Un po' più giovane di me, mantovano, architetto, laureato con il massimo dei voti al politecnico di Milano (sempre in coppia con Paola), si occupa di design applicato alla motoristica e insieme alla moglie ha uno studio dal nome che fa tanto architetto glamour: Arkema. All'inizio infatti mi sembrava un po' fighetto, "sborone", "baùscia", per dirla alla lombarda, o "cùmenda" come per altro l'ha apostrofato la centralinista dell'agenzia dove chiedeva informazioni sull'imminente soggiorno in Calabria.
Invece è bastata una mezza giornata e quattro chiacchiere in più per scoprire che alla forma corrisponde la sostanza. Molta sostanza.
Innanzi tutto, a differenza di molti che si fingono esperti di tutto e non sanno nulla, parla a ragion veduta, con preparazione e ponderatezza. Poi è una persona curiosa, dotata di senso dell'umorismo, che chiacchiera ma sa anche ascoltare. La cosa che mi piaceva di più, oltre sentirlo raccontare episodi curiosi e divertenti che gli sono capitati, era la passione con cui spiegava il suo lavoro. Pure nelle ansie, nelle preoccupazioni sue, scorgevo l'esatta immagine delle mie: il futuro dei figli, il destino del nostro Paese, la capacità di fare bene il proprio mestiere a dispetto delle vicessitudini...
In un tempo in cui le sirene d'allarme suonano all'impazzata e il buio pare incombere su questa nostra Italia, Massimo è una di quelle persone che mi fanno dire: "Ma no, ce la faremo, anche questa volta". Con le armi che più ci sono proprie: la creatività, lo stile, la cultura.
Una mattina, mentre i figli giocavano tra mare e spiaggia, io e lui siamo rimasti tra le onde a parlare un'ora e passa su sogni, speranze, prospettive dell'avvenire.
"Sai Giorgio cosa penso? - mi ha detto a un certo punto - Penso che quando mio figlio andrà alle superiori mi piacerebbe lasciare l'Italia, trasferirmi in America oppure in Asia, dove ho clienti importanti e capisco che si stanno preparando meglio che noi ad affrontare il domani".
Non era la solita sparata, quella che ad ogni vacanza fa esclamare a nove persone su dieci: "Basta, lascio tutto, vado ai tropici e gestisco un bar sulla spiaggia!". No. Era una riflessione profonda, meditata.
Spero non capiti mai, spero che Massimo non lasci mai l'Italia. Non per lui, che se lo meriterebbe, ma per questa nostra terra, che ha bisogno di persone serie, preparate, innovative, che sappiamo continuare a seminare affinché qualche germoglio almeno resista. Vederlo partire, vedere i moltissimo Massimo sparsi per la nazione partire, sarebbe la sconfitta peggiore e probabilmente fatale per l'Italia. Ecco perché spero non accada. Avendo come assi nella manica due alleati: sua moglie Paola, che difficilmente reciderebbe le radici della famiglia, e i tortelli di zucca.
E sì, caro Massimo, perché i tuoi figli, i nostri figli, sarebbero meglio formati frequentando una scuola a Los Angeles o a Taiwan, ma vuoi mettere quei fagottini di pasta con ripieno di zucca, amaretti tritati e una punta di mostarda?
L'America può attendere, noi possiamo rimanere o diventare maestri anche qui: pensando positivo, godendoci la vita.

Foto by Leonora

giovedì 8 settembre 2011

Vecchiaia e gioventù: una corsa in salita


Lo zio Emilio, ottantotto anni il prossimo maggio, si sta addolcendo.
Perde qualcosa ogni giorno in salute, autonomia, indipendenza, ma guadagna in tenerezza. Si commuove spesso e rispetto a prima ha meno aprezze e più riconoscenza.
Sua moglie Angelina, che di anni ne farà ottantanove tra un mese, è diventata invece più arcigna. Forse è il carattere che al volgere del tramonto si mostra più vero o forse è soltanto più preoccupata di un futuro che si assottiglia e diventa al contempo più fragile, incerto.
Ernestina e Gino, invece, domani festeggerano cinquantaquattro anni di matrimonio. La fortuna li ha benedetti con molti figli, moltissimi nipoti e una salute che ha dello straordinario, di ferro. Non sono mancati i sacrifici, i dolori, ma resistono e sono felice per loro, che portano un testimone che molti altri genitori hanno dovuto abbandonare lungo il cammino.
Oggi guardavo mia madre, che i settanta li ha toccati da poco. Ho chiuso gli occhi e ricordato la donna vitale, coriacea che era e che resta, per molti aspetti, ma anche come faccia fatica, ora, a gestire la solitudine, i coetanei che pian piano se ne vanno, l'età che avanza e gli acciacchi che s'accumulano, come polvere dietro la porta.
Pensavo che appartengono a una generazione strana, che ha tirato la cinghia in gioventù e s'è allenata ad affrontare con slancio e coraggio la pienezza della vita, ma non era preparata ad affrontare la vecchiaia. Quando erano piccoli la gente moriva prima e chi restava veniva accudito e riverito come un patriarca. Una questione di spirito, ma anche di braccia: per ogni anziano in famiglia c'erano almeno dieci giovani che davano una mano, per prendersene cura. La percentuale s'è invertita e al di là della retorica è una chiave di lettura per comprendere meglio ciò che sta accadendo, le difficoltà di un crepuscolo per fortuna più ampio ma non privo di nuvole e tempesta.
Tornando a mia madre, ho imparato da lei tutto - specialmente la grinta, la determinazione - quando aveva i capelli neri, senza bisogno di tinta, e mi sta insegnando moltissimo ancora, pur in forma indiretta e talvolta per contrapposizione. "Ricordati Giorgio di non fare così, se ti capiterà" è una frase che ogni tanto fa capolino, assai più rara comunque del "Ricordati Giorgio quanto è generosa. Sii di aiuto per i tuoi figli, se il buon Dio ti concederà lunga vita, almeno un decimo di quanto lei è per te, per noi, tuttora".

Foto by Leonora

Aboliamo le elezioni

Ciascuno ha le proprie fissazioni. Una delle mie è quella di non considerare nessuno come un nemico, un avversario e - se proprio proprio - di evitare il danno maggiore, cioè di farmi diventare simile a lui, a loro.
E' una regola, un punto fermo. Per altro sono fortunato, anche a pensarci non mi viene in mente nessuno per cui porto rancore o, peggio, odio. Non ce l'ho nella vita di tutti i giorni, circondato come sono da persone generose, che mi danno assai più di quanto ricevono. Non ce l'ho sul lavoro, pur se qualche furbo non manca. Però potrei sottoscrivere al cento per cento una frase di Enzo Biagi: "Faccio il cronista da quando ero ragazzo: non ho mai conosciuto un personaggio che meritasse il livore, la gelosia, l'acrimonia, persino l'accesa rivalità. Passa tutto molto in fretta e quasi sempre non lascia tracce".
Considero una salutare riserva indiana quella della rivalità sportiva, non la accetto invece nella politica e credo che buona parte del male sia cominciato allorché la sana competizione (per intenderci, quella che esiste tra compagni di squadra per giocare titolare e non sedersi in panchina) si è trasformata in un "di qua o di là", in cui la ragione e il buon senso hanno ceduto il passo al tifo calcistico, alla faziosità, alla partigianeria.
Il risultato è d'una banalità assoluta: individuando e indicando il nemico, si vincono le elezioni e qualche volta la guerra, ma mai il tempo di pace e la sfida per una migliore convivenza.
La crisi che minaccia il nucleo stesso della nostra società non verrà risolta da due punti percentuali di Iva in più né dalla pur equa richiesta di contributo a chi ha redditi dai cinque zeri in su. Occorrono piuttosto nuove regole, un rinnovato patto sociale e soprattutto un diverso spirito di approccio al problema.
Vengo al pratico, con una proposta tanto radicale che io stesso ho timore a evocarla: aboliamo le elezioni. Calma, prima di stracciarvi le vesti, strapparvi i capelli (chi ce li ha) e rotolarvi a terra per lo spregio, leggete ancora qualche riga.
Io credo che sia giunto il capolinea del modello adottato negli ultimi due secoli, quello in cui la gente vota i propri rappresentanti, con il risultato di creare veri e propri professionisti della politica e le degenerazioni di cui scrivevo prima. Non votiamoli più, allora. Sorteggiamoli. Sì, torniamo al buon vecchio Clistene. Ma anche al giovane e ispirato James Surowiechi e al suo "The Wisdom of Crowds" ("La saggezza delle folle", edizione Fusi Orari).
Non è una provocazione, bensì una proposta, una visione, se mi è concesso il termine ambizioso.
Per ora la chiudo qui, ma ci tornerò in futuro.

P.S. Questo post è dedicato all'uomo politico che ho stimato di più: Mino Martinazzoli, scomparso una settimana fa, mentre ero al mare. Probabilmente non sarebbe stato d'accordo con me, con questa proposta, eppure è lui ad avermela ispirata, con una frase pronunciata a Casnate con Bernate, in una delle rare volte che lo incontrai di persona: "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile. E la fecero".

Foto by Leonora

mercoledì 7 settembre 2011

Identikit di un buon capo (Antonello Moscarelli docet)

Ne ho conosciute molte, vorrei raccontarne tre. Sono le persone che il destino mi ha fatto incontrare nella recente vacanza, trascorsa in un angolo incantevole di Calabria.
Comincio da quella che ho conosciuto meno. Si chiama Antonello Moscarelli ed era il responsabile delle attività nautiche e dell'intera spiaggia. Con lui ho scambiato sì e no tre parole, ma non occorrono grandi discorsi per capire se una persona ci sa fare o meno. Sono cresciuto in una famiglia di operai, dove il "saper fare" era metro e misura del valore di chi si incontrava: il rispetto si accordava a tutti ma la stima si concedeva soltanto a chi dimostrava nei fatti e non a parole le proprie qualità.
Antonello appartiene a questa seconda categoria e me ne sono accorto da un paio di episodi in apparenza di nessuna importanza, ma che - a saperli cogliere - definiscono il timbro e la pasta di una persona.
Il primo è stato una mattina in cui il vento ha fatto alzare di colpo qualche onda. Nulla di che, sufficiente tuttavia ad ammainare bandiera bianca ed alzare quella rossa. Stavo uscendo con una canoa quando il ragazzo che se ne occupava con urla e gesta teatrali mi ha detto di riportarla a riva, che non potevo uscire, zitto e mosca. Nel frattempo, in spiaggia, tra canoe prese e riportate e barche a vela tirate sulla battigia, s'era creata non poca confusione. E' stato in quell'istante che Antonello, che non conoscevo per nulla e per il quale ero soltanto uno delle migliaia di turisti che in quattro mesi turnano di settimana in settimana, mi ha detto di non preoccuparmi, di andare verso destra che la corrente mi avrebbe riportato sempre sotto costa. E all'altro ragazzo, che un poco scocciato gli chiedeva spiegazioni per quella deroga, non ha fatto valere i gradi, replicando solo che a differenza degli altri ero già sulla canoa. Non ha aggiunto altro, ma sapevo che lui, da una semplice occhiata, aveva compreso che non ero un pirla, né uno scapestrato senza testa, bensì un padre di famiglia, ormai (ahimé) uomo di una certa età, robusto e maturo a sufficienza per ridurre a zero qualsiasi rischio di giornata.
Episodio numero due: ogni mattina, faceva passare un assistente per controllare che fosse rispettata l'assegnazione degli ombrelloni. Non solo. Un giorno ho notato che chiamava a raccolta i suoi collaboratori. Ero troppo distante per udire le parole, ma dalle espressioni, dai gesti mi è parso di capire che non fosse per niente soddisfatto della pulizia delle imbarcazioni. Interpretazione avvolarata dal fatto che, un secondo dopo, tutti sono scattati e hanno provveduto a mettere in ordine ciò che evidentemente non andava.
Lezione numero uno: Antonello è un buon capo, non uno di quello che appena hanno un quarto di mostrina sulla giacca crede d'essere un novello Napoleone sceso sulla terra. Gli ordini che impartiva ai suoi erano perentori ma mai urlati, quando c'era da fare qualcosa era sempre in prima fila, silenzioso ed efficiente al limite della pignoleria.
Antonello - ho saputo dalla titolare del villaggio Porto Kaleo - dopo domani terminerà la stagione in Italia e partirà per quella invernale, a Sharm el Sheik. Fortunato lui, se è quello che gli piace. Però è sprecato, perché per me sarebbe un capo naturale in professioni in cui occorrono calma, disciplina e maestrìa. Lo dico gratis, semplicemente dando voce a un pensiero che m'è venuto ieri l'altro, quando a sua insaputa, sempre da lontano, lo vedevo all'opera, mentre provava e riprovava le virate con un guscio di noce che lì chiamano barca a vela: se fossi in pericolo di vita, vorrei a fianco uno come quell'Antonello, mi sono detto. Lo ripeto qui, affinché il merito venga premiato se non con i soldi, con un'altra e forse più preziosa moneta: una stima disinteressata, sincera, genuina.

Foto by Leonora

Lo sciopero, Susanna e le vere vittime

Metto piede in casa ora, dopo una splendida settimana di mare e con undici ore di ritardo rispetto al previsto, causa sciopero generale.
Ho un sacco di cose e almeno tre personaggi di cui vorrei raccontare. Comincio dalla coda: lo sciopero.
Essendo reduce da sette giorni di relax totale non soltanto ho sopportato i disagi con filosofia, ma mi è piaciuto pure, perché l'ho vissuto con occhi e pelle di giornalista, testimone oculare e dunque privilegiato di situazioni che solitamente apprendo per sentito dire.
La parentesi positiva si chiude qua, il resto del capitolo è amaro.
Avrei voluto che Susanna Camusso e i vertici della Cgil avessero spiegato al signor Carlo, settantesei anni, di Lipomo, seduto su una carrozzina e con enormi difficoltà respiratorie, le ragioni di una protesta che per colpire Berlusconi dava schiaffoni a lui, che ha lavorato quarantadue anni in fabbrica e s'era concesso una visita, forse l'ultima, a parenti e nipoti in Calabria. E avrei voluto che invece di parlare in piazza a Roma, di fronte a bandiere e belle ciao, fossero stati in mezzo alle famiglie con bambini piccoli al seguito, bloccati otto ore in una stanzetta tre quattro metri per tre, a contendersi un poco di riservatezza per allattare e cambiare i pannolini con decine di anziani e di disabili, in un buco di aeroporto, dove l'aria condizionata "ci spiace, è rotta" da una vita. Oppure che lo spiegassero alle migliaia di passeggeri che si sono trovati cancellati i voli, costretti a inventarsi una sistemazione, un programma, un'alternativa, mille chilometri lontano da casa, spesso in terra straniera. Solo a Bergamo, ieri notte, a otto ore dalla conclusione dello sciopero ce n'erano centinaia buttati come sacchi d'immondizia, chi dormiva, chi cercava di ripararsi dal freddo abbracciandosi l'un l'altro, chi russava senza curarsi di nulla, nei corridoi, stremati, la faccia accanto alle scarpe di chi passava.
Mi fermo. Concludendo con due contestazioni, una proposta e una morale.
La prima contestazione: le persone, la maggior parte delle persone, non hanno capito le ragioni della protesta. La domanda che ho sentito più spesso è stata: ma se la manovra non esiste ancora (e questo sì che è un dramma) come fanno a dire che è ingiusta, iniqua? "Lo dicono a prescindere? - mi ha risposto una ragazza che doveva prendere l'aereo poiché l'indomani doveva sostenere l'esame di valutazione allo Iulm - E allora dicano che è uno sciopero politico, contro il governo, senza prenderci in giro prendendo un pretesto piuttosto che un altro".
La seconda informazione: la mancata comunicazione dell'astensione dal lavoro. Prendiamo i voli. Mentre su Linate e Malpensa già nei giorni precedenti si sapeva dei voli cancellati, a Bergamo e in altri aeroporti minori non c'era stata alcuna conferma, per cui i disagi sono stati devastanti. Non conosco le altri situazioni, ma per proprietà transitiva penso che sia potuto accadere in molti altri servizi e questo non è degno di un paese civile.
La proposta: è quella di cui parlavo prima. I dirigenti della Cgil (ma anche del Pd, che si sono accodati allo sciopero, più per timore di non raccogliere eventuali frutti in termini di consenso che per reale convinzione, un po' come il governo italiano nella guerra alla Libia) invece che andare nelle piazze, quando c'è lo sciopero provino a stare in mezzo alla gente e vedere con i loro occhi e toccare con le loro mani le conseguenze di una scelta che scalfisce appena o neppure sfiora i potenti che vorrebbero colpire e invece affossa i poveri diavoli che pretendono di difendere.
La morale: scrivo tutte queste cose al di qua e non al di là della barricata. Perché anch'io sono preoccupato dall'azione effimera e sciagurata dell'attuale governo. Perché anch'io credo che senza misure serie e rigore le conseguenze negative peseranno sul futuro dei nostri figli, di questo nostro Paese. Perché anch'io credo nel diritto inalienabile di qualsiasi lavoratore di incrociare le braccia, di scioperare, conquista di civiltà oltre che di dignità per ogni società che si possa definire tale.
Ma proprio perché è uno strumento alto, importante, non si può brandire ad ogni alito di veto o senza che sia posta attenzione sul dove, il come e il chi va a colpire. Il risultato, altrimenti, è di screditare non soltanto la protesta, bensì lo strumento stesso che generazioni di nostri padri hanno conquistato, spezzandosi la schiena, senza andare a far passerella in piazza e soprattutto lasciando che la schiena se la spezzino altri.

Foto by Leonora