domenica 30 dicembre 2012

Il destino delle talpe

Foto by Leonora
Faccio cose, vedo gente... Scrivo meno qui anche per quello, per un incontro più personale che astratto, anche se aggiungere questi sassolini di Pollicino mi aiuta a fare chiarezza, a trovare di ogni matassa il bandolo. Il pensiero che più mi accompagna è quello della decadenza, del perenne equilibrio tra ordine e caos, tra bene e male.
In questi giorni è nelle sale "Lo Hobbit" e con Pietro, il figlio di Angelo, ho rispolverato miti e leggende del Silmarillion. Il filo conduttore di Tolkien mi pare proprio questo: non esiste regno né giusto che possa aspirare a rimanerlo a lungo, per sempre men che meno. Tutto si corrompe, tutto si corrode e più delle grandi imprese servono i piccoli gesti, le buone azioni nel quotidiano. Vale per gli stati, per le civiltà, le generazioni, gli individui, gli eroi. Vale anche per noi, che corriamo tutto il giorno come per acciuffare la coda di volpe che ci viene fatta ballare sotto il naso e quando finalmente l'afferriamo comprendiamo che la giostra non si ferma, che il momento della soddisfazione è un attimo, che ricominciare da capo è il nostro destino.
Non è un pensiero negativo: basta accettarlo. Che il senso sia nello scorrere lo intuivano gli antichi greci, così come il Buddha e la maggior parte delle religioni che conosciamo. Ciò che mi preme non è la teoria, bensì come posso metterla in pratica io. A tutto questo pensavo oggi pomeriggio, appena tornato dalla zia Silvana a Milano e dopo aver accompagnato Giorgia a pattinare. Rimesso piede oltre il cancello la prima cosa che ho fatto è stata armarmi di scopa e andare a disperdere nell'erba gli enormi cumoli di terra lasciati dalle talpe nel prato. Non è la lotta tra il bene e il male ma ci assomiglia, almeno nel puntiglio con cui loro scavano e io rimetto a posto. Prima adottavo metodi più drastici, ora sono sceso a patti con madre natura, convincendomi che al mondo ci sia posto per entrambi, per me e per loro, per quei trapanatori senza ritegno che pure hanno un musino dolce dolce e ci si spezza il cuore quando si prova a eliminarlo. Così le lascio fare, sperando che magari sia utile anche per lo stesso prato (magari così le radici respirano) e provando compassione per loro, che dopotutto ci assomigliano: anche noi infatti, pur armati di vista e di occhiali e di tutta la nostra sapienza, in fatto di senso della vita non sappiamo scorgere più in là del nostro naso.
P.S. Ieri, all'improvviso, se n'è andata una delle persone dal volto più buono che io abbia mai incontrato. Si chiamava Marino ed era il papà del mio amico Davide. Aveva appena sessantacinque anni e dei nipotini da tirare grandi, come desidera ogni nonno. Anche di fronte a loro, a Davide, vorrei avere vista di falco, per poter dare un senso, una spiegazione al dolore più profondo. Invece resto sempre un talpa e non posso fare niente altro che stringermi a loro, in un abbraccio...

lunedì 24 dicembre 2012

Ho voluto la bicicletta

Foto by Leonora
Saluto Marco e Sonia, Simona e Francesco, che mi hanno regalato un antivigilia degna del miglior capodanno. In più sono riuscito a parlare via Skype con Mauro, che da un mese ha fatto un balzo di mezzo mondo e viaggia dieci ore avanti, di nome e di fatto. Finora il Natale non ha deluso, anche grazie alle tante persone che si sono fatte sentire, alle amicizie storiche e a quelle appena sbocciate, che mi portano in dote doni preziosi: calore e sorriso. O forse a non aver tradito questo Natale sono io, zuccone per troppo tempo, convinto com'ero di bastare a me stesso, mentre non c'è gioia senza condivisione, senza un mettersi in moto e andare incontro. Non che adesso avverta meno il desiderio di starmene per conto mio, di ritagliarmi spazi e minuti senza nessuno attorno, però do meno sponde alla pigrizia e cerco più un equilibrio. Nello scorrere dei giorni fatico a trovare un bandolo ma ho una stella polare, una linea d'orizzonte che inseguo. E' questa: aprire porte invece di chiuderle, lasciare la comodità del certo per avventurarsi un metro più in là, dove tutto è ignoto tranne la speranza del meglio. La staticità infatti logora persino il regno più solido e guai a crogiolarsi nella grandezza o nella pienezza del tempo. Una lezione che ho imparato da Tolkien e che condivido, utilizzando la metafora della bicicletta: per stare in piedi è necessario pedalare, prendere velocità, non fermarsi, altrimenti il destino è cadere e, bene che vada, sbucciarsi un ginocchio.

sabato 22 dicembre 2012

Cambiare il mondo

Foto by Leonora
Nessun Natale ha la rincorsa lunga di quando cade di martedì, con una vigilia che a volerla spremere dura tre giorni. Una manna, specie per i tiratardi come me, anche se non bisogna abbassare la guardia perché il tempo vola e inciampare è un attimo. Tra i buoni propositi che faccio ogni anno c'è quello di godermelo appieno, di dare valore e priorità alle cose che contano, come lo stare insieme agli altri, la convivialità, il dono inteso come sorpresa, pensiero per l'altro, ma mi accontenterei di non esagerare con il carattere ostico e gli sbalzi d'umore da nervosismo. Come tutte le vette, infatti, Natale può altresì rappresentare un abisso. Forse è per questo che a molti non piace e alcuni proprio lo detestano: il Natale amplifica tutto, nel bene e pure nel male.
La solitudine ad esempio. Immagino che nessun altro giorno possa essere triste come un Natale passato senza affetti, qualcuno da poter invitare o essere invitato. Ma anche la malinconia, il dolore per le persone care che non ci sono più. Nelle altre settimane dell'anno è una ferita con cui coesistiamo mentre in queste feste torna a bruciare, sale sparso sulla carne, fitta che si insinua inesorabile sotto pelle e stringe il cuore, desiderio di tornare ai momenti sereni che invece non ritorneranno più, così come l'abbraccio di una madre, il sorriso di un padre, l'allegria di un figlio, certe tavolate che via via si sono spolpate, lasciando ora soltanto pareti grigie e il chiasso gelido di un televisore acceso.
Persino nella compagnia però il Natale può fare da apice alle tensioni, ai contrasti magari rimandati per assenza di incontro. La litigata più feroce tra mio padre e mia madre fu la mattina di un Natale di moltissimi anni fa. Avrò avuto otto anni e ricordo le urla che mi svegliarono nel sonno, i rimbrotti vicendevoli, le accuse, le offese, la rabbia che montava e io impotente, appena oltre la soglia della cucina, con gli occhi e i pugni chiusi, insieme al terrore che fosse la fine di tutto e l'unico desiderio che la smettessero, che facessero la pace, che tornasse l'armonia. L'armonia tornò, non ho memoria se già nel pomeriggio di quella giornata o a Santo Stefano o la settimana dopo.
Mio padre e mia madre erano caparbi e nessuno dei due sottomesso all'altro, si fronteggiavano come leoni nella savana, rizzando la criniera e mostrando denti ed artigli (senza tuttavia che mai una mano fosse alzata o che l'aggressività delle parole sfociasse nella violenza del contatto). Li detestavo per questo, giuravo a me stesso che sarei stato differente, invece sono cresciuto a loro immagine e somiglianza. Me ne accorgo da una mezza frase di Giovanni, oggi, dopo una banale seppur vivace discussione tra me e Isabella, di quelle che hanno tutti i mariti e le mogli, credo. "Litigate sempre" sussurra, quasi tra sé e sé, e a me si scioglie il cuore, ripiombando quarant'anni addietro, quando alto un metro e cinquanta e preoccupato ero io. Spero che lui sia migliore di me, che non ripeta i miei errori, anche se ne dubito. Più dai bei discorsi come questo, infatti, i nostri figli imparano dall'esempio. Perciò, invece di ostinarmi nell'ottenere ragione, faccio leva su me stesso e stacco il piede dall'acceleratore, facendo spuntare un sorriso. Ci vuole così poco a cambiare il mondo. Peccato me ne ricordi e lo metta in pratica così poche volte all'anno.

sabato 15 dicembre 2012

Manifesto (domestico) contro il populismo

Foto by Leonora
Onestà intellettuale. Ragion di Stato. Populismo.
Parole che restano vuote in assenza di un significato, di una comprensione che vada un passo più in là della definizione sul vocabolario. Provo a farlo, pescando nelle vicende domestiche e nei discorsi a spizzichi e bocconi di stamattina.
Onestà intellettuale è quando assaggio il purè di patate e pur trovandolo gustoso mi pare che manchi qualcosa, forse più burro, o il latte, e lo chiedo a Isabella, che l'ha fatto, e subito mi risponde risentita - proprio come faceva mia madre - dicendo che è normale, che l'ha fatto come al solito, che sono io il difficile, il mai contento, che lei è stufa, che insomma, in più che lo fa, deve sentire anche lagnanze e sbuffi. Generalmente, quando accade, ci mandiamo a quel paese reciprocamente, senza ascoltare minimamente le ragioni dell'altro. Oggi no, oggi evito di offendermi e con l'aiuto di Giorgia convinco Isabella ad abbandonare la difesa istintiva e a provare a sua volta, ad assaggiarlo, a dire cosa ne pensa. "Mmmhhh, è vero, può darsi, c'è qualcosa... è, come dire, è... farinoso. Sono le patate". Oh, finalmente! Posso rimettere il cucchiaio di legno nella pentola e tornare a servirmelo a cazzuolate, senza ritegno. E' farinoso, è vero - e io che non riuscivo a trovare la parola, ad abbinare la sensazione a un aggettivo - ma è tremendamente buono lo stesso. E Isabella mi è stata di conforto, dimostrando "onestà intellettuale" appunto.
La "ragion di Stato" invece me la spiega lo zio Emilio, ottant'otto anni lo scorso mese di maggio, raccontandomi di quando era prigioniero in un campo di lavoro tedesco, durante la seconda guerra mondiale. Non ne parla spesso, o meglio, di questi tempi lo fa assai più volentieri mentre per una vita intera è stato sfuggente, evasivo. Vai a capire le reazioni dell'essere umano. Comunque oggi, non so perché, incappiamo nel discorso e lui dice che quando il Duce venne liberato dal Gran Sasso e portato in Germania il governo di Hitler concesse ai prigionieri italiani un trattamento migliore, che si tradusse come prima cosa nel togliere i lucchetti alle baracche, permettendo loro di andare avanti e indietro. "Io ero un ragazzotto - mi dice in dialetto - ma c'erano uomini di trenta, trentacinque anni che si fecero una vita. Di tedeschi in giro ce n'erano pochi, erano tutti al fronte, lì rimanevano le donne. Senza uomini". Un sorrisetto malizioso ma non ostentato, come pensando tra sé e sé, fa da chiosa all'ultima frase. Ci penso un secondo e lo incalzo: "Zio, tu mi hai insegnato a essere antifascista, ma allora il Duce qualcosa di buono l'ha fatto". E lì l'Emilio si anima, drizza il busto, ti fissa dritto negli occhi e a voce più alta di prima dice: "Certo! Per noi lì la vita era cambiata!". Ora sono io a sorridere, vedendolo ringalluzzito, e penso alle tante volte in cui critichiamo quel tale presidente perché ha ricevuto o non ha ricevuto il Dalai Lama oppure il Papa, quando fece visita al Cile dei Colonnelli. Un gesto incomprensibile nel due più due fa quattro della logica, ma che probabilmente ha comportato (o non comportato) conseguenze per decine di migliaia di persone.
Ecco, populismo è quando si grida alla vergogna, allo scandalo, o viceversa al plauso, senza badare con onestà intellettuale alla ragion di Stato che induce a comportarsi o non comportarsi in un certo modo.
P.S. Tanto per chiarire, controllare i rimborsi spese dei consiglieri regionali e renderne pubblico il rendiconto, anche attraverso i giornali, è sintomo di trasparenza e senso civico. Dire che sono dei furbi, dei vigliacchi, allorché si scopre che hanno usato i nostri soldi per farsi i porci comodi loro non è populismo, bensì un sano e consapevole rifiuto di farci prendere per il c...

sabato 8 dicembre 2012

Allargare la tavola

Foto by Leonora
"E quando mi verrà in mente di non invitare questo amico o quel parente perché la casa è già piena, scaccerò il pensiero: importante non è la comodità, bensì la compagnia". L'editoriale sul giornale che oggi è in edicola lo concludo così, pro memoria per me stesso e per chi il Natale imminente non vuole che sfugga via, giorno qualsiasi o addirittura da scavalcare a piè pari, fastidio senza gioia.
Aggiungi un posto a tavola era anche un musical degli anni Settanta, con Johnny Dorelli. Mi pareva retorica invece conteneva un seme buono, che riscopro ora, eleggendolo a motto per i giorni che arrivano e segnando tre buoni propositi da mettere in pratica.
  • Invitare o farsi invitare a Natale e a Santo Stefano (ma vale anche la vigilia), facendo esercizio di generosità e, se è il caso, di faccia tosta.
  • Mettere da parte la pigrizia e rinunciare a qualche sera al calduccio, davanti alla tv, andando a bussare alla porta di chi non vediamo da un pezzo, contando sul fatto che la sorpresa scioglierà qualsiasi imbarazzo o reticenza.
  • Pensare più al biglietto che al regalo, scrivendo per ciascuna delle persone care e anche ai semplici conoscenti una vera lettera, in cui ricordare la prima volta che ci si è visti e il pregio che si riconosce all'altro (c'è sempre un pregio nell'altro, persino in coloro che sono simpatici quanto una falange dell'alluce spezzata contro lo spigolo di una porta). Le parole buone sono una medicina doppia: per chi le riceve e per chi le dona.
Natale, più di ogni altra cosa, è un'occasione. Cogliamola.

sabato 1 dicembre 2012

Le quattro forze


Foto by Leonora
Eccolo, l'ho ritrovato, il ritaglio di giornale che mi aveva messo di buon umore, qualche settimana fa. Un articolo del giornalista americano Steven Kotler, controcorrente rispetto al pessimismo dominante, con la prospettiva di un nuovo tempo di serenità ed abbondanza. E' stato pubblicato sulle pagine di cultura del Corriere della Sera, il 17 ottobre scorso, con il titolo "Quattro forze salveranno il mondo". Signore e signori, eccole: high tech, innovazione fai da te, tecnofilantropia (i soldi investiti in opere umanitarie da chi con la tecnologia somma guadagni stratosferici) e nuovi popoli emergenti.
Ora che lo rileggo però mi pare non mi lasci convinto come quando gli ho dato una sbirciata la prima volta. Forse sono io più scettico oppure contava l'effetto sorpresa. Ad ogni modo, che il futuro possa essere migliore di come spesso lo si dipinge credo dipenda non da fattori esterni, bensì dall'approccio che abbiamo noi verso la vita. La ristrettezza dei beni materiali raramente incide sulla felicità, che invece è alimentata dalla relazioni, dagli affetti, dal benessere più che dal "benavere". Le tecnologie in questo possono essere un conduttore straordinario, pur se sbaglia chi si illude che da sole possano colmare il vuoto, la solitudine, il senso di disorientamento che spesso ci accompagna. Sono un mezzo, appunto, non il fine. Posso essere in contatto tramite Facebook, Twitter, Wazzup con mezzo mondo, ma se con nessuno si crea un rapporto di affetto, di scambio, di empatia, rimango la bollicina di acqua Lete, sola e sperduta.