domenica 11 novembre 2012

Casa Bardaglio

Foto by Leonora
Quarant'anni, un giorno. Era l'11 novembre 1972 e (come ho già raccontato cinque anni fa, in questo post) ci trasferimmo nella casa dove tuttora abito e che è sempre stata la mia, anche nei dieci anni in cui - appena sposato - abitai in via Varesina, a quella giusta distanza che secondo i vecchi occorre mettere tra nuora e suocera, "non troppo lontano, non troppo vicino, abbastanza per vedere il fumo dell'altrui camino".
Le mura sono le stesse di allora ma molto è cambiato, interpretando i tempi e marcando le differenze con il mondo rurale in cui i miei genitori sono cresciuti e che è scomparso da un pezzo. Mio padre poi non c'è più e con lui, oltre alle braccia che l'avevano creata, se n'è andato lo spirito autentico, quel bisogno di avere un posto tutto per sé, dove se vuoi mettere un chiodo nella parete nessuno può impedirtelo. Un orgoglio che io mantengo, perché l'ho vissuto sulla mia pelle, che mi ha marchiato a fuoco, ma capisco di essere comunque anni luci distante dall'ostinazione, dalla caparbietà che aveva lui, uomo di un'altra stoffa e di un altro tempo. Una determinazione che i miei figli - lo so - avranno ancor più diluita e i figli dei miei figli probabilmente neppure avvertiranno ed è per questo che due giorni prima di morire, in uno di quei dialoghi che abbiamo avuto la fortuna di avere e in cui ci siamo detti tutto l'essenziale che c'era da dirsi, con lui sono stato onesto: "Papà, lo sai che ti ho visto tirar su questa casa, conosco i sacrifici che hai fatto e quanto ci tieni anche se adesso non sembra importarti di nulla perché tutto sembra perso, ma voglio prometterti lo stesso che finché ci sarò io farò di tutto per tenerla, perché non sia sciupato ciò che hai fatto. Ed è una cosa che cercherò di far capire anche a Giacomo, Giorgia, Giovanni, anche se, lo sai, non posso assicurarti che lo faranno, e poi accada quel che accada, perché tanto in eterno non dura nessuno". Lui sorrise. Non un sorriso amaro, un sorriso disteso. "Và ben". Va bene, disse, in dialetto. Lo considerai un testamento.
Tra le molte cose di cui mi sono pentito, invece, c'è la pigrizia con cui me ne occupai quando lui era in vita. Ero più giovane, pensavo ad altro e soprattutto pagai il carattere tendente al rimando. Quante volte, in questi cinque anni, ho sistemato qualcosa (il tetto del garage, la recinzione, l'aggiunta di un nuovo pezzo di prato, il cancello elettrico...) rimpiangendo di non averlo fatto prima, quando lui ancora c'era e avrebbe potuto vedere, sapere che anche senza di lui ce la saremmo cavata, avremmo migliorato le cose e non fatto andare in malora tutto. La cosa di cui andrebbe più fiero sono le tredici tessere di ceramica con altrettante lettere dell'alfabeto che abbiamo incollato all'entrata, accanto al cancello. C'è scritto "Casa Bardaglio" e in due parole è detto tutto.

Gocciole d'abbondanza e fabbriche d'infelicità

Foto by Leonora
Prima che il giorno dilegui e pioggia si aggiunga alla pioggia, appunto qui un pensiero che m'è venuto stasera, guardando Giovanni che cinque giorni fa ha compiuto dieci anni ed è uno splendido bimbo, anche se forse con troppe Gocciole in corpo ("Papà, non è colpa mia se sono così buone. E poi con le Gocciole puoi vincere un'iPad 3. Magari lo vinciamo!" mi dice, quando lo guardo con fare di rimprovero). Dieci anni. A dieci anni suo prozio, lo zio Emilio, classe 1924, entrò per la prima volta in fabbrica, un officina di fabbro, dove cominciò a lavorare dalle sette del mattino alle sei di sera. Dieci anni. Mio padre fu più fortunato, cominciò ad undici, così come il fratello di mia mamma, lo zio Gianni, spedito in vetreria per nove ore al giorno a smerigliare bicchieri e vasi di cristallo nell'acqua gelata. Non pensavano all'iPad3 e men che meno si sognavano le Gocciole: era già una fortuna se a cena, insieme al caffèlatte, c'era del pane o una fetta di polenta.
Come faccio a spiegarlo ora a Giovanni, come posso immaginare io stesso che un bimbo così piccolo possa esser trattato da schiavo più ancora che da operaio? Eppure non sono passati secoli: sessant'anni appena, una generazione sì e no. A questo penso quando leggo della crisi, che durerà forse fino al 2017 e cambierà nel profondo la nostra società, il nostro stile di vita: saremo tutti più poveri, senza sicurezza alcuna. Senza sicurezza, ma comunque anni luce avanti alla miseria di una nazione intera, sessant'anni prima. E se ce l'hanno fatta loro, se non si sono spezzati le ossa, uscendone anzi rafforzati, perché non dovremmo farcela noi, perché dovrebbe essere tutto nero ciò che ci aspetta? L'unico pericolo è che sprofondino soltanto alcuni mentre altri rimangono a galla, evidenziando disparità che alla fine lacerano una comunità e fanno da premessa alla tragedia. Sessant'anni fa c'erano sì i ricchi, ma la netta maggioranza delle persone viveva una condizione comune di indigenza e accettare il poco era scontato, così come la consapevolezza che soltanto unendo le forze si poteva crescere e migliorare le condizioni di vita. Oggi il privilegio è la normalità e sarà più difficile adeguarsi al ribasso, però potrebbe non esserci alternativa. Tanto vale allora ricordare da dove siamo partiti e cominciare ad accettare il principio che qualche rinuncia nella nostra condizione di benessere è comunque poca cosa se rapportato a chi davvero a questo mondo non ha nulla e a dieci, undici anni viene spedito in fabbrica.

mercoledì 7 novembre 2012

Una questione educativa (grazie al Menaggio Calcio)

Foto by Leonora
Molte nubi ci sono all'orizzonte della nostra convivenza, eppure non scompare la speranza. Me ne sono reso conto tra ieri e oggi, per una vicenda legata al calcio. Domenica infatti, durante una partita tra ragazzi, sono stato testimone e indiretto protagonista di un episodio non tremendo ma comunque spiacevole. Il giorno dopo, cacciando la pigrizia e una sorta di pudore, ho deciso di scrivere ai dirigenti della squadra avversaria e vorrei mettere qui lo scambio di mail, a dimostrazione che nel nostro piccolo possiamo fare tutti qualcosa e che la brava gente c'è ancora.

Prima mail, mandata da me al Menaggio Calcio.


Carissimi,
mi chiamo Giorgio Bardaglio e vi scrivo per un episodio spiacevole capitato ieri, domenica 4 novembre, nel corso della partita della categoria Allievi tra Menaggio e Parediense, la società dove gioca mio figlio Giacomo.
Sul finale della partita – una partita tosta, maschia, accesa, con asprezze da ambo le parti e non favorita dal brutto tempo – mio figlio è stato colpito a freddo con un pugno da un giocatore della squadra avversaria.
L’episodio in sé non ha avuto conseguenze: mio figlio è grande e grosso più di me e anzi, dopo l’episodio, ha addirittura segnato, tanto che nel dopo partita per sdrammatizzare gli ho detto che il pugno lo aveva svegliato, ma vi scrivo perché secondo me una società storica e seria quale siete dovrebbe chiamare da parte quel ragazzo e spiegargli che un simile gesto è inaccettabile.
Il ragazzo in questione furbo crede di esserlo senz’altro, tanto che prima di mollare il cazzotto dietro l’orecchio, ha aspettato che l’arbitro si voltasse verso le panchine per dare l’autorizzazione a un cambio, ma non ha considerato che tutti i presenti in tribuna potessero invece vedere quanto accadeva, tanto che oltre alle urla dei tifosi del Paré i rimproveri al ragazzo sono arrivati anche dal pubblico di casa.
Di tutto questo avrei fatto a meno di parlare, anche perché sono dell’idea che finita la partita tutto ciò che accade in campo debba essere dimenticato, ma m’è venuto lo scrupolo perché ciascuno di noi, nel nostro piccolo, può aiutare i ragazzi a capire quando sbagliano.
Non mi interessano interventi plateali o altro, semplicemente mi piacerebbe che il presidente o l’allenatore prendessero da parte quel giovane calciatore e gli dicessero che gli adulti non sono fessi, che può farla franca con l’arbitro ma tirare un pugno arrivando alle spalle, a gioco fermo, è un gesto da vigliacco, che non fa onore a lui e tanto meno alla squadra di cui difende i colori.
Con stima,
Giorgio Bardaglio

Seconda mail, la risposta del segretario del Menaggio Calcio al sottoscritto.


Buongiorno,
sono il Davide Spaggiari segretario dell'A.C. Menaggio e domenica mattina ero presente al campo. Lei ha perfettamente ragione, è stato un episodio molto spiacevole, non ho ancora avuto modo di parlare con il ragazzo, lo farò questa sera nello spogliatoio prima degli allenamenti.
Mi permetta un appunto (assolutamente non critico nei suoi confronti, anzi dal tono severo ma pacato della sua lettera ritengo che sui valori dello sport la pensiamo allo stesso modo) il buon esempio lo dovrebbero dare per primi i genitori che sono in tribuna, accettando le decisioni sbagliate del direttore di gara senza isterismi, evitando di provocare ed insultare i giocatori (ho sentito dare del "bastardo", non da un ragazzo ma da un signore di 45/50 anni, al nostro n.10 dopo che aveva fatto un duro intervento che pur meritevole del cartellino giallo non era volontario ma determinato dalle condizioni del terreno di gioco). Quanto detto vale anche per i genitori della mia società. Ho minacciato più volte di chiudere il cancello e di disputare la e partite a porte chiuse, arriverà il giorni in cui lo farò.
Probabilmente il nostro giocatore domenica non sarà convocato, però Noi (inteso come adulti) dovremmo essere i primi a dare il buon esempio.
Cordialmente.
Davide Spaggiari

Terza mail, la mia replica


Caro Spaggiari,
Lei ha perfettamente ragione e io stesso, oltre a essermi vergognato, ho più volte cercato di calmare alcuni genitori (uno in particolare era esagerato).
In generale il comportamento di certi papà e mamme è ben peggiore di quello dei ragazzi, con parolacce e insulti indicibili, frutto di cattiva educazione e probabilmente anche di frustrazione personale. Un atteggiamento che mi fa cadere le braccia. Al contrario mi commuove (e mi dà energia e speranza) la sua risposta, così come ho apprezzato moltissimo la correttezza dei genitori del Menaggio che erano accanto a noi e che non sono caduti nelle provocazioni. A questo proposito voglia far loro i complimenti da parte mia, perché a fine partita se ne sono andati subito e non ho avuto il tempo e anche il coraggio di farglieli di persona. Anche per rimediare a questa assenza di coraggio ho deciso di scriverle e sono contento di averlo fatto. Non chiuda dunque la porte, dia fiducia alle persone, anche se a volte non la meritano: lo sport ha ancora un futuro roseo se esistono società come il Menaggio e "il Davide Spaggiari" che se ne occupa.
Rinnovo la stima,
Giorgio



Morale

I ragazzi sono appunto ragazzi e possono sbagliare. Sta a noi adulti dare il buon esempio e non comportarci con indifferenza: se i miti si tengono per mano non c'è prepotente o esagitato che possa averla vinta.