martedì 6 novembre 2018

Nonni e nipoti (La bussola avuta in dono)


"Gli hai fatto gli auguri?". Me l'ha detto in dialetto, quasi a tempo scaduto, e ho risposto a mia madre di sì, aspettando che gli occhi le diventassero lucidi, come puntualmente è avvenuto.
Ho scritto qui del compleanno di Giovanni un giorno prima e di quello di mio padre uno dopo, oggi, volendo fare da cornice al capriccio del destino che li aveva accomunati nella data di nascita, uno a distanza sessantacinque anni dall'altro.
Il nipote è diventato un virgulto d'uomo, alto quasi quanto me e con gli stessi scatti di carattere, talvolta non mitigati ancora dalle buone maniere che impongono contegno, almeno in pubblico.
Il nonno ci ha lasciati dieci anni fa, ma non se n'è mai andato, essendo vivo tuttora in me, che nei tratti e in alcune espressioni gli sto somigliando come mai avrei creduto.
Molte sono le eredità che ho ricevuto, tanto che ad elencarle tutte impiegherei un pomeriggio.
Ne ritaglio una, che mi pare più attuale di altre e mi fa da stella polare in questo tempo di bussole apparentemente senza magnete: ho imparato da lui ad avere fiducia nel futuro, a considerare i cambiamenti non come accidenti o, peggio, sciagure, bensì come opportunità per fare meglio.
Non che fosse esente dalle seduzioni nostalgiche che sovente riserva il passato, aveva però un approccio sempre pragmatico, positivo, che ai miei occhi lo rendeva giovane pure quando stava diventando vecchio. Perciò lo ricordo non soltanto con amore, ma con rispetto.

domenica 4 novembre 2018

Due Giovanni (e cent'anni di distanza)


https://www.flickr.com/photos/lyonora/6637505059/
Di sé ha lasciato una foto sbiadita, un fazzoletto di bosco in pendenza, il cognome che portiamo e rare parole, che gli si cavavano a forza dalla bocca, come l'unico dente che si dice abbia perso negli ottant'anni e passa in cui è vissuto, andando in ospedale una sola volta, l'ultima.
Una di quelle frasi era: "U' girà ùl mùnd, mì: Còm, Milàn, Sùndri", aveva "girato il mondo" lui, riferito alla circostanza precisa di aver messo piede a Como, Milano e Sondrio.
In realtà si era spinto più in là, a Sacile, in Friuli, artigliere di campagna, prima guerra mondiale, ma di quel periodo aggiungeva nulla, se non una mano sugli occhi, quando ci ripensava, come a non voler vedere, a sforzarsi di dimenticare, e un'unica annotazione che non riguardava la battaglia, la trincea, bensì: "i dòn e i s'ciat chi ciangìva", le donne e i bambini che piangevano.
Si chiamava Giovanni, come te, e se te ne scrivo oggi, alla vigilia del tuo sedicesimo compleanno, è per una coincidenza e insieme un'urgenza: cent'anni esatti fa, come oggi, finiva la Grande Guerra e farne memoria è il minimo dovuto a intere generazioni che in quel conflitto hanno speso e in molti casi spento il lume della loro giovinezza.
Non voglio aggiungere altro, dilungarmi in riflessioni che odorerebbero di retorica. Tu e i tuoi fratelli siate consapevoli di quanto siete fortunati a vivere in un tempo di prosperità quale nessuno ha conosciuto prima e spendetevi sempre per mantenere la pace, per costruirla. Perché la pace è sì un dono che si riceve, ma pure un impegno che si deve prendere, ogni giorno, scegliendo ciò che unisce invece di ciò che divide, immaginando ponti e non muri, dialogando sempre, senza mai chiudere o sbattere la porta.
Ricordalo, Giovanni, che non sei venuto dal nulla, che sei la cima di una tradizione senza enfasi, ma solida, antica, di cui porti il nome, il cognome e la responsabilità di manternerla viva.