venerdì 31 luglio 2015

La guerra dei rovi (dalla parte del bene)

Foto by Leonora
Chi non crede all'esistenza di un'intelligenza superiore, di un essere supremo che ha dato vita alla materia informe, plasmandola con sapienza divina e "programmandola" in modo che si adatti da sé all'esigenze di sopravvivenza, non taglia i rovi.
Lo avesse fatto, fosse rimasto un paio d'ore, d'estate, falce in mano, a liberare dalle piante infestanti una lista di prato o un muro di cinta, avrebbe provato nella sua stessa carne la forma arcuata della spina, che arpiona la pelle dell'avambraccio o di qualsiasi lembo di pelle non coperta e si conficca arpionandola. Per toglierla esistono soltanto due modi: con la forza, a strappo, procurandosi un dolore ancor più acuto di quando nella carne è entrata, oppure - se la spina è una sola, al massimo un paio - ruotandola leggermente, in modo che si stacchi da sé, seguendo il senso d'ingresso.
Non è però dello stupore di fronte a qualsiasi dettaglio presente in natura di cui voglio scrivere, ora. Piuttosto mi incuriosisce l'illusione di forza e al contempo la pochezza unita all'ostinazione del roveto. Esso infatti è rigoglioso e forte e verde, esplode in questa stagione e tutto ammanta e ricopre, all'apparenza inestricabile, arduo da debellare quanto da contenere. Basta tuttavia un poco di attenzione e di destrezza contadina per accorgersi quanto fragile sia, tutto fronde e rami che si inerpicano, ma di sostanza sotto sotto poca o niente, tanto che bastano rari tagli netti alla base per recidere i fusti principali e quel groviglio vegetale subito si inchina, si affloscia, si sgonfia, mantenendo la bruttezza, senza più possanza.
Non è finita. Poiché per averne ragione basta mano ferma e taglio sapiente, ma debellarlo definitivamente è assai più complicato, capace com'è di rigenerarsi da una radice o da un semplice ramo, che da solo si interra e ne crea altri che a loro volta si allungano, incessanti, coprendo tutto ciò che incontrano, armati soltanto di pazienza e di una forza misteriosa il cui nome è vita.
Certi giorni immagino il male che è in me - l'invidia, la disonestà, la debolezza, la cattiveria - proprio simile al roveto: ostinato, pervicace e, se non lo si respinge giorno per giorno, in grado di diventare rigoglioso e ammorbante. Basta però poco per troncarlo: un taglio netto, un'azione decisa, un gesto radicale, uno slancio di bene per districare l'intreccio che ci aggroviglia, soffocando la nostra migliore natura. Una battaglia che ogni volta si può vincere, in una guerra che non finisce mai.
P.S. Dai rovi nascono le more, morbide, dolci, gustose. Perché la natura sa sorprendere, sempre. E forse per insegnarci che anche da ciò che consideriamo male può nascere il bene.

mercoledì 22 luglio 2015

Padri a briglia larga (La faccia pulita dell'egoismo)

Foto by Leonora
I libri di Francesco Piccolo parlano di me, proprio di me. Per questo lo adoro.
Sono libri che davvero mi cambiano la vita o almeno il modo di vederla, con la conseguenza appunto di cambiarla. È successo con "Il desiderio di essere come tutti", riguardo alla politica, accade ora, con "Momenti di trascurabile infelicità", su un versante più intimo: la famiglia (all'inizio almeno, perché l'ho appena cominciato, magari proseguendo mi faranno vedere con occhi nuovi anche altri aspetti, tipo la pesca, la pubertà, l'arte sacra o altro ancora).
Nel concreto, a pagina 20, in un capitolo riguardante colui che dovrebbe essere un figlio maschio - che lui chiama "il giapponese" - Francesco Piccolo scrive: "Il momento più bello di tutta la giornata è quando il giapponese si addormenta. Oltre, ovviamente , alle ore in cui lui è a scuola, e noi al lavoro".
Già. Se sono onesto, onesto onesto, forse pure un filo troppo onesto, per me è lo stesso.
Quante volte torno a casa e dopo un tempo imprecisato di convivenza, utile per scambiarci qualche informazione sommaria, attendo che Giacomo e Giorgia se ne vadano per i fatti loro, magari andandosene proprio, visto che è estate ed è bello uscire con gli amici in compagnia? Resta Giovanni, che avendo dodici anni non esce tutte le sere, ma anche con lui, dopo magari aver visto un film insieme, aspetto che tolga placidamente il disturbo, salendo in camera sua, andando a dormire, "facendo il bravo" insomma, dove fare il bravo significa lasciarmi in pace, permettermi di fare ciò che voglio, vuoi vedere altro in tv o mangiare senza esser visto la Nutella.
Estremizzo. Esagero. Neanche troppo.
Quando capita che faccia qualcosa con i miei figli non perché piace a me, ma a loro?
Per la risposta bastano le dita di una mano. Monca.
Quando Giovanni sceglie il film che piace a lui e meno a me (una volta su dieci)... Quando accompagno Giacomo a far pratica per la patente (una volta ogni paio di settimane)... Quando porto Giorgia in auto all'oratorio o la riporto a casa dopo una festa (una volta al mese)...
Frattaglie.
La verità è che a differenza della loro madre io sono profondamente egoista. E se ci penso lo era pure mio padre, anche se io gli volevo un bene infinito. Forse perché in fondo sapevo che se avessi avuto bisogno, bisogno vero, sarebbe saltato nel fuoco per me o avrebbe scalato una montagna. O forse perché dopotutto un padre deve essere così, deve tenere la briglia larga, deve insegnare loro non la simbiosi, bensì l'autonomia, che poi dell'egoismo è la faccia pulita.
P.S. E anche stasera mi sono lavato la coscienza.

domenica 19 luglio 2015

Tre noci (Buon compleanno mamma)


Foto by Leonora
Tre noci, quelle che da bambino quatto quatto cavai dal sacchetto sullo scaffale e ti mostrai fiero, appena usciti dal supermercato.
Un ceffone, che mi rifilasti quello stesso istante, costringendomi a tornare indietro e a rimetterle a posto, facendo seguire alla sberla data d'impeto un appello accorato a non ripetere mai più una cosa simile, insegnandomi che non era stata una furbizia, bensì un furto.
Infinite migliaia, le volte in cui ti sei preoccupata per me, la maggior parte senza dirmelo, per lasciare che crescessi sereno, non schiacciato dal peso di essere figlio unico.
Due domeniche, nelle quali mi accompagnasti "di forza" all'oratorio, perché avevo tredici anni e adoravo restare per i fatti miei in stanza, a leggere libri sugli animali e a giocare a fare l'adulto, mentre tu eri ossessionata che crescessi "introverso", senza amici e con soltanto te come riferimento.
Cinque, le coca cole che lasciavi nel frigorifero prima di andare a lavorare, nel luglio del 1982, perché sapevi che c'erano i mondiali di calcio e nel pomeriggio sarebbero venuti a casa i miei amici, per vedere le partite, e volevi che fossero contenti, che si sentissero accolti, che la nostra fosse casa loro.
Un anno, un anno intero in cui mi pare di non ricordare una tua risata, un sorriso lieto: era morta la nonna, tua madre, e forse entrasti in depressione, non l'ho mai saputo, non te l'ho mai chiesto, so soltanto che avevo dodici anni e poi un giorno, d'inizio estate, arrivarono amici di famiglia a cena, noi apparecchiammo la tavola fuori dalla porta d'entrata - in un angolo dove poi non abbiamo più pranzato - e tu tornasti ai miei occhi a essere felice e ricordo come fossero ora le tue risate, una donna tornata ad essere viva e vivace, come ormai non la ricordavo.
Svariate decine, i viaggi che fai tuttora avanti e indietro, con l'auto, a scorrazzare i nipoti a scuola, a chitarra, dagli amici, a danza, a calcio.
Quattro, le amiche del cuore, ex colleghe, quelle che tu ancora chiami "le ragazze" pure se ragazze non lo sono ormai più da un pezzo e con le quali vai a mangiare ogni tanto la pizza o il gelato.
Tre libri, che leggi in media ogni settimana, da quando sei diventata una lettrice accanita, cioè da qualche anno, dimostrando che non è mai troppo tardi per avere una passione e non si smette mai di imparare, se si è curiosi davvero.
Novanta, i mesi in cui non ti alzi più con accanto tuo marito e tutti siamo andati avanti, te compresa, ma nessuno sa come brucia ritrovarsi senza qualcuno da abbracciare quando ci si sveglia al mattino e si ha il cuore greve e il semplice contatto di un corpo altrui abbatte la solitudine e le paure di ogni essere umano.
Settantacinque, come i tuoi anni, oggi.
Buon compleanno mamma.
Grazie per tutte le lezioni che mi hai dato, per tutte le volte che eri preoccupata senza dirmelo, per le occasioni in cui mi hai spinto fuori, incontro al mondo, invece di tenermi stretto a te, al caldo di un nido, sapendo che il tuo compito era farmi diventare un uomo e non mantenermi figlio. E scusami se le parole più dolci sono quelle che raramente ti dico.

giovedì 2 luglio 2015

Il ritorno del sorriso (siamo ruote che girano)

Foto by Leonora
Il collo di bottiglia del tempo è sempre più stretto e in questi giorni i pensieri, tutti insieme, fanno tappo.
Penso ai compagni del liceo incontrati due settimane fa, un ritrovarsi spontaneo, nonostante i trent'anni anni di solco, ma che ci ha restituito più docili, meno spigolosi, maturi davvero (e non in virtù di una licenza scolastica che allora era barriera da superare d'impeto).
Penso a Giacomo, ai suoi diciott'anni, all'esame di teoria della patente che ha appena superato e al fatto che se fosse nato nella mia generazione avrebbe avuto di fronte un anno da passare lontano dagli amici con cui trascorre la maggior parte del tempo, in una caserma a Vipiteno o a Fano o ad Ascoli Piceno (com'è cambiato il mondo, in meglio, anche se non ce ne accorgiamo, presi come siamo a temere il futuro e rimpiangere senza distinguo il passato).
Penso alla crisi, che se per qualcuno è soltanto dolo e danno, per alcuni è opportunità, mentre per tutti può essere un mondo più a misura d'uomo (penso ad esempio alle amministrazioni comunali, a come le risorse sempre più scarse costringano sindaci, assessori e consiglieri a cercare l'aiuto di tutti; penso agli stessi cittadini, che nel male e nel bene devono farsi carico in prima persona di problemi per i quali prima delegavano, costretti dagli eventi a ricordare che il paese in cui vivono non è di qualcun altro, bensì loro, per cui o si trasformano in comunità oppure fuori da casa cresceranno le erbacce, nessuno farà attraversare davanti alle scuole i bambini, gli anziani non potranno uscire di casa e sarà soltanto un grumo di appartamenti, senza legame sociale alcuno; penso alla tutela del paesaggio, che fino a che il mercato immobiliare "tirava" non importava a nessuno, mentre ora si fa di necessità virtù e si costruisce con molto più riguardo).
Penso alla bellezza dei ragazzi di cui sono stato ospite a cena, sabato scorso: insieme hanno chiesto un fazzoletto di terra e lo stanno trasformando in un parco, lavorando fianco a fianco, con tutto l'entusiasmo e la pienezza di vita dell'adolescenza, che mi pare meno complicata di un tempo, pur se il tempo nel frattempo si è complicato (me lo spiego nella capacità di adattamento degli esseri umani, per cui io che sono cresciuto in un altro tempo sono spaventato dalla precarietà, dall'incertezza introdotta dalla crisi di cui sopra, mentre loro ci sono cresciuti dentro e insieme alla malattia hanno sviluppato gli anticorpi per affrontarla al meglio, senza drammi né pianto).
Penso a tutto questo ma più di tutto a Stefania e a suo figlio Edoardo, che le assomiglia come una goccia d'acqua, anche se ha lo stampo di suo padre Tomaso, che dovrà imparare a conoscere dai racconti che altri faranno e per me, per sua madre credo, per tutti noi, se ci ragioniamo a freddo è una sofferenza lacerante, un'ingiustizia incommensurabile, ma lui probabilmente la avvertirà meno, almeno a prestar fede a ciò che mi raccontava il mio d'un padre, che il suo non aveva fatto in tempo a conoscerlo, avendolo perso anch'egli da bambino. Penso a Edoardo e Stefania ma per quanto mi sforzi nessuno può sapere né capire cosa provano realmente, dentro, ciò che si spezza e ciò che resiste, nonostante tutto. Siamo ruote che girano e un giorno, d'improvviso o annunciate, si fermano, questo sappiamo. Con due certezze: ciascuno è solo e nudo di fronte al dolore ma per chi sopravvive prima o poi torna il sorriso.