sabato 31 dicembre 2011

Dodici auguri (più uno) per il 2012

Che sia un anno di pioggia senza disastri e di sole mite; di silenzi e di quiete del cuore, che quando ti siedi non ti vien voglia di alzarti e quando ti alzi di sederti; di parole semplici, dette senza pensarci né troppo né poco, schiette; di buone letture di libri ma anche di frasi rubate come quella di Shauna Niequist che ho appena letto sul profilo di Michela e che mi ha ricordato una cosa squisita: i mandarini freddi; di lenzuola pulite che odorano di bucato e di fiori freschi sul tavolo; di mani tese e riempite senza bisogno di chiedere; di fiducia nell'altro e ottimismo, perché possono toglierci tutto tranne ciò che siamo veramente; di pranzi insieme e qualcuno anche da soli, masticando piano e gustando il sapore di ciò che si mette sotto i denti; di stanze imbiancate e quadri appesi in posti diversi, per abituarci a cambiare; di figli maschi e anche femmine; di sguardi, alcuni rubati; di complimenti, come quello stupendo che mi ha fatto martedì David, quando mi ha detto che io "so tenere insieme le persone"; di ricordi e dimenticanze e della parola fine, quando occorre, sempre meglio un istante prima che dopo, ch'è tardi.
Buon 2012, a tutti.

Foto by Leonora

venerdì 30 dicembre 2011

Cento di questi anni

Domani è un altro giorno ma dopo domani è un altro anno.
Archivio quello che sta passando con qualche ora di anticipo, grato del molto che ho ricevuto e senza rimpianti per ciò che non è accaduto. Continuo ad essere un uomo fortunato, raccogliendo assai più di quanto ho seminato.
Se riesco, domani metto in fila uno dietro gli altri i motivi principali per cui ricordo volentieri il 2011 e le speranze per cui confido nel 2012 che sta arrivando. Oggi mi accontento di lasciare qua un pensiero, sulle persone che non ci sono più, che negli anni scorsi ci hanno lasciato.
Tra pochi giorni ad esempio saranno quattro anni che mio padre è morto. Mia madre lo piange ancora e anche se sono giorni in cui non è simpaticissima, ieri mi ha fatto tenerezza perché mi ha detto: "Mi manca e a volte sembra anche a me di morire, vorrei solo potergli parlare, ogni tanto".
Ogni tanto vorrei potergli parlare, anch'io, e in realtà lo faccio. E' lui che parla a me, meglio.
In mille cose che faccio, nelle decisioni che prendo, negli oggetti che sono stati suoi e sopratutto nei moltissimi ricordi che ho di lui, nel fatto di averlo goduto così tanto pur se non siamo sempre stati appiccicati, essendo stato bravo lui a recidere il cordone ombelicale, a non voler imporre le sue scelte, a farmi camminare con le mie gambe, anche quando imboccavo una strada impervia o inciampavo. Per questo non lo rimpiango e sono anzi lieto che se ne sia andato così, presto, eppure senza rimorsi o rimpianti lui stesso. Pur s'è dura ammetterlo, credo che non sia importante spostare l'asticella qualche tempo più in là, bensì poter dire "tutto è compiuto".
Detto ciò, mi preparo a "compiere tutto" nei prossimi cento anni. Come minimo.

Foto by Leonora

mercoledì 28 dicembre 2011

L'albero dei Dominioni

Felice sarebbe stato contento. Attorno al tavolo di casa mia stasera c'erano ventotto persone, tutte accomunate dal legame a una radice comune, a una famiglia, ch'è quella a cui appartengono i miei figli, per parte di madre, Isabella, che di Felice è la figlia e che di cognome fa Dominioni.
Lo abbiamo chiamato proprio così, il "Natale dei Dominioni", una festa traslata nei giorni non nei contenuti, nello spirito più intimo di una ricorrenza che di magico ha appunto questo, la convivialità spontanea, la serenità della mente e dei cuori. Un'occasione anche per conoscere Alia, la moglie di Armando, che vive a Dubai e che abbiamo incontrato per la prima volta, da che si sono sposati.
Felice sarebbe stato contento, così come suo fratello Angelo, chiamato da noi Fermo, che era un uomo di molta saggezza e poche parole. Dei tre fratelli è rimasto Egidio, il più piccino, se piccino può considerarsi un uomo che per i primi settant'anni di vita ha avuto un peso forma di cento chili. Sono loro i capostipite, a loro volta figli di Gerolamo, una pertica di uno e novanta, dallo sguardo vigile e severo, morto all'inizio della seconda guerra mondiale.
Lo scrivo qui, a memoria dei miei figli, affinché non scordino da dove provengono, l'albero che li ha generati e di cui dovranno portare frutto, che non è necessariamente quello dei lombi, ma si riconosce dalle opere. Il loro trisavolo, Battista, al principio del secolo scorso si distingueva per l'ospitalità che dava ai poveri e ai mendicanti di passaggio. Nella corte dove abitavano, a Lurate, non mancava mai una scodella di brodo, una ciotola di latte, un pezzo di pane e un tetto sopra la testa, nel fienile o, d'inverno, al caldo della stalla, tra le mucche.
Quel tempo non esiste più e nemmeno gli animali da cortile, eppure mille sono le possibilità di continuarne la tradizione, di fare del bene. E' questo ciò che conta di più e che vorrei non scordassero Giovanni, Giorgia, Giacomo, Giulia, Matteo, Chiara, Tommaso, Francesca, Marco, Serena e Ilaria. Nessuno di loro porta degli antenati il cognome, ma nel sangue sono e rimarranno sempre dei Dominioni.

Foto by Leonora

domenica 25 dicembre 2011

Felice e felice Natale (in pace amen)

Tra un pranzo pantagruelico e l'altro aggiungo due cose su questo Natale che mi sono goduto soltanto nel finale, cioè da ieri, recuperando però il tempo perduto grazie all'abbraccio delle tantissime persone che mi vogliono bene.
La prima è proprio uno di questi incontri, per la precisione quello con Felice (Luraschi), un amico di mio padre, che non manca mai la vigilia di portarci un panettone in omaggio alla vecchia collaborazione, facendo entrambi il medesimo mestiere. Tra le perle di saggezza che mi ha regalato ce n'è una che riguarda proprio il loro lavoro. Felice infatti è un "rutamàtt", un grossista di rottami, ed è quello il tramite che lo accomuna con mio padre. "Qualche giorno fa sono stato a un incontro in Amministrazione Provinciale sulle nuove normative - mi ha detto - e continuavano a chiamarli rifiuti. Ma i rottami non sono rifiuti! Volevo dirglielo, ma non mi avrebbero capito, eppure per noi, che ci lavoriamo da cinquant'anni, i rottami sono oro!". Mi ha fatto sorridere e anche pensare, su un Paese che non sa più distinguere gli scarti da ciò che vale (e che veniva riciclato ben prima che fosse un obbligo di legge).
La seconda cosa invece è più intima e riguarda il passaggio del vangelo di Natale, in cui le schiere degli angeli cantano: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama".
Pace, non felicità. Non dev'essere una scelta casuale ed è così che mi sono arrovellato per scoprirne la motivazione. Non l'ho trovata, ma ho intuito forse qualcosa di meritevole.
Ho infatti sempre considerato la felicità l'aspirazione massima per l'essere umano, ma forse la pace la supera, poiché la felicità è una pienezza che si conquista ma è difficile da far durare, esattamente come stare sulla cresta dell'onda o il punto massimo di una scarica di corrente. La pace invece è un dono che si riceve, una disposizione del cuore che non conosce limiti di tempo e soddisfa, riempie, appaga l'uomo pur in assenza di quelle condizioni indispensabili per renderlo felice.

Foto by Leonora

venerdì 23 dicembre 2011

Buon Natale a tutti. Agli ispirati qualcosa di più

Non ce la farò mai, non riuscirò a chiamare o scrivere a tutti per gli auguri di Natale. Invece vorrei farlo, anche se non ho ancora completato i ringraziamenti per quelli ricevuti al mio compleanno e non posso essere come quei bimbi (e anche quegli adulti) golosi, che di fronte a una tavola imbandita hanno gli occhi più grandi della bocca.
Rimedio qua, in questo blog che deve continuare ad essere personale e calza a pennello per augurare buone feste ad amici e conoscenti, nella speranza di poterli incontrare o sentire nei giorni a venire.
Per tutti avrei voluto registrare e riportare fedelmente le parole del vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, il quale s'è soffermato proprio sulla formalità, sull'abitudine costituita dai momenti di convivialità, dalle occasioni di incontro, anche dallo scambio degli auguri. "Ma in ogni momento formale - gli ho sentito dire - esiste un margine di libertà in cui noi possiamo agire e che lo rende vero, sostanziale". Mentre lui parlava, in quel modo calmo, spontaneo, "ispirato" mi sembrerebbe il termine corretto da usare, ero tentato di metterle già in pratica le sue parole, di usarlo quel margine di libertà, lo avrei voluto abbracciare, come il figlio abbraccia un padre. Non l'ho fatto perché la sala era gremita e perché solo i santi possono permettersi di essere folli e io non sono né uno né l'altro. Se lo scrivo qua è perché attraverso i canali istituzionali questo messaggio non arriverebbe, perché questo spazio ha raggiunto persone che ormai ci sono affezionate e che se lo eliminassi o se lo lasciassi estinguere, mi parrebbe di fare un torto, di averle usate. In verità questo blog è assai più di un diario, è un pezzo di vita che consegno a chi mi vuole bene e che fa memoria di me, del mio mondo, assai più di qualsiasi altro strumento possa usare. E poi spesso mi utile, come oggi, che voglio augurare a tutti un buon Natale.

Per dimostrare grande sobrietà, questa volta non pubblico neanche la foto by Leonora

mercoledì 21 dicembre 2011

Il tempo sospeso

Scrivo poco, chiedo scusa a chi è abituato a bussare a questa porta, trovandoci sempre una scodella di latte e pane caldo, qualche volta anche una fetta di prosciutto o del miele, da spalmare su un crostino. In questi giorni invece nulla, nemmeno un frutto o qualche avanzo da scaldare, in forno.
Colpa del nuovo lavoro, che mi assorbe completamente, prosciugandomi del tutto quando arriva sera e l'unica cosa che desidero è sdraiarmi nel letto e chiudere gli occhi, dormendo sereno.
Il sorriso non manca mai, anche se ammetto che le pressioni sono notevoli, non alleviate dall'aver cominciato con il botto, suscitando l'ira del sindaco Mariani e la fibrillazione dell'intero arco costituzionale monzese, che non conoscendomi non sa cosa aspettarsi, se un bolscevico alle porte o un bandito al soldo del notibile di turno. Per sdrammatizzare mi hanno mostrato su YouTube il video con gli insulti del sindaco in versione rap. Ci rido sopra ma non troppo, ricordando che a questo mondo siamo tutti precari e tanto vale non abbassare la testa di fronte al prepotente. Il cruccio vero è che non mi sto godendo l'atmosfera natalizia, l'attesa di giorni che da quando sono piccolo restano per me magici, speciali, anche se diventando grande mi sento più cinico.
Oggi poi è un giorno triste, quello dell'ultimo saluto a Franca, la mamma di David, che ieri l'altro ci ha lasciato. Ma di questo non voglio parlare ora, ci sarà tempo e luogo per farlo. Su questo adesso preferisco il silenzio, perché ci sono cose troppo intime anche per chi - come me - è abituato a dire tutto.

Foto by Leonora

domenica 18 dicembre 2011

Una domenica allo Juventus Stadium

Sono grato a Simona Migliavada perché ha regalato una bella domenica a me e una giornata indimenticabile a Giacomo e Giovanni. Grazie a lei infatti siano andati allo Juventus Stadium di Torino, per vedere la partita contro il Novara. Avevamo posti a sette metri dal campo, roba che neanche alle partite dell'oratorio San Luigi sono così vicino.
La struttura è un gioiello di ingegneria e l'accoglienza curatissima, a prescindere dal settore di cui si ha il biglietto.
Non scorderò mai gli occhi di Giacomo e Giovanni appena entrati, di fronte alle muraglie di seggiolini ancora in gran parte vuoti (siamo arrivati un'ora e mezza prima) e a quel fazzoletto di terra color smeraldo.
Erano stupiti, meravigliati e io con loro, perché ricordavo la prima volta che mio padre mi aveva portato allo stadio, al Sinigaglia di Como, per un Como - Juventus deciso da una punizione di Cuccureddu. Era il 1973 o il 1974 credo e il gol fu assai contestato, a dimostrazione che le polemiche su arbitri ed affini sono vecchie quanto il mondo. Ricordo che i palloni erano immacolati e ne rimasi sorpreso e affascinato, in quanto all'oratorio giocavamo con vecchie sfere di cuoio consunto e ingrigito. Oggi i palloni sono d'un giallo acceso, mentre le maglie della Juve d'un rosa barocco, Balocco anzi, ma l'emozione è la stessa. Unica pecca, che non abbia segnato Del Piero. Sarebbe stato il massimo.
Oltre a ringraziare Simona, volevo fare i complimenti alla società di calcio, perché ha realizzato una struttura a cui si accede facilmente e che è curata in ogni singolo dettaglio. Fa venir voglia di passarci del tempo, di tornarci, insomma. Con Mauro, il fratello di Simona, che oggi ci ha accompagnato, lo abbiamo già deciso: in primavera torneremo, a Simona piacendo.

Foto by Leonora

venerdì 16 dicembre 2011

Davide batte ancora Golia

Oggi me ne sono capitate di tutti i colori. Gli insulti in una sala gremita del sindaco leghista di Monza ("BaGaglio cafone, bugiardo, imbroglione, appena sei arrivato rompi già le palle, ma dove sei cresciuto, nelle caverne con l'orso?". Vedere per credere il video), l'incontro bellissimo con i collaboratori de "il Cittadino", la chiusura delle quattro edizioni del giornale che va in edicola nei vari centri della Brianza, il sabato... Tantissime cose, tutte proiettate in qualche modo al futuro. Ce n'è una però che mi ha fatto felice davvero.
E' capitata a Como e chiude simbolicamente il cerchio della mia esperienza da capo cronista a "La Provincia". Si tratta della battaglia di cui sono più fiero e che riguarda le accuse di istigazione a delinquere e diffamazione nei confronti di Davide Scarano, l'ausiliario della Ca' d'Industria di Como che per questa vicenda è stato sospeso persino dal servizio, ha subito perquisizioni in casa all'alba con i bambini piccoli che piangevano, oltre a pressioni che un'altra persona, se fosse stata nei suoi panni, avrebbe perso il lume della ragione e non soltanto il lavoro. Il tutto per aver detto quello che pensava sulla casa di riposo e sulle scelte ritenute sconsiderate di chi l'amministrava, con ironia, anche, ma senza mai varcare i limiti non dico della legalità, ma anche del decoro.
Io, di questo, sono sempre stato convinto e infatti da quando sono venuto a conoscenza di ciò che stava avvenendo ho iniziato, con l'aiuto dei colleghi e il via libera dell'allora direttore, una controbattaglia diciamo "civile", con "La Provincia" che ha preso in sostanza la difesa del debole contro il sistema che lo stava stritolando.
Chi mi conosce lo sa, perché su questo tema ho scritto editoriali in prima pagina, commenti, rubriche e a un certo punto, come mi ha detto il mio dirimpettaio di scrivania, Emilio, era diventato un chiodo fisso. Su un punto però non ho mai derogato, cioè la fiducia nella giustizia e per una volta in quella fiducia il buono (cioè Scarano) è stato premiato.
La notizia di oggi è che Scarano è stato assolto con formula piena dal tribunale di Como, come si potrà leggere su "La Provincia" di domani, sabato o, per chi vuole saperne di più, sempre su "La Provincia", ma nel sito internet, dove c'è anche la documentazione completa di quanto avvenuto.
Dicevo che per me, con questa assoluzione, si chiude un cerchio perché la difesa di Scarano è la cosa che nei tre anni e mezzo in cui sono stato lì mi ha reso più orgoglioso. Sono contento altrettanto per i miei colleghi di settore, tutti, Paolo e Stefano per primi, che ne hanno seguito gli sviluppi giudiziari cogliendone immediatamente lo spirito, ma anche il direttore Gandola e poi Minonzio e tutti gli altri, che hanno fatto sì che la ricerca della verità non fosse il pallino o la stravaganza di un singolo, bensì l'impegno alla ricerca della verità da parte di un giornale intero.
Ma più di tutto sono contento per lui, per Davide, gigante buono e limpido, il cui candore è pari alla resistenza e che più di una volta mi ha commosso. E sono contento per la moglie, che di notte non dormiva più per le preoccupazioni e mi ha portato due volte una pastiera napoletana squisita, in segno di ringraziamento. Per me, gliel'ho anche detto, valeva più dell'oro. E sono felice per i figli, Alessandra (sette anni) e Mattia (otto mesi), troppo piccoli per comprendere ciò che stava succedendo ma che certo avranno avvertito la tensione, il trambusto. Per loro, a parziale risarcimento, ci sia questo: che il loro padre da ieri non è soltanto pienamente innocente, ma per me è sempre stato un eroe, un eroe moderno.
P.S. C'è un unico favore che ho da chiedere a Davide. Che non si monti la testa, ora, che ricordi quanto ha sofferto e sappia continuare su quella linea di sobrietà, di modestia, di cocciutaggine sì, ma senza clamore che in questi mesi lo ha contraddistinto. Se per me è un eroe è proprio per questo, perché non si è vergognato di dire ciò che pensava, senza sbraitare, senza fare la vittima, comportandosi da uomo tutto d'un pezzo, che non scende a compromessi quando c'è di mezzo la verità ma ha l'umiltà di non mettersi al centro di tutto. Il difficile per lui, in un certo senso, inizia adesso, ma so che se si comporterà come ha sempre fatto avrà una vita piena di soddisfazioni e anche meno agitata di quanto è stata adesso.

Foto by Leonora

mercoledì 14 dicembre 2011

Faloppiese bye bye

Giacomo da ieri non è più un giocatore della Faloppiese. Mi spiace, perché per lui era come la Juventus, tre anni fa ha voluto fortissimamente andarci (io ero contrario) e ci ha passato tre stagioni fantastiche.
L'allenatore a un certo punto non ha più puntato su di lui, tutto qui. Ci siamo lasciati di reciproco accordo, noi convinti che le scelte spettano nel bene e nel male a chi guida la squadra, loro abbastanza onesti da non prenderci in giro, trattenendolo per altri mesi e continuando a farlo giocare a spizzichi e bocconi (molti gli spizzichi, rarissimi i bocconi).
Giacomo ha quattordici anni e la cosa peggiore sarebbe che abbandonasse insieme con il calcio anche i sogni. Ciò che gli brucia di più, credo, è lasciare il gruppo, i compagni. L'ho visto con i lacrimoni ieri, sforzandosi di non piangere, per dimostrare che oltre che alto è anche grande.
Come ogni genitore avrei spostato le montagne pur di evitargli un dispiacere, ma la vita è fatta così ed è soprattutto nelle delusioni che si forgia il carattere.
In questi mesi sono stato fiero di lui, assai più che se avesse giocato sempre titolare. Ha tenuto duro, fin dove era ragionevolmente possibile, senza lamentarsi o mollare. Ha dimostrato a me, suo padre, cosa significa esser disciplinati, tosti, costanti. S'è convinto alla fine, quando ha compreso che non dipendeva più da lui bensì dalle scelte di altri.
Nei prossimi giorni decideremo insieme cosa fare, in quale squadra andare, anche se la scelta finale spetterà a lui. Io spero continui e che non perda l'entusiasmo che finora ha dimostrato di avere. Della Faloppiese, oltre a momenti indimenticabili (ne ho parlato anche sul blog, in questo post e poi anche in questo), restano molte occasioni di incontro e le amicizie coltivate, sia tra ragazzi, sia tra i genitori. Spero di non perderli di vista e di aver lasciato, come famiglia, un buon ricordo. A chi resta e alla società auguro le migliori fortune.

P.S. Prima ho citato due post, sulla Faloppiese, ma è questo che mi è più caro di tutti ed è così che questa parentesi la voglio archiviare.

Foto by Leonora

lunedì 12 dicembre 2011

Lo studente lavoratore

Studente lavoratore. Lo ripetono ossessivamente, in radio e in televisione, raccontando la tragedia dei tubi che si accartocciano sul palco del palasport di Trieste, uccidendo Francesco Pinna, un ragazzo di vent'anni che per pochi euro all'ora montava le impalcature.
Ma non è di questo che volevo parlare, né del triste sudario che si leva in questi casi, dove un dramma atroce si mescola con lo spettacolo, visto che su quel palco si sarebbe esibito poche ore più tardi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Lascio che il carrozzone vada avanti da sé e faccio un passo indietro, invocando la possibilità che deve esser data ai ragazzi di cimentarsi nel lavoro, di mettersi alla prova e nel contempo imparare un mestiere. Tra i molti tagli del governo Monti potrebbe esserci lo spazio anche per qualche agevolazione alle imprese, affinché inseriscano tra i loro ranghi delle persone con meno di trentacinque anni.
Io quella quota l'ho superata da un pezzo, ma devo dire che sono grato a quanti mi hanno permesso di lavorare, anche se non sempre in regola o retribuito congruamente, concedendomi però in cambio di attivarmi, di non restare passivo, di sperimentare.
Come spesso accade, in Italia passiamo direttamente da un estremo all'altro senza toccare quel mezzo che invece sarebbe auspicabile. Prendiamo il giornalista. All'abusivismo più vile, con nessun contratto in regola e il disprezzo pure della decenza si oppone una rigidità da "Primo premio Inpgi" che non si concilia affatto con le esigenze di autentica formazione.
Nel primo caso, le aziende che lo praticano restano impunite, perché altrimenti minacciano di portare i libri direttamente al tribunale fallimentare e chiudere baracca e burattini. Nel secondo caso (che ho sperimentato quando ero a La Provincia) non c'è un cavillo fuori posto ma per formare un possibile giornalista e poterlo valutare dovrebbero trascorrere almeno due ere geologiche, con poi il cappio al collo del non poter recedere dagli impegni, una volta presi, che detto in modo più brusco si traduce in un solo verbo: licenziare.
L'estrema flessibilità non è auspicabile, ma assolutamente indispensabile se vogliamo crescere generazioni di persone in gamba, che non si limitino a vivacchiare.
Lo scrivo non per me, ma per i miei figli, per i loro coetanei, che hanno diritto ad avere una possibilità come l'abbiamo avuta noi, che grazie a quella gavetta abbiamo imparato a guadagnarci il pane e a masticarlo pure.
L'alternativa non è "più occupazione per tutti", bensì un sistema ingessato, che si atrofizza pian piano e lentamente s'accartoccia. Così com'è capitato alla struttura sul palco del teatro di Trieste, dove per cinque euro all'ora un ragazzo doveva accontentarsi di mettere insieme tubi, mentre magari aspirava a far altro, ma non poteva permetterselo perché in Italia l'avviamento al lavoro è limitato da una giungla di vincoli e non resta che l'espediente, il tirare a campare fino a che in qualche caso, proprio come per Francesco, si muore.

Foto by Leonora

domenica 11 dicembre 2011

Qualche idea per Natale (meno pesce e più canne... da pesca)

Meno pesce e più canne da pesca. In questi tempi grami in cui il bianco Natale rischia di diventare grigio immagino dei regali alternativi, per non paralizzare l'economia e nel contempo evitare sprechi.
Penso ad esempio a un corso. Di giardinaggio, per imparare a coltivare in un fazzoletto di terra o anche su pochi vasi, in balcone, ortaggi ed erbe aromatiche. Di composizioni floreali, per riempire la casa di profumi e colori ma anche di bellezza, che non guasta mai, soprattutto negli appartamenti più spogli. Di taglio e cucito, per tornare a farsi vestiti, o di ferri da maglia, per berretti, sciarpe o maglioni. Di cucina, così si fa bella figura quando si invita gente a mangiare, che è un investimento di felicità, poiché poche cose danno soddisfazione all'essere umano più di un momento conviviale. Di inglese, così da poter comunicare con il mondo intero invece di limitarsi al pianerottolo di fianco al nostro, che a volte si fa fatica persino a salutare (per quello non occorrerebbe una lezione di buone maniere, basta essere più cortesi e contenti).
Non è vero che tutte le crisi vengono per nuocere.
La maggior parte consente di migliorare, a patto di non impigrirsi, di spremere la propria creatività e metterla al servizio degli altri.
E più di tutto, se potessi farne dono ai miei amici o a chi passa di qui, sceglierei un poco di ottimismo. Basta musi lunghi, previsioni apocalittiche, scenari da guerra nucleare. Ciò che abbiamo di più caro, le cose che non hanno prezzo ma un grande valore (gli affetti, l'amicizia, il gusto per il buono, per il bello, il piacere della lettura, la compagnia a tavola, le risate tra amici, le feste con i parenti, le passeggiate solitarie, lo spettacolo delle foglie che cadono dagli alberi, la scoperta di persone nuove, il ritrovarsi tra vecchi conoscenti...) nessuno ce le potrà mai levare. E, miracolo dei miracoli, nemmeno si possono tassare.

Foto by Leonora

venerdì 9 dicembre 2011

La stanchezza operosa

Stanco, stanco così non lo sono stato mai. Mai negli ultimi quindici anni almeno. Una stanchezza insieme fisica e mentale, dovuta ai nuovi ritmi, alle pressioni, ai viaggi, alle responsabilità. E' come se la mia testa fosse tutta un ribollire, confuso e insistente.
Calma. Ho bisogno di calma, lucidità. Prendere fiato, vedere luce, far passare pioggia e vento. Non posso spostare una montagna semplicemente caricandomela sulle spalle. Mi fermo. Penso a ciò che già so, che mi ripeto sempre: calma, strategia, visione.
L'ho scritto anche nero su bianco, sul giornale, usando la metafora della nave che non si sposta immediatamente, per far manovra richiede i suoi tempi e a una minima variazione di timone corrisponde magari un cambio di rotta ampio, ma molte miglia più in là. E prima di innestare l'avanti tutta occorre riflettere bene, considerando che poi non si frena d'un colpo o si può mettere la retromarcia come su un'auto, all'istante.
Lo scrivo qui, perché non mi sono mai vergognato delle mie debolezze. Credo che confessarle sia il secondo passo sulla via per superarle. Il primo è ammetterle.
Ora mi aspetta un fine settimana senza cellulare che trilla, senza pagine da passare, decisioni da prendere. Posso riflettere, leggere, ragionare. E sorridere, anche se di sorridere non ho mai smesso in questi giorni, perché faccio un mestiere che mi assomiglia e con persone che stimo, con le quali posso crescere. Quanto è diversa la stanchezza di questi giorni, tutta operativa, da quella greve, inerme, con le mani legate, che mi assillava quando le cose non andavano bene, quando mi mancava l'aria perché avrei voluto fare e invece dovevo frenarmi. In questo senso, anche s'è dicembre, mi sembra già estate.

Foto by Leonora

martedì 6 dicembre 2011

L'attimo fuggito (e se Nolan avesse ragione?)

Sto diventando vecchio. Me ne sono accorto ieri, rivendendo dopo anni "L'attimo fuggente". Per la prima volta ho pensato che la responsabilità del suicidio di Neil fosse anche del professor Keating, l'amato, adorato, ammiratissimo professor John Keating. Per la prima volta ho anche provato dispiacere, disperazione quasi, per il severissimo padre di Neil, per quel detestabile genitore che soffoca le aspirazioni del figlio, che ne inibisce la creatività, ma paga a prezzo carissimo le sue asprezze. E, ancor peggio, per la prima volta ho dubitato che avesse ragione anche il personaggio monocorde e vile rappresentato dal preside Nolan, quando avverte che è pericoloso instillare il seme della passione, del sogno, in una mente adolescenziale, per sua natura fragile.
Sto diventando vecchio e il bianco e nero non mi basta più, vedo le sfumature e cerco la giusta dose anche negli slanci.
Ci ho ripensato oggi, in due differenti occasioni. Stamattina, appena svegliato, e poi leggendo un messaggio che mi ha mandato Silvia riguardo a una insegnante dei suoi figli, rea di avere usato metodi didattici discutibili e non concordati con il resto del corpo docente, ma per questo messa in croce dai genitori e, quel che è peggio, con forza, violenza quasi, da parte dei colleghi.
"Ma è mai possibile che delle regole debbano considerarsi valevoli per sempre secula seculorum amen? Se i risultati non ci sono perchè non aggiustare il tiro? Chi mina dall'interno un sistema, qualunque esso sia, viene eliminato anche se è apportatore di novità che, poste in modo corretto, possono essere interessanti e costruttive". Se lo chiede Silvia, girando la domanda a me, che non ho risposte. Certo mi piacerebbe che i miei figli non crescano omologati, forgiati con lo stampino, inquadrati e imbalsamati. Per lo stesso motivo, però, vorrei fosse posta attenzione al loro punto di crescita, alla maturità effettiva. Una crescita che li aiuti a puntare in alto senza farli immediamente cadere.

Foto by Leonora

lunedì 5 dicembre 2011

L'albero e il seme

"Carissimo Giorgio, sono la professoressa Carolina Valsecchi in Taborelli.
Volevo congraturarmi con te per l'eccellente risultato che hai ottenuto diventando direttore del giornale di Monza.
Ti auguro ogni bene.
La tua professoressa Carolina Taborelli"

Quando ho letto la mail, stamattina, non credevo ai miei occhi. Dalla casa di riposo Vallardi, dov'è ospitata da anni, mi ha scritto la mia professoressa di matematica delle medie, colei che con la mia indolenza ho fatto più arrabbiare e che aveva ricambiato consigliando ai miei genitori di mandarmi, se proprio proprio, a una scuola professionale.
Io ostinatamente (e incoscientemente) non l'avevo ascoltata e mi ero iscritto al liceo scientifico. Una delle tante volta in cui in me s'è incarnato il proverbio: "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile. E la fecero".
Ripenso a queste cose dopo aver visto con i miei figli "L'attimo fuggente". Oggi nei confronti della professoressa Taborelli provo un profondo affetto, oltre che stupita gratitudine, essendo lei alla soglia dei novant'anni, credo, o avendo già superati. Se però dovessi innalzare un monumento agli insegnanti migliori, sceglierei coloro da cui ho imparato la creatività, la capacità di ragionare con la mia testa, la libertà delle idee. Non per questo biasimo la professoressa Taborelli, preferendo pensarla così: voleva giudicare l'albero che vedeva in me, senza sospettare che quello che vedeva era soltanto un seme.

Foto by Leonora

domenica 4 dicembre 2011

Non fare l'indiano, a meno che sei a tavola

Con Giovanni sono severo, mi arrabbio quando frigna e non mangia nulla. Dimentico che io ero molto, ma molto peggio e mi arrabbio ancora di più quando me lo fanno notare.
Dico che lo faccio per lui, che sono uno schizzinoso pentito, in verità dev'essere lo stesso seme che potenzialmente porta la vittima a diventare aguzzino.
E pensare che anche adesso, che pure sono migliorato un sacco, rimango un abitudinario pigro, che si perde moltissimi piaceri del gusto. L'altra sera, ad esempio, se non fosse stata per l'insistenza del mio amico Angelo, non sarei mai entrato in un ristorante indiano. Mi veniva fastidio anche solo a pensarlo e mi sono seduto al tavolo scettico, neanche che al posto della sedia ci fossero i chiodi di un fachiro. Invece alla fine se non mi portavano via a forza avrei mangiato pure le gambe del tavolo. Eravamo a Como, in via Borgovico, quasi di fronte al parcheggio di Villa Olmo. Il locale non era riscaldato benissimo, in compenso il cibo era delizioso. Non chiedetemi di pronunciare e tanto meno di trascrivere le pietanza che ho ingurgitato: so soltanto che c'erano salsine sublimi, carne di pollo cotta a puntino e delle focacce da urlo, con un retrogusto delicato di menta.
Mi sa che una delle prossime settimane ci porto Giovanni. Lui non mangerà nulla e io mi arrabbierò, ma intanto avrò la scusa per sbafarmi anche quello che c'è nel piatto suo.

Foto by Leonora

giovedì 1 dicembre 2011

La mamma elefante e i poteri forti

Mi sento in cima a un monte e sorrido pensando a come ci sono arrivato. Dirigere Il Cittadino senza tessere, senza raccomandazioni, spinte, non rappresentando nessun altro, se non me stesso. Gli unici poteri forti che conosco sono quelli di mia madre, che però - saggiamente - ha smesso di esercitarli quando avevo tredici anni e temendo che fossi di carattere troppo chiuso, introverso, mi ha spinto, letteralmente spinto, all'oratorio, tra persone in gamba, che sono gli amici che ho anche adesso.
(Volevo scrivere: mi ha spinto a calci, ma non sarebbe stato corretto. E' stato più uno spingere con il muso, come fanno i cavalli col puledro o le elefantesse con il loro cucciolo, quando ha ancora le gambe malferme e vorrebbe starsene accovacciato ma lo costringono ad alzarsi, a camminare, a stare al passo con il branco perché è l'unico modo per sopravvivere, chi si ferma è perduto).
Devo dire grazie a Massimo Cincera, l'editore, che mi ha scelto, guardandomi negli occhi, fidandosi del ragazzo che ero, cinque anni fa, la prima volta che l'ho incontrato e avevamo parlato della multimedialità, del futuro dell'informazione. Era stato Giorgio Gandola a organizzare l'incontro. Conoscevo poco anche lui, gli era piaciuto un report che gli avevo mandato via mail prendendo spunto dal libro di Vittorio Sabadin, "L'ultima copia del New York Times". "Devi parlare con Cincera" mi aveva detto. Così è stato. Tutto è nato lì, non c'è nulla dietro.
Basta però parlare del nuovo lavoro, è ora di farlo. Anche perché sono grato e commosso (commosso veramente, non per modo di dire) dalle dimostrazioni di affetto dei tanti amici che ho, però sono anche un po' in imbarazzo per questo clima da "Santo subito". Per fortuna se mi guardo allo specchio vedo sempre quel ragazzo chiuso, insicuro e pieno di difetti che a tredici anni sua madre ha spinto a lasciare la sua stanza, i libri sugli animali, il microscopio e il piccolo televisore con i baffi (l'antenna mobile), in bianco e nero, mandandolo all'oratorio, a imparare come si sta al mondo.

Foto by Leonora

mercoledì 30 novembre 2011

Da sabato cambio lavoro

Salendo le scale non perdo mai di vista chi le scende, ricordando che potrei essere io e che sono rimasto chiuso nel ripostiglio del seminterrato per molti anni. Un tempo a cui sono grato, poiché mi ha insegnato a portare rispetto per chi non trova l'ascensore giusto e ancor di più a godere del poco, figuriamoci quando il credito incassato è moltissimo.
Per chi non lo sapesse, da sabato cambio lavoro. Cioè, il lavoro resta identico, ma mi trasferisco una provincia più in là, a Monza, a una testata dal nome stupendo: Il Cittadino.
Se me l'avessero detto due mesi fa non ci avrei creduto e un po' non me ne rendo pienamente conto neppure adesso, ch'è tutto nero su bianco. Stanotte, ad esempio, mi sono svegliato di soprassalto e m'è capitata una cosa che non era mai successa prima: pensavo di essere diventato il direttore di un giornale e per la prima volta non era un sogno, non c'era nessuna greve amarezza e delusione al risveglio, era vero! Adesso posso dirlo: so cosa si prova a vincere al superenalotto. Non per i soldi, bensì per il piacere di andare a fare quello che mi piace davvero, di poter mettere alla prova le proprie idee dopo tanti anni di un passetto dopo l'altro.
Basta, non voglio dilungarmi, mi fermo. Del resto dai prossimi giorni (da sabato, per la precisione) potrò farlo senza freno. Qui lo segnalo soltanto per ringraziare le tantissime persone, ma proprio tante tante, che in questi anni mi hanno sostenuto, hanno creduto in me, mi hanno dimostrato stima, affetto. Non sarei nulla se fossi solo. Perciò voglio dividere la gioia con tutti, con tutti voi, nessuno escluso, sapendo che la gioia ha proprio questo di straordinario: che si moltiplica quando si divide, quando non la si tiene per sé ma se ne fa agli altri dono.

Foto by Leonora

domenica 27 novembre 2011

Carlo, Alessio e il mondo che non si ferma

L'annuncio è a pagina 18 del giornale di domani e lo vedo in anteprima sul computer. Solo cinque parole: "Ciao nonno Carlo, una roccia". Firmato Gisella e Davide.
Gisella è mia collega e a quel nonno spiccio e brillante, che fino a qualche settimana fa si spostava ancora in bicicletta, era affezionata quanto a un padre. Un acciacco se l'è portato via, con una rapidità da discesa libera, in un ospedale efficiente e modernissimo, dove sempre oggi a pochi metri di distanza, ma in tutt'altro reparto, Alessio piangeva per la prima volta, uscendo dalla pancia della mamma Sonia.
Il papà di Alessio è Marco Migliavada, uno dei miei più cari amici e di cui sono stato testimone di nozze, in un bel giorno di luglio, dentro una chiesetta in mezzo a un bosco che pareva uscita da una favola.
Questo però è un divagare da nulla, ciò che volevo descrivere è il passaggio infinito del testimone, dalla morte alla vita. Per un Carlo che parte c'è un Alessio che arriva ed è sempre stato così e così sarà sempre, perché come rispondeva Carol Wojtyla a quanti lo assillavano con i problemi più tragici: "Il mondo va avanti. Nessuno lo ferma...".
Il pianto di Gisella è lo stesso di quello di Alessio: un pianto di tristezza, di paura. Per entrambi però dopo lo smarrimento arriverà ad asciugare le lacrime quella incredibile forza che è la vita stessa, con il suo erompere e sgorgare instancabile dalle rocce, che aggiusta sempre le cose e medica ogni ferita. Dopo tutto, è proprio questa la lezione di nonno Carlo, che se n'è andato in fretta ma anche in pace, come quando saliva in sella alla sua bicicletta.

Foto by Leonora

martedì 22 novembre 2011

Liberiamo la tigre (storie di quotidiana determinazione)

Io, cinque anni, discesa della Napoleona, in macchina, guida mio zio, qualcuno si rivolge a me e passando di fronte a una grande fabbrica dice: "Lì lavora tuo padre. E tu? Tu cosa vuoi fare da grande?". Ci penso, dico: "Lo scienziato!". Risata generale, ci rimango male.
Non ho fatto lo scienziato, non lo potrei mai fare. Se però ho un seme di ambizione, sono certo ch'è stato piantato lì, allora, in quel preciso istante in cui tutti ridevano e avrei voluto essere già grande.
Camminando a ritroso sono molti i momenti di svolta che potrei elencare, ogni volta un bivio, una scelta da fare. Uno degli incroci decisivi è stato quattro anni fa, quando volevo cambiare lavoro e mi sono messo in testa che l'unico modo era rimboccarmi le maniche, mettermi a studiare, far funzionare il cervello con un obiettivo: migliorare. E' stato allora che ho aperto questo blog, con la disinvoltura di un orso sui pedali, promettendo a me stesso che avrei tenuto duro, che anche se ero imbranato ce la potevo fare e che se cascavo mi sarei dovuto comunque rialzare.
Lo scrivo oggi, ricordando che ogni conquista è sempre figlia di una delusione, che nessun salto in avanti sarebbe possibile senza i passi indietro che nella vita capita sempre di fare. Sta a noi decidere, se lasciarci cadere le braccia e maledire tutto e tutti oppure se stringere i denti e utilizzare lo spazio che si è creato per una ricorsa, per un ricominciare.

P.S. Dedicato ai cinquantenni che hanno perso il posto di lavoro, ma anche ai trentenni che non l'hanno ancora trovato e ai quarantenni come me, che oggi sono fortunati ma domani chissà: meglio essere preparati.

Foto by Leonora

lunedì 21 novembre 2011

Il bene che facciamo

Prendo a prestito le parole che mi ha detto settimana scorsa Maria: "Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto".
Continuo a pensarci, in questi giorni. Il bene che facciamo conta più degli errori, delle debolezze, del male commesso. Non è un alzare le spalle e giustificare i propri torti, semmai uno sprone alle buone azioni, ricordarsi che la regola non è "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", bensì "fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Un "non" di troppo che compromette tutta la prospettiva, trasformando in passiva indifferenza quello che invece presuppone un'azione, un moto a luogo, un impegno reale, una fatica.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e io non ho da mettermi nulla. O troppo poco. Una socievolezza a generosità limitata.
Perciò in questi giorni attingo a una scorta di energia, per prestare ascolto alle persone che mi sono più vicine e per rendermi prossimo anche alle altre, con un'urgenza fino a qualche settimana sconosciuta.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e non è mai troppo tardi, per darsi una mossa.

Foto by Leonora





domenica 20 novembre 2011

Professione fisioterapista: il tocco divino

Odiavo il lunedì. Ora lo tollero, l'ho metabolizzato, come la piccolissima scheggia d'osso che in principio faceva male e adesso neanche ricordo di avere, a pochi millimetri dall'occhio destro.
Marco Arighi è sempre contento. Non l'ho mai visto diverso, fin dai tempi in cui aiutava Vladimiro al PalaSampietro.
L'ho rivisto una settimana fa e non è cambiato: una persona positiva, che fa passare gli acciacchi con le mani e con la testa, trasmettendo un'energia devastante, quella del sorriso.
"Come fai a essere così? Hai davvero un bel carattere" gli ho detto. Mi ha risposto: "Sai Giorgio, ho la fortuna di fare il mestiere che mi piace, come faccio a non essere contento?".
Il mestiere che gli piace è il massofisioterapista e lo fa benissimo. Non è il solo, dalle parti di Como. Senza nulla togliere agli altri, senza dubbio bravissimi (Vladimiro è casinista ma fenomenale e l'ho già nominato, ma anche con Mauro Falzone mi sono trovato bene, pur avendolo frequentato pochissimo, e poi c'è Erica Mowinckel, come posso scordarla, così solare che contagia anch'essa col sorriso), per due di loro metto la mano sul fuoco senza timore di essere chiamato per il resto della mia vita Muzio.
Uno è Marco, appunto. Perché è generoso, disponibile, mai brusco, entusiasta di quello che fa e capace di trascinare persino i più pigri a faticare per tornare in forma, a prescindere dall'acciacco che hanno.
L'altro è Andrea Lanzi, forse il più professionale, quello che ha più esperienza di tutti e se si trattasse di farmi consigliare, tra lui e un medico sceglierei comunque lui (anche perché, essendo bravo, quando ti serve un medico è lui stesso a dirtelo).
Al di là dei gusti e dei pareri disinteressati e personali, la cosa che più mi colpisce di tutti loro è le belle persone che sono. Ogni mestiere ha il buono e il gramo, ma deve esserci un motivo se tra i massofisioterapisti la percentuale di bravi uomini e donne sfiora il cento per cento. Sarà il contatto con la sofferenza altrui che ne affina il carattere. Sarà che per spronare gli altri ad impegnarsi a tornare quello che erano o a migliorare le prestazioni devono crederci per primi loro. Sarà che stare a contatto con le persone non li aliena affatto, ricevendo in cambio un pizzico della molta energia che infondono. Sarà per tutto questo e per molto altro, ma la maggior parte dei fisioterapisti ha una marcia in più e va dato loro atto.
Detto ciò, spero di non doverli vedere in azione, preferendo incontrarli per caso o per piacere reciproco, ma se dovesse capitare qualcosa di storto (incrocio le dita e tutto il resto) so che ci suono buone mani in giro, per rimettermi in sesto.

Foto by Leonora

sabato 19 novembre 2011

Il capretto curioso e i cartoni dei bimbi anni Settanta

Prendo spunto da Davide, ch'è stufo di guardare i Teletubbies con la figlia.
Sono stato fortunato, nessuno dei miei ha avuto passione per gli inquietanti (a mio parere) pupazzi prodotti a suo tempo dalla Bbc, a dimostrazione che anche il servizio pubblico migliore del mondo a volte fa cadere le calze. Lo ammetto, è una presunzione di sonnolenza: non ne ho mia vista una puntata per intero, mi irritano persino le voci. Giovanni, l'unico che ogni tanto li guarda, non ne è entusiasta e questo giova al clima in famiglia, che già attorno alla televisione ruota la maggior parte delle frizioni e discussioni domestiche.
Lo dico io, che pur ho vissuto buona parte dell'infanzia sorbendomi improbabili trasmissioni ecumeniche, imposte dal compromesso storico, in cui i cartoni animati svedesi ("Gustavo") e pupazzi animati della Germania Federale ("Filopat e Patafil") oscuravano e sostituivano gli assai più invitanti protagonisti del mondo Disney o di Hanna & Barbera.
Ce n'era uno, in particolare, che mi ha accompagnato dai quattro ai sei anni e di cui s'è smarrita memoria. S'intitolava, credo, "Il capretto curioso" e rappresentava appunto le avventure di un capretto bianco, vagabondo, con il classico fazzoletto attaccato ad un bastone portato a spalla. Ricordo solo questo. Cerco poco disperatamente qualcuno che ne condivida la memoria.

Foto by Leonora

venerdì 18 novembre 2011

Cinquantenni sull'orlo di una crisi non solo di nervi

Alla fine è arrivata. Vicino a casa, accanto alla mia porta, tra persone che conosco da una vita.
Sto parlando della crisi. La crisi più subdola e pestifera che esista, perché non falcia tutti indistintamente, dimezzando il potere d'acquisto dell'intero paese, bensì toglie di mezzo donne e uomini pian piano, uno alla volta, mettendo in mezzo a una strada alcuni mentre per gli altri l'esistenza continua, meglio di prima.
Fra tutti coloro che devono caricarsi la croce in spalla ce n'è qualcuno che più di ogni altro paga dazio allo stillicidio di licenziamenti, dismissioni, contratti in scadenza, mancati rinnovi e chi più ne ha più ne metta. E' la fascia dei cinquantenni, coloro che sono né così vecchi da raggiunger l'età della pensione né abbastanza giovani da rimmettersi in gioco sulla giostra.
Prima ne conoscevo uno, poi due, ora sono diventati una decina. Uomini coi capelli sale e pepe e in molti casi un filo di pancetta, che per decenni hanno tirato la carriola, neppure immaginando di restare un giorno non lontano in mezzo a una strada, con figli ancora piccoli, un mutuo da pagare, la moglie che piange o si lamenta.
Prima di arrivare nel mezzo del cammin, in qualche caso erano riusciti a sbarcare il lunario, vivendo momenti di prosperità e gloria grazie ad attività in proprio. In qualche altro erano rimasti nei binari dell'onesta sopravvivenza, con un posto fisso e uno stipendio dignitoso, che permetteva di vivere non da nababbi ma neppure da barboni, farsi una casa, uscire ogni tanto a mangiarsi una pizza e andare una volta all'anno in vacanza.
Delle due tipologie, questa seconda è quella che meglio si adatta, perché abituata a una vita da formica, ma l'acqua si alza per tutti e in questi casi finisce per arrivare alla gola.
Chi invece è già immerso e affoga sono i primi, che neanche hanno la benzina di riserva e rischiano di restare tagliati fuori, passando dal benessere alla povertà nel giro di qualche settimana. Chi infatti li prende, chi li assume, chi offre un'altra opportunità lavorativa? Pochissimi, nessuno.
E' a loro che penso di più, ai cinquantenni che dovrebbero essere il ramo robusto di questa nostra società e invece non hanno più orizzonte, prospettiva.
I giovani se la caveranno appunto perché sono giovani e hanno fantasia, spirito di adattamento, energia, perché possono andare a ballare, addormentarsi alle cinque di mattina e svegliarsi due ore dopo ed essere freschi come una rosa.
Gli anziani sopravviveranno, pure tagliando loro un quarto di pensione, un po' perché appartengono a generazioni cresciute col gramo, un po' perché come certi orsi che vanno in letargo hanno imparato a rallentare il sistema fisiologico, moderando le esigenze e calibrandole al crepuscolo di vita.
Sono i cinquantenni a pagare più alto il dazio, è per loro che dovrebbe esser spesa dal nuovo governo un'urgenza. Sono cresciuti con "hai voluto la bicicletta, pedala" e ora sono troppo grandi per ammettere che qualcuno la bicicletta gliel'ha rubata, figuriamoci per rincorrerla e acciuffarla. I cinquantenni non hanno genitori che li possono accudire, né figli tanto grandi da essere indipendenti e dare una mano all'occorrenza.
O lo comprendiamo in fretta e troviamo una soluzione al problema o ci troveremo per la prima volta di fronte a una situazione mai verificata: la grande depressione orizzontale, che preserva la testa e la coda della nostra comunità minandone il cuore, falcidiando i più deboli, che paradossalmente sono quelli che fino ad oggi erano la parte più immobile, perché fatta di gente che si sentiva arrivata.

Foto by Leonora

giovedì 17 novembre 2011

Banche aperte e chiese chiuse

E' un governo di banchieri, viene detto a più riprese, per screditare le scelte del primo ministro Mario Monti.
Se ci pensate bene, fa già specie questo: che i "banchieri" possano "screditare" il governo, ch'è un po' come se gli idraulici capissero un tubo o i cuochi fossero dei bolliti.
Non sono contro le banche: le evito con cura. Ci sono entrato sì e no una mezza dozzina di volte in vita mia ed è sempre stata una sofferenza. Ciò non toglie che abbia amici bancari (bancari, non banchieri) che stimo moltissimo. Penso all'Arnaldo, a Dino, ad Augusto. E a mia cugina Roberta, che ha seguito le sorti del padre Gianni, l'unico fratello di mia madre (a proposito, oggi ho scoperto che proprio lo zio Gianni fu assunto all'allora Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde dallo zio di Monti, che era a sua volta parente di una mia zia, Carlotta. Loro tre, una sessantina di anni fa, andarono a trovare il comune zio a Milano, portando una lettera di referenze. "Ci fermammo a cena - ha spiegato mia mamma, in rigoroso dialetto lombardo - e ricordo che mangiai per la prima volta i cavoletti di Bruxelles impannati").
Torno a bomba (metaforicamente, ci mancherebbe) sull'argomento banca.
Non ho un rapporto di simpatia e nemmeno di cordialità, direi. Mi fido dell'Arnaldo, non della banca in sé. Di qualsiasi banca, visto che ne ho avute un paio e sono stato gabbato da entrambe (azioni Cirio e obbligazioni Argentina), per non parlare della famiglia di Isabella, ch'è stata addiruttura spolpata con manovra da mozzo di filibusta.
Premesso ciò, credo siano l'effetto e non la causa di buona parte dei mali.
La conferma l'ho avuta oggi. Ero in una grande città della Lombardia, e avendo una mezz'ora di tempo verso mezzogiorno ho bighellonato per il centro pedonale.
In trenta minuti non sono riuscito a entrare in una chiesa. Tutte con le porte serrate, o perché in disuso o per la pausa di metà giornata. In compenso non c'era una banca chiusa, con le loro sedi lussuose, le porte scorrevoli, un'opulenza dozzinale ed ostentata.
In fin della fiera, la morale è questa: abbiamo chiuso le chiese e aperto sempre più banche.
La non è loro la colpa, bensì nostra. Che abbiamo privilegiato il dio denaro a dispetto di quello fatto uomo, persona. Finché non torneremo a ribaltare i piatti della bilancia, dando valore ai beni immateriali, alla parte più intima, spirituale, che c'è in noi, è scontato che il primato spetti alla banca. Nel frattempo, prendendo atto dello stato delle cose e decretando questo come un tempo d'emergenza, avrei una proposta: non chiudiamo le banche ma almeno lasciamo aperte le chiese, riscoprendo la virtù del silenzio, dell'ascolto, dell'accoglienza.

Foto by Leonora

martedì 15 novembre 2011

La morte non è niente (se c'è complicità)

Complicità. Mi viene in mente questa parola mentre guardo "Last Chance Harvey". L'ho già visto, in italiano, ora lo riguardo, in inglese, coi sottotitoli (sbagliati, pressapochisti) in italiano.
M'è venuta in mente, poi ho scordato perché, quale fosse la scintilla che l'aveva accesa e che s'è spenta, rincorrendo altre scene, altri pensieri.
Me la sono ricordata adesso, vedendo Dustin Hoffman ballare con un'incantevole Liane Balaban, che nel film interpreta sua figlia. La parola complicità l'avevo inquadrata prima, quando loro due, da un capo all'altro del tavolo, si erano dati uno sguardo d'intesa. Ho pensato a me e Giorgia e a una fotografia, di Francesca e di suo padre, che avevo visto su Facebook qualche minuto prima.
Possono separarci anni, chilometri, città, incomprensioni, modi di intendere la vita ma basta un attimo per ricreare la magia di un legame che non può essere troncato, neanche dopo la vita.
Faccio un salto indietro. Oggi pomeriggio, poco prima delle tre, chiesa del collegio Gallio, il funerale dell'ex sindaco di Como, Alberto Botta. E' sua moglie Lorenza che prende la parola. Ha la voce strozzata, trattiene a stento le lacrime, legge una poesia di Sant'Agostino. Inizia così: "La morte non è niente".

La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.

La morte non è niente se c'è complicità. Vorrei dirlo ora, a Giorgia, perché lo sappia, perché non abbia mai paura. Ma ora dorme, mi spiace svegliarla. Lo appunto qui, così potrà leggerlo lei, un giorno, con calma. Mentre io me lo ricorderò sempre, a ogni nostro sguardo esclusivo, d'intesa.

Foto by Leonora

domenica 13 novembre 2011

Berlusconi esce di scena senza botto

L'ho scritto su Facebook: sono un romantico, il discorso finale di Berlusconi a me è piaciuto.
Qui metto il carico da paesano (per chi non conoscesse la terminologia lombarda nel gioco della briscola, il "carico da paesano" si concretizza allorché in una mano si raccimolano quattro figure - fanti, regine o re - il cui monte punti supera quota dieci, che equivale a un tre o a un asso): credo che l'uscita di scena del "povero Silvio" lo riscatti di molti degli scivoloni che in diciotto anni ha avuto.
Molti, non tutti, perché per quello ne occorrerebbero un migliaio di discorsi così e, più delle parole, con cui è sempre bravo, soprattutto servirebbero i fatti.
Il discorso di Berlusconi mi è piaciuto proprio perché questa volta - non succedeva da anni - seguiva un atto concreto, coraggioso, spontaneo, come le dimissioni.
"Bella forza, non aveva più la maggioranza" s'è detto. Non sono d'accordo. Silvio, il "povero Silvio" non ha avuto mai bisogno di una maggioranza: se gli occorreva, se la comprava, al dettaglio. L'ha fatto decine di volte, negli ultimi mesi. C'è qualcuno così ottuso o fazioso da immaginare che non potesse staccare un assegno di nuovo?
No, se n'è andato lui. Forse perché il pericolo per il paese (Paese, maiuscolo) è reale, forse perché s'è stancato di tutta quella fatica per niente, forse perché da abile attore qual è, ha capito che questa era l'occasione adatta per uscire di scena, carpendo un applauso.
L'hanno fischiato, è vero. Ma volete mettere qualche centinaio di buon temponi a fronte delle masnade che due settimane fa erano pronte al sacco di Roma pur di vederlo finito.
Ancora una volta è stato più furbo lui, ha gestito l'addio con un colpo di genio, oltre che di maestro: ha anestetizzato lo scontento. Essersi dimesso "domani" ha depotenziato il testosterone pubblico, come far bere a Rocco Siffredi un barile di bromuro, come obbligarti a mangiare tre chili di pane e poi darti in pasto il prosciutto: quanto ne vuoi, un chilo? Fossi matto, dammene una fettina che sono già pieno e a momenti m'addormo.
Gli avversari, i nemici, lo hanno visto uscire di scena così, meno "grogy" lui di loro, spompati dalla più lunga campagna antielettorale della storia dell'uomo. Dopo diciott'anni, chi attendeva il congedo col botto, s'è dovuto giocoforza accontentare di un "plof", col tappo di sughero che rotola nel lavandino.
Ora che il viale dei Tremonti è iniziato, avanti uno solo: Monti, appunto.
Dicono tutti che ci aspetta l'armageddon, che il diluvio è dietro l'angolo, che gemiti e stridore di denti siano il prossimo scenario all'ordine del giorno.
Sarà, ma mi sento fiducioso. Dopotutto - come recita la più scontata delle iconografie - noi italiani diamo il meglio quando tutto è (o almeno pare) perduto.
Di certo centinaia di deputati e di senatori hanno l'occasione di imitare Silviuccio nostro: invertire la clessidra, passare da rozzi gozzovigliatori e mangiapane a tradimento ad austeri e coscienziosi salvatori della Patria, morigerati quanto dev'essere Margherita Hack, quando passa dalla sala trucco.
Chi ha orecchie per intendere intenda, chi invece vuole continuare il banchetto pantagruelico, senza nemmeno l'accortezza di una breve pausa per il rutto, ricordiamo che non tutti sono Berlusconi: se non si spicciano se ne andranno anche loro, ma a pedate nello zoom zoom zoom fa il tacchino.

Foto by Leonora

venerdì 11 novembre 2011

Io non sono così

Io non sono così. Non come mi si vede nella foto di Facebook: tutto serio, col libro in mano, un pomeriggio di novembre, sul lago. Io non sono saggio quanto il Dalai Lama e comprensivo più del pio bove carducciano. Io mi incavolo. Mi inc...zzo proprio. Sono umorale, nervoso e balzano, che è una parola che nessuno usa più ma mi piace un sacco. E dico parolacce. Non molte. Qualcuna, quand'è il caso e il caso, di questi tempi è spesso. Stringo la mascella, gli occhi diventano una fessura e divento nero, nero proprio. E urlo. Alzo la voce. Ma il peggio viene quando l'abbasso, quando la pazienza è proprio al limite e le corde vocali scendono di un tono. Generalmente è in quel momento che sono peggiore, proprio uno str...zo. Di solito avviene così, con diagramma perfetto, prima piatto (perché sostanzialmente sono un razionale, per cui ragiono e ragiono e ragiono, mi calmo, cerco di starmene quieto, di pescare il buono in ogni cosa), poi in ascesa costante (perché ragiono e ragiono e ragiono sì, e comprendo e comprendo e comprendo altrettanto, ma intanto accumulo, mi carico di energia negativa, monto a neve se mi arrovello invano, senza trovare uno sbocco gradito), finché sbotto (tornare al punto precedente, quando stringo la mascella e urlo). A questo punto le alternative sono due: o ottengo ciò che voglio e allora mi placo, torno in modalità Milano- Vignola, paesaggio piatto, oppure la discussione va avanti e allora abbasso il volume e mi viene la voce da doppiatore di John Voight quando fa il cattivo e sul display del volto esce la scritta: furioso, accompagnata di solito da parole taglienti, sprezzanti, che mettono argine e pure fine al confronto.
Ora, per i novantaquattro su cento che invece di me vedono soltanto il versante bel tempo, vorrei essere sincero. Ai restanti sei, ristretti nella cerchia di parenti e colleghi, che invece hanno a che fare con mister Hide Giorgio, chiedo scusa, ma non me ne pento. Sta scritto da qualche parte che quando si dice "uomo di carattere" si tralascia l'aggettivo che lo qualifica, quel carattere: brutto. Se lo scrivo qua è per onestà intellettuale, perché soltanto una cosa mi spaventa di più che sembrare str...zo: essere falso. Dare di me un'immagine che non corrisponde al vero.
P.S. Per chi non avesse capito o si sta dicendo: "Ma come, lo conosco, non può essere vero", chiedere ai miei figli di raccontare come ho passato la giornata di ieri, il mio compleanno. C'è di buono che poi mi passa, presto.

mercoledì 9 novembre 2011

Mister B. e la terza Repubblica

Il lato B delle cose: si dimette domani e già mi manca.
Sarà l'avverarsi di ciò che scrivevo cinque giorni fa, oppure la sindrome di Stoccolma, come dice Selena, o più semplicemente un velo di spossatezza dopo anni di attesa: una sorta di depressione post parto, anche se partito lui non è ancora.
Già ne parlano tutti al passato però, compresi i due grandi che finiscono in "ini": Massimo Gramellini e Annalena Benini. Articoli memorabili, come sempre, quelli comparsi in prima pagina oggi su La Stampa e Il Foglio.
Su La Stampa poi ci si è messo pure il direttore, Mario Calabresi, con un pezzo di rara umanità, che riporta fedelmente un colloquio con mister B. in persona, ieri sera. Il finale è magnifico, poiché in poche righe riassume l'essenza del personaggio, che chiude una parentesi quasi ventennale rammiracandosi di non aver superato Giolitti, l'unico che è stato in carica più anni di lui. "Ma io sono stato il più longevo nell'Italia repubblicana. Questa di Giolitti però non la sapevo: peccato, peccato davvero. Vabbé, buonanotte". Le ultime parole di uno che hanno dipinto come angelo salvatore della Patria o demonio sceso in campo soltanto per scampare la galera,, mentre nel finale sta scritta la verita': voleva semplicemente ritagliarsi uno spazio sui libri di storia.
"Sic transit gloria mundi", gloria minuscolo, non Gloria quella di "citofonare Gloria via Olgettina 11, dopo i pasti, la sera".
Ne ha combinate di tutti i colori, se ne va senza sbattere la porta, dimostrando buon senso, ma anche come un Rumor o un Tanassi qualsiasi, per non aver superato 308 voti alla Camera, raccogliendo una fiducia formale ma non di sostanza. Come se prima invece ne avesse avuta una o si potesse chiamare tale la raccolta foraggiata di onorevoli che una mano l'alzavano in aula e l'altra la tenevano sotto il banco, tenendo stretto l'assegno del signor Bonaventura, quello da un milione e passa.
Non era Mussolini, non è stato De Gasperi. Non ha fatto dell'Italia un paese più efficiente, migliore, felice (d'altro canto, tutto si può dire, tranne che non abbia avuto sfiga: a parte la caduta di un meteorite sulla testa, in questi anni ne sono capitate di ogni, dalla crisi nera a quella piu' buia), ma neppure l'ha trasformato in quella dittatura agitata come uno spettro da chi non lo reggeva. La libertà di stampa esiste, quella di parola pure e forse ce n'è fin troppa: bisognerebbe concederla solo a chi l'accompagna alla coerenza, altrimenti è sciupata.
Non sono mai stato un suo sostenitore, ha sempre fatto di tutto per collocarsi al polo opposto della mia visione di vita: con l'età però tutto si stempera, molto si comprende, qualcosa si scusa e persino si perdona.
Il dispiacere maggiore è che si sia estinto per consunzione, non con un atto di dignità dei parlamentari italiani, bensì sotto le pressioni della Bce, del Fondo monetario internazionale, degli speculatori finanziari che ci minacciano a colpi di spread (ch'è già una parola brutta, qualcosa a metà tra spregio e una pernacchia), mentre un uomo che sia un uomo di colpi dovrebbe temere soltanto quelli di pistola o, se si rubano le uova a un contadino, quelli di vanga.
Ora che la foglia di fico s'è levata, non ci resta che contemplare la sciatta nudità di un popolo rappresentato da troppa gente senza nerbo né anima. Confido nel futuro e (pur essendo scettico) nell'impegno di gente che sia seria senza per forza esser grigia.
Da buon sempliciotto, ho una ricetta: governo tecnico di cinque mesi, riforme draconiane (mi piace la parola: draconiano) per ridurre gli sprechi ed elezioni a primavera.
Speravo tanto nella seconda Repubblica, ma è ora di passare alla Terza.

P.S. Mi sto già preparando. Avete fatto caso? Non ho l'ho mai nominato una volta.

Foto by Leonora

martedì 8 novembre 2011

Il buono di un uomo

L'avevo promesso e l'ho fatto: tiro il fiato, respiro piano, scrivo meno. Leggo. E osservo, mi guardo attorno, metto in moto i due neuroni del cervello mentre sono in auto, fermo al semaforo, e quando mi sveglio la notte, verso le cinque. Capita più raramente di un mese fa, ma non di rado. Non prendo rabbia, mi godo anche quel tempo, senza svegliare nessuno, al massimo mettendo la testa sotto il cuscino e fantasticando, tirando rette e tracciando curve che dovrebbero cambiare il destino del mondo e che si accartocciano nello spazio tra testata del letto e lenzuolo. Nel lavoro mi alleno a non accentrare ("Il delega" mi ha chiamato oggi Ferrari), a casa sono più sereno e per il resto sono attento a tenere i contatti con gli amici, sia quelli che vedo in carne ed ossa, sia quelli con cui il rapporto è un messaggio nella bottiglia, affidato alla corrente e al vento (amici "virtuali" non mi piace, poiché non esiste persona che incroci la mia strada e con cui non abbia un legame concreto). Adoro l'autunno, i colori che lo accompagnano e persino la pioggia di questi giorni smunti, in cui anche a mezzogiorno sembra tramonto. Tra due giorni compio gli anni e non mi fa né caldo né freddo. Sono nel "buono di un uomo" - come si dice da queste parti, solitamente in dialetto - ed è già un gran regalo.
Foto by Leonora

domenica 6 novembre 2011

Lacrime e fiamme (Steve Jobs di Walter Isaacson)

E' qui che mi guarda, con pupille penetranti e gli occhiali tondi, barba pepe e sale ben curata e lupetto nero. Steve J. mi guarda, dalla copertina del libro di Walter Isaacson, che ho comprato pur essendo generalmente ostile ai libri che comprano tutti: li compro anch'io, ma due o tre anni dopo.
Stavolta non ho resistito. Non ho ceduto all'istant book del Corriere, né ad altre pubblicazioni che d'un tratto hanno occupato gli scaffali migliori, ma quando sono entrato nel negozio di piazza San Fedele, una settimana fa, lui, Steve J., mi guardava, con quello sguardo intenso che diceva: "Sono qui per te, proprio per te". L'ho comprato. Perché il genio m'ha sempre affascinato e pur essendo io all'esatto polo opposto, quello della mediocrità, proprio come lui mi sono sempre sentito speciale, fortunato, un predestinato. Per fare che? Non lo so. Non si può avere sempre tutto.
Premesso questo, sono rimasto colpito da due cose. Una scontata ed è la capacità degli americani di scrivere biografie che non siano celebrazioni di questo o quel personaggio, ma cerchino di raccontarne la complessità, lato oscuro incluso. L'altra ne è una diretta conseguenza ed è la differenza tra il Jobs maturo, pubblico, patinato, che hanno conosciuto milioni di persone nel mondo, e quello controverso, fragile, a tratti inquietante, che traspare dal libro.
E' proprio vero ciò che ho notato quest'estate e che ho già messo d'appunto qui, cioè che impressionante è la differenza tra un prato visto da lontano, dall'alto e guardato appoggiandoci il naso.
Il genio è un tizzone ardente, che brucia dentro e, se non si sta attenti, tutt'attorno. Ciò non toglie un'oncia alla grandezza dell'uomo, ma lo fa scendere dal gradino più alto, impedendogli di tradire se stesso, sentendosi un dio.
La cosa che mi ha colpito di più? A parte che non era leale (ma questo credo sia nel dna di qualsiasi imprenditore di successo, fa parte del principio darwiniano che sopravvive il più forte o, nel caso specifico, il più furbo) e che per anni e anni ha camminato scalzo, facendosi il bagno di tanto in tanto, mai comunque più di una volta alla settimana, credo di esser rimasto impressionato dal numero di volte in cui ha pianto. Per rabbia, frustrazione, delusione, quasi mai per compassione, così almeno appare dal libro. Per questo si è dedicato alla cultura zen, per trovare equilibrio, per incanalare le fiamme e impedire che lo divorassero.

Foto by Leonora

sabato 5 novembre 2011

Godersi la vita

Sul giornale di domani scriverò di Francesca, che il 17 maggio ha lasciato armi e bagagli (beh, certo le armi, per quanto riguarda i bagagli non la conosco abbastanza bene per sapere s'è frugale oppure - come quasi tutte le donne che conosco - riesce a mettere in valigia quanto io non sarei capace di far stare in un armadio a sei ante) per andarsene a Londra.
Sono sempre stato affascinato dalle persone che partono per l'estero, come Riccardo - domani, nel "Sette giorni", parlo anche di lui - che è appena partito per l'Australia. Un'ammirazione che ha origine forse nel fatto che quel coraggio è mancato a me e che ora un poco lo rimpiango, anche se ad essere onesti non molte sono state le occasioni per andarmene e avevo sempre qualche motivo per non spostarmi da casa.
Tommy, con cui ho chiacchierato l'altra sera, va avanti e indietro da Formentera e mi è piaciuta una cosa che mi ha detto, cioè che in Spagna, a Madrid, ma anche Barcellona e altre città della penisola iberica (come mi piace scrivere: "penisola iberica", voi non ne avete idea) la crisi ha cambiato i costumi. "I ragazzi, ma anche gli adulti, non spendono più soldi in vestiti. Preferiscono mettersi un paio di jeans e una camicia e non risparmiare invece quando escono a mangiare, la sera, o a bere, con gli amici, nei locali, in compagnia".
Una constatazione di parte, d'accordo, non una ricerca scientifica, ma a me è piaciuta perché l'ho sentita vera, perché come stanno le cose ora anch'io farei lo stesso, metterei in cima alle mie priorità non un bene materiale, semmai un'emozione, il piacere di vivere un momento unico.
Se ci pensate, è l'esatto contrario di quanto hanno fatto i nostri genitori e la loro generazione, per una vita. Con questo non voglio dire che li biasimo, tutt'altro. Per me restano un modello di temperanza, di buon senso, di capacità di affrontare nel migliore dei modi l'esistenza, senza sprechi e gustandosi appieno ciò che avevano e che si sono ritagliati con sacrificio, gustandoselo ancora di più, proprio per quello, perchè era costato fatica.
La loro lezione resta valida ma credo sia necessario adeguarla, renderla attuale, aggiornarla al tempo che viviamo e alle scoperte che loro stessi hanno fatto quando era troppo tardi. Mi scuserete se mi rifaccio sempre alle persone che conosco, che ho avuto accanto, come la zia Angelina. Era del 1912 ed è morta sulla soglia dei novant'anni, di cui gli ultimi passati tra molti dolori, in carrozzina, lucida di testa ma con le giunture che cigolavano e i tendini rattrappiti, non per caso, dopo decenni di lavoro duro, spesso a lavar panni con olio di gomito, sapone di Marsiglia e acqua gelida. Lasciò a noi nipoti anche una piccola somma. Nulla di che, ma messo via poco alla volta, risparmiando anche sul cibo, perché era fatta così: era cresciuta nella miseria e non conosceva altra via che la continenza.
"Giorgio - mi ripeteva negli ultimi mesi, guardandomi con quegli occhi furbi e insieme taglienti, di chi sa di dire parole di scandalo per chi non capisce nulla della vita - Giùrgin, per anni sono andata la domenica in piazza Cavour, io e il zio Carletto (suo marito, il zio Carletto, alla lombarda, e non lo zio), e bevevamo al Drago Verde, alla fontanella, per non spendere i dieci centesimi della gazosa (gazosa, la chiamiava lei e anche noi, in famiglia, gazosa e non gassosa, ch'è roba di lusso, all'italiana)".
"E adesso - riprendeva tono e vigore da ragazzina, protaendo in avanti il busto e mulinando un indice adunco per l'artrite di cui dicevo prima - adesso potrei berne cento di gazose ma sono così conciata che non posso neanche uscire di casa. Ricordati allora, ricordati della tua zia Angelina. Non sciupare i soldi, ma goditi la vita".
Una lezione che non scordo e che resta una bussola. La bussola della zia Angelina.

Foto by Leonora