domenica 31 ottobre 2021

Punti e linea (In relazione)

“Potete immaginare, creare e costruire il luogo più meraviglioso della terra, ma occorreranno sempre le persone perché il sogno diventi realtà.”
(Walt Disney)

Ci sono persone vicine, anche a distanza, ed altre “presenti” pur se non ne abbiamo mai sfiorato i volti e incrociato i passi soltanto da lontano, di sponda.
È il mistero della natura umana: riuscire a dare significati oltre la materia, percepire sintonie ed affinità per caso, senza causa (apparente).
Così come definire propri pensieri non perché li abbiamo chiari in testa, bensì farli diventare tali nell’istante in cui li mettiamo nero su bianco, dando ad essi forma.
È il potere della condivisione, della corrispondenza, per cui ciascuno è un punto e l’insieme di noi linea, trama, disegno che si svela.
“Relazione” è ciò che ci distingue e lega.
Se faccio mente locale - un po’ come in quei gialli di Agatha Christie, in cui nel finale tutto viene chiarito e si collegano i fatti avvenuti sotto una luce nuova - mi accorgo ora che “Relazione” è la parola chiave e il filo che accomuna discussioni e letture recenti, dalla fisica (i “quanti”) alla genetica (i fenotipi), dalla sociologia (l’ambiente che condiziona) ai rapporti tra colleghi o in famiglia (“le regole non bastano, ciò che conta è la relazione”).

P.S. Vorrei ringraziare uno ad uno i molti “coautori in contumacia” di questo blog, cioè tutti coloro che quasi sempre senza saperlo hanno avuto un ruolo di innesco, di scintilla.
Capita infatti che, nello scrivere, a ispirarmi sia una persona.
Quasi sempre differente.
Spesso amica reale, talvolta conoscente occasionale, in alcuni casi estranea, ma che per qualche insondabile motivo, in quel dato istante, fa scattare l'interruttore, accende la luce.
Tu chiamale se vuoi, anche queste, “relazioni”.

sabato 30 ottobre 2021

Non ci credo (Ma accadono)

“Il valore di una coincidenza è uguale al suo grado di improbabilità.”
(Milan Kundera)

Non ci credo, ma accadono. Casualità, sincronie, coincidenze.
Qualcuno li chiama miracoli, qualcun altro magia, altri ancora provvidenza: io sto un passo indietro, senza scomodare nessuna potenza, limitandomi allo stupore di rilevarli e rivelarli, allorché ne trovo traccia.
La sorpresa nel volto altrui, quando capita. Il sorriso, gli occhi spalancati, a volte una lacrima.
Una tensione emotiva che trova sbocco nella terra di mezzo tra incredulità e contentezza.
Non ho bisogno di crederci, né credo poiché avvengono, tuttavia non sono neppure così sciocco o insensibile da rifiutare a prescindere: il fatto di non avere risposta non significa che non comprenda l'esistenza di una domanda.
Aprirsi allo stupore, lasciarsi attraversare dal dubbio, tenere aperta la porta della possibilità: tutto ciò non toglie nulla al razionale, semmai lo fortifica, poiché non lo assolutizza, evita che diventi verità incontestabile, cane che si morde la coda.
C'è un mondo oltre quello dei sensi, della comprensione attuale, umana.
Riconoscerlo è atto di umiltà e insieme di saggezza.
Vale per le piccole cose, così come per le immense, la morte, la vita.
Indossare gli occhiali dell'attenzione, restare vigili nell'osservare quanto ci succede attorno, tentare di captare segnali piccoli o grandi di meraviglia, rende meno cinici e allontana pure la sconforto, la tristezza, sapendo che il bello, il piacevole - come nella caccia al tesoro - è quando si trova qualcosa, ma altresì per il fatto stesso che si cerca.

P.S. Sono forse stato criptico, chiedo scusa. Ho preso spunto dal racconto emozionato di un amico che, proprio nel giorno di una ricorrenza speciale, l'anniversario di morte del padre, ha saputo di intraprendere una nuova avventura, di salire un gradino nella propria formazione di vita.
Ho ripensato a me, una sera di primavera di tredici anni fa, quando ricevetti la telefonata che avrebbe cambiato in meglio la mia esistenza. Anch'io avevo perso mio papà e poche ore prima, in mattinata, i ladri erano entrati in casa, facendo razzia dei pochi oggetti di valore economico, legati a ricordi cari di chi più non c'era. Ricordo l'atmosfera cupa, la tristezza, il pianto, la disperazione delle persone vicine e poi lo squillo del telefono, quelle comunicazione breve e asciutta ("Se ti va bene, appena riesci cominci a lavorare da noi"), un nodo che si scioglieva, l'incredulità che proprio quel giorno arrivasse a sintesi un'opportunità tanto attesa.

venerdì 29 ottobre 2021

Cambiare il mondo (Passione o pastina)

“Non può comprendere la passione chi non l'ha provata.”
(Dante Alighieri)

Ci sono persone che ci accompagnano per mano tutta una vita, altre soltanto per un lampo d’occhi, altre ancora per un tratto di cammino, scambiando opinioni, confidandosi a vicenda, mostrando un pezzetto di sé scontato o che non è mai stato rivelato ad alcuno prima.
A tutti sono grato, poiché ciascuno ha messo almeno un mattone all’uomo che sono, alla persona che non sarebbe nulla senza relazione con gli altri, un po’ come la realtà secondo la fisica quantistica.
Anche quando scrivo qui, quasi ogni volta, per non dire sempre, tutto parte da un incrocio, da linee che si incontrano o da uno dei tanti nodi della rete che agli altri mi lega.
Come stamane, scorgendo la fotografia di Peter Bardaglio poco più di un anno fa, mentre tiene una bottiglia di spumante in mano e un tappo e sorride, avendo ricevuto una notizia tanto attesa.
Ero a casa sua, a Trumansburg, New York, nel luglio del 2016, alla vigilia di una campagna elettorale che si sarebbe rivelata sorprendente e per lui, come per molti altri, amara.
Peter e sua moglie Wrexie restavano già ore a discutere, a leggere, a guardare notiziari in tv, facendo previsioni e supposizioni su come sarebbe andata e così sono certo abbiano fatto in tutta l'era Trump, passando dallo sgomento alla speranza, masticando spesso sconforto, delusione, rabbia.
Non voglio ripercorrere tutta la storia, soltanto dire che mi immagino la loro gioia, quando dodici mesi fa la consapevolezza che gli Stati Uniti avessero svoltato è diventata certezza.
La loro passione, il loro entusiasmo è lo stesso dei miei figli e delle persone a cui più tengo, anch’esse capaci di partecipare emotivamente a ciò che accade loro attorno, costringendo anche me a non restare freddo, indifferente, come invece tenderei a fare, con quel distacco che mi viene metà dalla professione che ho scelto, metà dalle esperienze maturate nella vita e che mi mostrano le sfumature di grigio e mai bianco o nero, buono o cattivo, di qua o di là della staccionata.
Se non fosse per loro, per tutti coloro che mi fanno da esempio, il mio distacco diventerebbe cinismo, il buon senso una minestrina tiepida, di quelle che nutrono poco e intristiscono qualsiasi tavola.

P.S. "Tu non mi dai mai ragione" mi dice, mentre parliamo di politica.
"Io ti do ragione praticamente sempre - rispondo - tranne quando la fai facile, quando dici che basterebbe poco, un decisione, un ordine, una regola. Invece no, non basta mai poco. Ogni scelta ha le sue conseguenze, le sue linee d'ombra, le controindicazioni...".
"Vabbè non mi dai mai ragione".
Fine del discorso.
(Non della passione).

giovedì 28 ottobre 2021

Ripieno di vita (Ciao Gianni)

“Proprio come sceglierò la mia nave quando mi accingerò ad un viaggio, o la mia casa quando intenderò prendere una residenza, così sceglierò la mia morte quando mi accingerò ad abbandonare la vita.”
Lucio Anneo Seneca

Se ne vanno uno ad uno, come soldati in fila indiana. Amici nati o cresciuti a cavallo dell'ultima guerra, condividendo tutto ciò ch'è arrivato dopo, l'abbondanza del benessere ottenuto lavorando sodo e la leggerezza del tempo libero da poter trascorrere in compagnia, al circolo delle bocce, allo stadio, al bar del centro sportivo o in cooperativa.
Gianni se n'è andato nel silenzio di una stanza, al contrario di com'era vissuto, chiassoso e sorridente, sempre in giro, una trottola con gambe e braccia, una sagoma d'uomo che passava dall'argomento serio alla risata, a volte ammiccando, altre provocando o pungendo, mai però con cattiveria, al massimo civetteria.
Era il suo tempo per lasciarci, anche se comprendo il dolore della figlia Antonella, di Cristina e delle nipoti, alle prese con un vuoto ancor più grande perché Gianni tutto ciò che aveva attorno lo riempiva.
Proprio per rispetto del dolore altrui non voglio mettermi in prima fila, poiché altri lo conoscevano meglio, altri lo frequentavano, altri condividevano legami intimi e profondi, durati una vita.
A me mancheranno i suoi colpi di clacson, ogni volta che arrivava sotto le finestre della casa dove abita sua figlia, a ridosso della mia. Un suono che ho sempre interpretato come gioia per l'imminente incontro con i parenti, ma anche come uno "Sveglia!". Ed è anche per questo che non riesco a pensare che riposi in pace, perché il verbo "riposare" proprio non gli si attaglia, però è giusto che noi, tutti noi, lo si lasci andare, poiché altri giri deve fare con il suo camioncino, in un'altra dimensione deve dare compimento al suo desiderio di vita.

P.S. Ho scritto che tutto ciò che aveva attorno lo riempiva, mi accorgo ora che valeva altresì per il lavoro che ha sempre fatto, la produzione e consegna di ravioli, pur se la sua grande passione era un'altra: il Milan. E considero una nota aspra, quasi una beffa, che così come Ambrogio per l'Inter, l'anno scorso, anche Gianni se ne sia andato mentre la sua squadra del cuore è in testa, senza però poter assaporare il risultato finale. Non qui, ma certamente se c'è un "di là", Gianni me lo vedo già in piedi, con sulle spalle la bandiera rossonera, sorridente e con gli occhi da furbo, pronto a prendere in giro e poi a svignarsela, dando ancora un colpo di clacson, contento di averla fatta franca e pronto per una nuova avventura.

mercoledì 27 ottobre 2021

La virtù del trascurare (Pazienza e distanza)

“Non c’è nulla di più forte di quei due combattenti là: tempo e pazienza.”
Lev Tolstoj

Ho il pollice verde pallido, tendente alla sindrome da premura: la maggior parte delle piante d'appartamento di cui mi occupo muore per questo, per eccesso di cura.
I due esemplari di "dracaena", detti anche tronchetti della felicità, si sono prima intristiti poi spenti così, esauriti dalla continua attenzione riservata, dando ad esse acqua quando non sarebbe servita e negandola nei momenti in cui era più che necessaria.
Colpa mia: applico al mondo vegetale le regole dell'esistenza umana e di questo tempo frenetico in cui immaginiamo di poter intervenire su tutto, persino quando sarebbe opportuno fare nulla.
Le piante invece sono maestre di pazienza: non hanno gambe né braccia, bensì fronde che tendono al cielo e radici che le tengono ancorate alla terra, per cui hanno imparato a non correre, ad affrontare altrimenti il rischio, il pericolo, l'emergenza.
Invidio i giardinieri esperti, la cui passione è il contrario della frenesia. Sono in sintonia con il mondo e stando un passo indietro, vedono lungo e vanno più lontano di chi come me si accapiglia.

P.S. I greci ci hanno insegnato che esiste un "tempo giusto", il kairos; di giusto dovrebbe sempre esistere anche una misura, una distanza.
Pure con le persone. I familiari, i parenti, i colleghi, gli amici. Troppo vicini si soffoca, troppo lontani ci si perde di vista, si tronca la relazione, non si comunica.

martedì 26 ottobre 2021

Foglie e rastrello (La scelta)

Ognuno dovrebbe trovare il tempo per sedersi e guardare la caduta delle foglie.
(Elizabeth Lawrence)

In giardino di questi tempi vado poco, sempre però traendo osservazioni curiose o vere e proprie lezioni  dal grande disegno che offre la natura, come da ogni piccolo dettaglio.
Nel fine settimana, ad esempio, rastrellando le foglie disperse sotto il faggio, ho riflettuto sul fatto che nessun albero evita la pena di prestarvi cura, se insieme ad esso si pretende pure un bel prato.
L'eterno dilemma della botte piena e della moglie ubriaca, virata però sul vegetale.
Se si tratta di piante comuni, infatti, a cavallo tra ottobre e novembre daranno filo da torcere, disperdendo per due mesi fogliame ovunque, costringendo almeno a un intervento settimanale.
Se invece ci si illude di faticare meno, optando per i sempreverde, siano essi aghiformi, come l'abete o il tasso, sia a falda larga, come la magnolia o il pungitopo, è vero che non occorrerà cimentarsi con messe autunnali abbondanti, ma sarà uno stillicidio senza esclusione di rastrello in alcun mese dell'anno.
La somma del tempo e dell'impegno sarà dunque identica, a prescindere dalla specie messa a dimora in giardino.
Morale: scorciatoie non ce ne sono. In natura e pure in ciò che più conta per la donna e per l'uomo (i sentimenti, gli affetti, la conoscenza, l'esperienza, l'amicizia, l'amore...).

P.S. Mi sento in colpa, lo ammetto, con le molte persone a cui sto dedicando poco tempo, non tanto quanto vorrei, non come meriterebbero. Se non posso essere come il giardiniere d'autunno, che si applica tanto per un tempo limitato, cercherò di essere almeno come quello delle pinete, che un poco alla volta, si prende cura di continuo. Promesso.

lunedì 25 ottobre 2021

Giorgio e il professor Dopodiché (Pro memoria)

L'ho sempre detto: tieni un diario, e un bel giorno sarà lui a tenere te.
(Mae West)

Scrivo sovente con "un occhio alla croce e uno a San Giovanni", cioè parlando ogni volta un poco di me, ma badando altresì ad esprimere qualcosa che interessi tutti o almeno quelli che passano da qui, con dedizione e affetto.
Faccio eccezione oggi, per rimediare a una lacuna di memoria che mi rendo conto essere evidente - e a cui ho già accennato qualche giorno fa, citando la sorpresa con cui osservo i "miei ricordi" proposti dai social network - elencando ad uso personale alcune azioni che distinguono questo scorcio di tempo, così che un giorno possa esclamare: "Ah però! Non lo ricordavo".
Per cominciare, ascolto molti podcast. Ad esempio, tutti quelli di Barbero (il "professor Dopodiché", come mi viene spontaneo chiamarlo, per quell'espressione che ha come intercalare e che adoro), ma anche Focus Storia o altri similari.
Leggo non tanto quanto in passato, rari i romanzi, più numerosi i saggi, specialmente di antropologia (il migliore di tutti, consigliatissimo, La vita spiegata da un Sapiens a un Neanderthal di Juan José Millás  e  Juan Luis Arsuaga, ma pure La scimmia nuda di Desmond Morris) o di sociologia, come quello di cui ho scritto ieri, di Rutger Bergman, nel post sul calcio.
Guardo pochissimi film e molte serie tv, su Netflix.
Due di esse mi hanno di recente affascinato, per motivi opposti: The Good Doctor e Big Mouth.
La prima, molto americana, paternalistica, commovente, capace di far riflettere e insieme offrire uno spaccato della modernità, del tipo di società che il sistema vuole proporci (imporci, direbbe qualcuno).
La seconda, una serie animata, anch'essa molto americana, spudoratissima, cinica e caustica, capace tuttavia di parlarci di noi e delle nostre pulsioni, dei desideri, delle paure, delle vergogne di ciascuno, trasmettendoci l'idea che sono assai simili a quelle altrui, per cui non siamo soli a questo mondo.

P.S. Fino a qualche settimana fa Benedict Cumberbatch era il mio attore preferito. Lo è tuttora, a pari merito però con Freddie Highmore, semplicemente strepitoso nell'interpretare il protagonista di The Good Doctor. Sia iscritto a verbale, anche se tranne il sottoscritto non interessa nessuno.


domenica 24 ottobre 2021

Quello che il calcio (Abbracci)

“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”.
(Jorge Luis Borges)

Se ne parla tanto, troppo, spesso somigliando al fondo d'uno stagno, dove l'acqua è stantia e si deposita il fango.
In più, come tutte le chiese (minuscolo), è divisivo: c'è chi lo detesta, non sopportando nemmeno che venga nominato, e chi lo ama, trovando un fascino che va oltre i soldi, gli affari, cogliendo in esso qualcosa di puro, di innocente, di magico, che perpetua il bambino in ciascuno di noi, preservando dal divenire completamente adulto, vecchio.
Il calcio è più di uno sport: è un gioco.
Ometterò qui tutto ciò che lo riguarda, tranne quanto mi piace di più - oltre l'agonismo, le bandiere, il tifo, la partecipazione, la passione, l'entusiasmo, la bellezza, lo stile, la poesia, la rivalità, la sportività, la storia, la tradizione, le novità, la sorpresa, le dinamiche di gruppo, le prodezze del singolo e molto molto altro - cioè questo: il rapporto di lealtà e cameratismo tra compagni di squadra e anche tra avversari, in nove casi su dieci, che guarda caso non sono mai quelli che finiscono sui quotidiani il giorno dopo o in televisione o sul web, a ridosso di un incontro.
Eppure a prestarvi attenzioni sono la regola, la norma di gran lunga più frequente, a dimostrazione di ciò che scrive Rutger Bergman per un contesto più ampio, nel libro Una nuova storia (non cinica) dell'umanità, secondo cui gli esseri umani sono fatti per la gentilezza e siano predisposti alla cooperazione assai più che alla competizione.
L'abbraccio tra compagni dopo un gol o un salvataggio, la mano tesa quando uno è a terra, i saluti rispettosi al termine della gara, sono la foresta silenziosa che prospera mentre noi siamo distratti dal rumore dell'albero che cade ovvero da comportamenti antisportivi che nella somma totale degli episodi di una partita non superano mai il punto percentuale, la virgola in seno al paragrafo.


P.S. Poi ci sarebbe quanto avviene sugli spalti, in tribuna, con un campionario di urla e improperi e gestacci che rivelano un lato oscuro dell'essere umano. Una minoranza anche in quel caso, è vero, però se siamo onesti dobbiamo ammettere che il calcio richiama gli istinti peggiori che albergano dentro chiunque di noi, pure il più mite, il mezzo santo. Sarei curioso di sapere come si comporta il buon Rutger quando entra allo stadio.

sabato 23 ottobre 2021

Inciampo (Un tiro di dadi)

Einstein sbagliò quando disse: "Dio non gioca a dadi". La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti non solo che Dio giochi dadi, ma che a volte ci confonda gettandoli dove non li si può vedere.

(Stephen Hawking)


Camminavate una accanto all'altra, a un certo punto dandovi la mano, per superare il marciapiede, un cordolo troppo alto per lei, debilitata da una lotta ad armi impari, che da mesi la logora, intaccando morale e fisico.
Tu non l'hai abbandonata e ora ti schernisci, quando qualcuno lo sottolinea, rispondendo sarcastica a tono: "Da quanti anni è che ci sopportiamo?".
Molti. Più di quanti appaiono a un conteggio di spanne, considerato che nella testa restiamo ragazzi e per l'adolescente che ero voi, più grandi di qualche anno, eravate bellissime, una bionda e l'altra mora, irraggiungibili, soggetto proibito di desiderio.
Eravate un sogno e, come tutti i sogni, non è mancata l'alba in cui c'è toccato aprire gli occhi e alzarci dal soffice del letto.
Tu sei rimasta single, lei s'è sposata, ha avuto una figlia, due nipoti e un male che le s'è appiccicato addosso, nel momento esatto della parabola di vita in cui ci si prepara alla serenità della discesa, per gustare decenni di tramonto.
Vi ho ritrovato insieme, oggi, e in cinque minuti ho detto a entrambe più di quanto abbia mai fatto prima, per timidezza quando ero piccolo, per pudore una volta diventato adulto.
Ne sono restato contento, pentendomi tuttavia per non averlo fatto prima, per non avere trovato audacia e coraggio per dirvi esplicitamente ciò che avete significato per il ragazzo che ero e, di sponda, per l'uomo che sono.


P.S. Ho scritto in prima persona a te, ma è a lei che penso spesso, incapace di immaginare quanto in questi mesi sta provando, insieme ai suoi cari, sconsolato per la beffa di un inciampo che la sta privando delle gioie grandi e piccole di ciò che ha costruito. Davvero il destino è un tiro di dadi senza senso apparente, almeno a scorgerlo da questa parte della finestra sul mondo.

venerdì 22 ottobre 2021

Benedetti difetti (Noi, allo specchio)

“Con le pietre che tiriamo loro, i geni costruiscono nuove strade noi.”

(Paul Eldridge)


Ho le mie idee, temo l'applauso quanto il fischio e orrore del mito che si alimenta e che può stroncare chiunque, qualsiasi personalità non matura, innanzi tutto.
Ricordo bene le vicende personali del protagonista di Mamma, ho perso l'aereo, così come di molti bimbi prodigio dello spettacolo (da Arnold de Il mio amico Arnold a Jonie di Happy Days) e pure quella di Paolo, che da piccolo era biondo e bellissimo e coccolato da tutti: è cresciuto viziato e ribelle, rovinandosi presto.
Non è una regola universale, esistono eccezioni abbondanti, tuttavia la tendenza pare evidente e mi ha spinto sempre a stare in guardia più che dalle critiche dalle esaltazioni facili, dagli occhi sbarrati - cioè ciechi - degli adulatori entusiasti, dai complimenti in coro.
Un pericolo verso il quale hanno pelle più spessa, senza esserne immuni del tutto, gli adulti.
Il consenso continuo, l'assenza di critica, il cammino senza evidente pericolo e sul quale è disteso un lungo, soffice tappeto rosso conduce con sicurezza a sbattere il muso.
Ecco perché in qualsiasi organizzazione, struttura, comunità, è necessario il dissenso, la critica, la voce che grida che "il re è nudo" , pure quando è vestito.
Per ogni peso occorre un contrappeso, per ogni vetta la visione di un abisso: il bene non ha infatti nemico più subdolo dell'assenza di equilibrio.
Se vedete difetti quando vi guardate allo specchio, non fatene dunque un dramma e tirate piuttosto un sospiro di sollievo: di difetti ne abbiamo tutti, chi più, chi meno, e ad essi occorre essere grati poiché ci spingono a migliorare, mettendoci al riparo dall’esaltazione facile, dal consenso unanime e dalla superbia, la seducente tentazione del crederci superiori all’altro.

P.S. E se avete figli e non sono Shirley Temple, sorridete: avranno minori possibilità di montarsi la testa e andare a sbatterla contro il muro, appena la vita presenterà il conto.

giovedì 21 ottobre 2021

Compleanno (A distanza)

Che tu possa esaudire tutti i tuoi desideri tranne uno, perché nella vita bisogna sempre desiderare qualcosa.

(Star Trek)


Compi gli anni oggi, non puoi rispondere e così ti scrivo, ricordando la persona bella che sei, la stima che ho di te, per ciò che senza molte parole, ma nei fatti, in tutti questi anni, da che ti conosco, mi hai insegnato. 
La dedizione e la cura, innanzi tutto. Nel fare il tuo lavoro, nell'essere accanto alle persone che ami, pure quando non sono come le vorresti, come da fuori le immaginiamo.
La gratitudine, per chi ti ha offerto aiuto, per chi ha molto più di te, in case, beni preziosi, denaro, ma manca del tesoro più grande: la vicinanza, l'amore delle persone care, un sostegno morale prima ancora che fisico.
L'umiltà, nel partire da zero, nel lasciare tutto e cominciare da capo, nella fatica fisica di occuparti di cose che altri tralasciano, perché piegare la schiena, respirare polvere, usare olio di gomito costa sudore, sacrificio.
Porti un nome inusuale e insieme bellissimo, in cui non so mai dove poggiare l'accento, e il tuo compleanno è sotto il segno della bilancia, forse perché questo è un mese in bilico su tutto, estate e inverno, caldo e freddo, luce e buio.
Riconosco quel punto di equilibrio pure in te, nella tua calma - anche se è una calma soltanto apparente - e nel modo in cui raramente permetti agli altri di avvicinarti, tenendoli a distanza già con lo sguardo, con quell'espressione arcigna del viso che solo chi ti conosce a fondo sa come può sciogliersi, tramutarsi da ombra in sorriso.
Auguri allora e perdonami, se mi faccio vivo così di raro, anche se in realtà vale tra noi ciò che ha scritto Richard Bach, in Nessun luogo è lontano: "Non posso venire da te, perché già ti sono accanto".

mercoledì 20 ottobre 2021

Radici (e germogli)

Due cose durevoli possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali.
(Proverbio cinese)

Le radici questo hanno di straordinario: se seppellite, germogliano.
Non si può nascondere ciò che ci ha generato e - nel bene e nel male, per allinearci o per distinguerci - non possiamo dimenticare ciò di cui siamo frutto.
Non è una condanna, né una sentenza a titolo definitivo, bensì un'indicazione, un orientamento: la consapevolezza che facciamo parte di una linea temporale e di culture diverse, che si incrociano, da una parte orgogliosi del buono che portiamo in dote, dall'altra aperti alle differenze e alla varietà di chi ci troviamo accanto.
"Seppellire le proprie radici" l'ho sentito dire da una signora garbata ed elegante, con una erre che ne tradisce la nazionalità francese e un cognome che certifica l'origine bergamasca: Fracassetti.
Yvonne Fracassetti, autrice del libro "Partire", il racconto di una storia interrotta, quella della sua famiglia, dei suoi genitori, emigrati nel dopo guerra da Sedrina, all'imbocco della Val Brembana, innestati con un taglio netto a migliaia di chilometri di distanza.
Yvonne racconta che della loro provenienza non parlavano mai, così come era bandita la lingua italiana, perché "Si parla la lingua del paese che ci dà da mangiare", punto e basta.
"I miei genitori hanno deciso di seppellire le loro radici" rivela Yvonne, senza espressione emotiva, come un puro rilievo fattuale, qualcosa che è capitato, come accade che sorga il sole o che nevichi o piova.
Le radici però germogliano sempre, quando sono seppellite ancora di più, e lo sostengo per esperienza diretta, conoscendo la mia d'una storia e quella dei parenti americani, ritrovati una ventina d'anni fa, dopo un secolo d'apnea.
Quanti sono da generazioni in un luogo affievoliscono il loro senso di appartenenza, dando per scontato, naturale, il luogo che abitano; coloro che sono dovuti emigrare, invece, forse per evitare una sofferenza troppo forte, spesso recidono di netto i legami con le loro origini e per il loro nuovo paese hanno un attaccamento, una gratitudine che deborda in devozione vera e propria; la terza generazione, quella dei figli, sente casa completamente propria quella in cui sono stati partoriti, ma avvertono una tensione, un innato desiderio di conoscenza per la terra di cui portano i geni e il cognome.
Uno schema non matematico, ma frequente.
"Abbiamo radici plurime e ne siamo molto fieri" conclude Yvonne, con una frase che potrebbe essere manifesto per questa nostra epoca, fatta -come le altre - di migrazioni, di partenze ed arrivi, addii e ritorni, salti nel buio e atterraggi morbidi o di fortuna.

P.S. Le sue "radici" Yvonne le ha raccontate in un libro, per le mie sono bastate poco più delle solite venti righe, scritte una dozzina d'anni fa, in saluto di una persona a cui sono grato per sempre e non dimenticherò mai. Grazie ancora George.

martedì 19 ottobre 2021

Povero Bito (Tra parentesi)

“Credo che le parentesi siano di gran lunga le parti più importanti di una lettera che non sia d'affari.”
(David Herbert Lawrence)

Mi sono incuriosito e ho fatto il conto: sono tre anni e mezzo che in questo blog compare una parentesi, ad integrazione o in aggiunta di un titolo.
Anche prima capitava, in modo saltuario, mentre è diventata regola aurea senza volerlo da metà aprile del 2018, un sabato, con un post in cui si intendevano i social network come bar, con le categorie di frequentatori che uno si sceglie oppure accetta, se decide di tirare dritto e di esporsi pubblicamente per lavoro.
Un argomento d'attualità pure adesso, specialmente per me, che commenti e pareri vado a leggere spesso, rispondendo sempre, quando mi riguardano.
Sono fortunato. Ho un pubblico esiguo, almeno qui, e su Instagram o Facebook. Faccio presto a rispondere e in genere nessuno mi mette in imbarazzo. Anzi, più sono netti, decisi, polemici, più volentieri replico.
Probabilmente diverso sarebbe se avessi un seguito ampio e se trattassi argomenti che di per sé infiammano, quali la politica, il calcio.
Ieri l'altro, ad esempio, sono incappato nel profilo Instagram di un giornalista che stimo ed è mio conterraneo, pur se di persona non lo conosco, Fabrizio Biasin.
Ad un suo post, per altro non uno dei più caustici, seguivano una serie di contumelie, ingiurie, offese, male parole e volgarità che forse soltanto Cruciani non avrebbe alzato un sopracciglio.
"Povero Biasin" ho pensato. Davvero occorre una buona dose di autostima e di cinismo, per ignorare tanto fango che adorna il proprio giardino. Poi però ho riflettuto su una delle magnifiche leggi di questo universo, quella secondo cui dai diamanti non cresce nulla (se non il proprio conto in banca e -voi direte - non è poco) mentre dal letame nascono i fior. 
Un ammirato mazzo di rose in omaggio a chi l'ha capito e ha trasformato quel bar in passione e affari, senza scandalizzarsi se a frequentarlo è un variegato pubblico, metà armata brancaleone e metà mucchio selvaggio.

P.S. Da tre anni e mezzo nei miei post i titoli comprendono una parentesi e nel testo c'è un post scriptum, come questo, in cui ho l’obbligo di citare mio cugino, che è tifosissimo dell’Inter, come Biasin, e si chiama anch’egli Fabrizio, pur se noi in famiglia lo chiamiamo “Bito”, il nomignolo che aveva quando era piccolo, a cui mia madre aggiunge sempre, chissà perché, un “Povero”, scuotendo lievemente il capo ogni volta che lo nomina, sospirando: “Povero Bito”.
Anzi, in dialetto comasco, “Poor Bito”.
E lo ripete altresì se la circostanza non lo vede povero affatto.
Tipo: “Hai saputo? Il Bito ha comprato la macchina. Poor Bito…”.
Oppure: “È partito ieri per le vacanze, poor Bito…”.
Se dunque domani mio cugino dovesse vincere al Superenalotto, sapete già quale sarebbe di mia madre il commento.
Poiché nulla è più forte del sentimento, dell’affetto bonario con cui una donna guarda al proprio cucciolo, anche se nel frattempo è diventato uomo e ha un’età che potrebbe già diventare a sua volta nonno.

lunedì 18 ottobre 2021

Cuor di carciofo (Scrittura dolce)

"Le persone violente nei libri, di solito sono molto tranquille nella vita privata perché la scrittura è liberatoria. Non bisogna fidarsi di chi appare dolce nella scrittura"
(Michel Houellebecq)

Ho scritto molto ieri, sarò sintetico oggi. Prendendo a pretesto un articolo letto di buon ora, sul Corriere della Sera, che rende conto dell'incontro di ieri al Salone del Libro di Torino, con Michel Houellebecq intervistato a Marco Missiroli.
La frase che mi ha colpito è qui sopra, letta al contrario e guardando a me stesso. Cioè: se io appaio "dolce" dal modo in cui scrivo, non bisogna fidarsi di me?
Può darsi. Anzi, è certo.
La scrittura infatti, oltre ad essere liberatoria, è filtro. 
Qui, ad esempio, in questo blog, di me appare il lato migliore, quello più pacato, riflessivo.
Non che non sia io, tuttavia nella vita reale sono "questo", insieme a molto altro, compresi i numerosi difetti che - per fortuna - mi caratterizzano, cioè formano il mio carattere, completo, quello che somiglia a un carciofo: il cuore si svela soltanto se si tolgono gli strati esterni, le foglie, le brattee.

P.S. Che poi a me il carciofo piace poco o nulla. E se me lo ritrovo nel piatto quando sono ospite, faccio buon viso a cattiva sorte e lo mangio, mentre se la casa è la mia vado su tutte le furie e, per quella che in fondo è una sciocchezza, faccio il diavolo a quattro, m'indigno, a volte persino sbraito o metto il muso.
Ha ragione Houellebecq: non bisogna fidarsi di chi appare dolce nella scrittura.

P.P.S. Che bello è il fiore del carciofo? Grazie a Lyonora e alla sua foto, per avermelo svelato.

domenica 17 ottobre 2021

I belli e la bestia (Fratello Cinghiale)

Puoi conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta gli animali.
(Immanuel Kant)

Simili e opposti, uguali e contrari.
Il rapporto che gli esseri umani hanno con gli animali è antico quanto il mondo, a partire dalla constatazione elementare che pure noi lo siamo, pur se ci fa spesso comodo dimenticarlo.
Non potendo analizzare in venti righe gli ultimi quattro e rotti miliardi di anni - e neppure i cinquecentotrenta milioni nei quali compaiono i vertebrati - mi limito al recente principio del terzo millennio, con particolare riguardo alla scorsa settimana e ad eventi che mi hanno visto testimone diretto.
Il primo è legato a un acciacco di Larry, il setter irlandese che ci tiene compagnia da sei anni e che da qualche giorno guaisce talvolta di dolore per un apparente dolore alla zampa posteriore destra.
Tralascio la trafila medico veterinaria, degna di un episodio di Grey's Anatomy o di The Good Doctor, con tanto di anamnesi, lastre, tac, antidolorifici, cortisone e farmacia cantando, con cure e premure che soltanto una ventina di anni fa neppure immaginavamo.
Una solerzia d'azione e una partecipazione emotiva circoscritta però all'animale domestico, poiché basta avere setole ispide, pelo irsuto e corpo tarchiato per ricevere ben altro tipo di considerazione e trattamento.
Da qualche tempo infatti - non svernando da queste parti la tigre, il leone, il crotalo o il varano di Komodo, né potendocela prendere con il sempre più emarginato lupo, a cui per secoli abbiamo affibbiato nelle fiabe e negli incubi il ruolo del cattivo - tiene banco il "terrore da cinghiale", con una narrazione che ne descrive le gesta non per ciò che è, ovvero un generalmente pacifico suino, bensì come la maggior parte di noi finisce per immaginarlo.
Ecco così che si ripetono i racconti di cinghiali inseguitori, di cinghiali aggressori, di cinghiali in agguato a bella posta, pronti ad azzannare, ferire, uccidere attaccando alla gola, se il caso.
Una vera e propria campagna diffamatoria, della quale la storia - ne sono certo - ci chiederà conto.
Il problema è la cronaca.
Esiste infatti un amore sempre più diffuso per cani e gatti, le cui caratteristiche innate ricordano inconsciamente quelle dei cuccioli d'uomo, dei bimbi di tre anni, più o meno, con il vantaggio emotivo di restare tali, di non crescere e dunque di stimolare di continuo il potente impulso evolutivo ad accudirli, ad attivare nel cervello le aree legate all'attenzione e alla ricompensa.
Il cinghiale invece, che è grosso e grufola e puzza, anche se quasi sempre si fa gli affari suoi e al massimo - quello sì - devasta prati e campi coltivati, è relegato senza scampo a bestia, a bruto, a nemico persino.
Mentre i soli nemici lo siamo noi, a senso unico, suo malgrado.

P.S. Mai avrei scritto questo post, pur se sovente mi innervosisco allorché sento fesserie sul loro conto, se non fosse che anche mia madre, che in teoria avendo più di ottant'anni dovrebbe avere un briciolo di memoria e di senno, l'altra sera non mi avesse chiesto agitatissima: "Hai chiuso il cancello? E la porta della cucina? Perché ci sono in giro i cinghiali!".
Per lei e per tutti coloro che ne sono terrorizzati, ricordo che (a meno che sia avvenuta di recente una mutazione genetica: chissà, magari il vaccino anti Covid temuto dai No Vax s'è trasmesso a loro) il cinghiale, in novantanove casi su cento, appena sente la presenza dell'essere umano - e la sente quasi sempre grazie all'olfatto, finissimo, o all'udito, più che buono, mentre per vederci ci vede pochino - scappa a gambe levate.
E se anche non dovesse scappare, poiché vi trovate su quella che per lui è una "via di passo", vi basterà voltare le spalle e allontanarvi ed esso non si sognerà neppure di seguirvi.
E se invece si tratta di un cinghiale femmina e ha dei cuccioli e voi avete un cane non al guinzaglio e il cane abbaia o lo attacca e la mamma cinghiale reagisce?
Beh, in quel caso, se vi rincorre e attacca a sua volta, non è "cattiva" lei, siete un poco sprovveduti voi e che siate sprovveduti voi e non è un problema suo.

sabato 16 ottobre 2021

Crescere (Senza rimpianti)

“Tenersi in punta di piedi non è crescere.”
(Lao Tse)

La paura di perdere i genitori, di restare orfano, mi ha preso una serata di primavera o forse autunno.
Era domenica, questo è certo.
Avrò avuto sedici anni, un tempo in cui non esistevano i cellulari eppure ce la cavavamo lo stesso, in un modo che ora pare impossibile o arduo, ma che allora era abituale e normalissimo, affidandoci in estrema urgenza al telefono di casa o quello a gettoni, nelle cabine della Sip, che era la nonna della Tim,  la mamma della Telecom.
I miei sarebbero dovuti tornare dalla Valtellina verso le sei, massimo le sette di sera, come al solito.
Alle otto neanche l'ombra. Alle nove, neppure.
Ricordo i dettagli in modo vago, mentre ho memoria precisa del crescendo vorticoso con cui i pensieri negativi  arrivarono ad ebollizione, quel tarlo dapprima lieve poi cocciuto e ossessivo, che spazzò via possibili spiegazioni e rassicurazioni che cercavo di darmi, sempre più disperato, singhiozzando, a un certo punto piangendo.
Telefonai persino alla Polizia stradale, dimostrando un'audacia che di me non conoscevo, per sapere se c'erano stati incidenti. Fui rassicurato dall'operatore, ma non a sufficienza e continuai ad arrovellarmi, finché a buio inoltrato, saranno state le dieci o le undici, vidi in fondo alla strada di casa i fanali accesi dell'auto e finalmente mia madre e poi mio padre scendere, sorridere, dicendomi che c'era stato un inconveniente e che si erano fermati a mangiare, ma nulla di grave, di brutto.
Il sollievo risultò di gran lunga più intenso del disappunto e mi resi consapevole quasi subito che era stata una sorta di passaggio, una prova che avrei volentieri evitato, ma che affrontare e superare era d'obbligo.

P.S. Ho avuto preoccupazioni prima di quel giorno e altre - assai più fondate - dopo, tuttavia ho sempre considerato quella sera lo spartiacque tra i timori irrazionali, giganteschi, di quando ero bambino e il terrore fondato, autentico, glaciale degli adulti, quello in cui si prendono meglio le misure e si distinguono le ombre proiettate sul fondo della caverna dalla dimensione reale di ciò che le proietta, bello che sia o brutto. Credo che anche questo sia "diventare grandi" ed è il motivo per cui ho nostalgia del bimbo che ero, senza rimpiangerlo.

venerdì 15 ottobre 2021

Sì, è vero che… (Ma quanta bellezza)

“Pensa a tutta la bellezza ancora rimasta attorno a te e sii felice.”
(Anna Frank)

Sì, è vero che siamo ancora nella coda della pandemia, che le preoccupazioni persistono, che l'incertezza è tuttora sovrana… Ma quanta bellezza abbiamo attorno, in questo scorcio d'ottobre, in queste mattine pungenti e limpide, in questi giorni di sole basso, che scalda la pelle, il cuore, le ossa, fino al midollo.
Sì, è vero che sembriamo divisi su tutto… Ma a ben guardare è una minoranza risicata che si accapiglia per poco, strilla per nulla, mentre altre, moltissime altre si sanno ascoltare e riescono ad avere idee diverse, senza essere offensive, evitando la clava e la scimitarra.
Sì, è vero che ci sono le giornate no e anche quelle boh e quelle forse e quelle non so… Ma pure quelle sì e quelle sì sì e quelle alla grande e quelle in cui tutto profuma di scorza di limone e torta di mela.
Sì, è vero che riusciamo a frequentare poco gli amici… Ma quel poco ce lo godiamo appieno e tutti gli altri possono perdonarci, chiudere un occhio, tenderci ugualmente una mano, perché questo in fin dei conti è l'amicizia: dare più di quanto si riceve.
Sì, è vero che stiamo troppo sui social, che la realtà virtuale è un'attrazione pericolosa, uno sterminato bar in cui sovente ci sentiamo a disagio, come se fossimo stati catapultati lì da Plutone, senza responsabilità alcuna… Ma con il trascorrere degli anni quel bar stiamo imparando a riordinarlo, a costruircelo su misura, a mettere i buttafuori all'ingresso oppure a non presentarci noi, quando non siamo a nostro agio con il resto della compagnia.
Sì, è vero che a tavola non si dovrebbe parlare di calcio e di sport, politica, sesso, religione, soldi, pettegolezzo… Ma che esistenza sciapa sarebbe la nostra, se per timore del confronto ci appiattissimo sulle frasi fatte, sulle posizioni preventive, sui pensieri preconcetti, senza dare spazio al talento, al carisma, alla contrapposizione alta, quella che incalzando ci migliora.
Sì, è vero che abbiamo ciascuno le nostre ombre, i vuoti, i problemi, le ferite, i graffi… Ma sono proprio quelle esperienze che danno spessore alla vita, che ne rimarcano i bordi, che impediscono che si appiattisca, che si atrofizzi, che muoia di indigestione, di abbondanza, di noia.
Sì, è vero che il futuro incerto rende irrequieti e persino spaventa… Ma io ricordo sempre la frase di un grand'uomo, diventato pure santo, la prima volta che s'è affacciato al balcone, di fronte a migliaia di persone con il naso all'insù, esclamando: "Non abbiate paura".

P.S. Sì, è vero che andare a correre costa fatica, specie se per farlo occorre sacrificare la pausa pranzo e la prima mezz'ora è tutta in salita… Ma poi, superata porta San Giacomo, se si volta a valle lo sguardo, ciò che si ammira lascia senza fiato. E non per la corsa.

giovedì 14 ottobre 2021

Chi l'ha dura (Perseverare)

“Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza.”
(Steve Jobs)

"Volli, volli, ostinatamente volli".
Tu chiamala, se vuoi, cocciutaggine.
Dicono - da Darwin in poi - che alla fine non ce la fa il più forte, bensì chi meglio si adatta.
Io non trascurerei la resistenza. 
Quanti colleghi migliori di me, quanti compagni di scuola dimostravano più talento o carisma, quanti si sono fermati, sul ciglio della strada, prima di arrivare alla meta, di realizzare il loro sogno o un proposito che avevano in testa.
Se dovessi lasciare un messaggio nella bottiglia per i miei figli, affinché trovino soddisfazione nel lavoro e più in generale nella vita, indicherei questi:
  • chiarezza di visione, per capire cosa voglio, qual è l'obiettivo, la meta
  • perseveranza, quell'ostinata volontà di continuare, di non arrendersi, di avanzare a dispetto delle difficoltà, delle delusioni, degli ostacoli incontrati lungo il cammino.
P.S. Dedicato a Nadia, che mi legge di notte e che quello che ha ottenuto, nella vita, lo ha afferrato sbucciandosi le nocche, con le dita, discostandosi dai modelli in cui volevano ingabbiarla e spiccando il volo, lanciandosi nel vuoto e poi prendendo quota. So che sta attraversando un momento lavorativamente non facile e che la stima altrui non basta, per cui dovrà attingere a tutte le riserve di energia. Di una cosa però sono certo: non perderà il sorriso, la freschezza, l'esuberanza. Perché fanno parte di lei. Sono la sua forza, la sua sostanza.

mercoledì 13 ottobre 2021

Amicizia (Camminare accanto)

Non camminare dietro me, potrei non condurti. Non camminarmi davanti, potrei non seguirti. Cammina soltanto accanto a me e sii mio amico.
(Albert Camus)

Chi sarei mai, chi sarei mai senza gli amici e le amiche che di volta in volta, nella vita, ho avuto accanto, senza lo specchio, il trampolino, la stella polare, il punto d'appoggio che sono stati e che sono.
La vastità del mare calmo e d'un cielo turchese non bastava, lo scorso fine settimana, per contenere la pace del cuore e la tranquillità, la gioia di due giorni insieme agli amici d'infanzia e alle compagne che ciascuno s'è scelto e da cui scelto è stato.
Sono fortunato ad averli in dono e a frequentarli tuttora, pur se dolce è il giogo e la corda che ci unisce in passato a volte è stata tanto lassa da permetterci il giro del mondo, senza mai spezzarsi né esser percepita come vincolo.

P.S. La convivialità della tavola ha pochi eguali, poiché unisce il gusto per le bevande e per il cibo, i profumi, gli aromi. Ammetto però che il mettersi in cammino, passeggiare uno accanto all'altro, è per le relazioni ancor meglio, poiché come le carte del mazzo, il procedere a piedi consente la formazioni di coppie spontanee o di un piccolo drappello, con la possibilità di chiacchierare prima con questo, poi con quello, coinvolgendo tutti, nessuno escluso.

martedì 12 ottobre 2021

Tutte le cose dritte (Discutiamone)

“Tutte le cose diritte mentono (...). Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”.
(Friedrich Nietzsche)

Ti arrabbi, quando a un incontro o a una riunione pochi intervengono, prendono la parola, accendono o continuano una discussione, un dibattito.
"Ma come sì fa?" mi ripeti sdegnata, quasi con un groppo in gola per il nervoso. "Ma come si fa a non dire nulla, a non avere un'opinione, a starsene tutto il tempo lì, in silenzio?".
Si fa. Si può. Accade e lo scandalizzarsene dà sfogo alla rabbia, senza rispondere al quesito.
Ragionare, costruirsi un'opinione, discutere, dibattere, non sono un elemento naturale, qual è l'appetito o il respiro; piuttosto costituiscono un'abilità, una pratica, una capacità, e come ogni capacità va formata, allenata.
Tu, figlia mia, abiti case in cui si è abituati a discorrere, su mille argomenti, anche ad accapigliarsi, alzando la voce, con passione, veemenza persino, tanto che anche i momenti conviviali, quali i pranzi o le cene allargate ad amici e parenti, sono occasioni create e ricercate proprio per questo scambio reciproco.
Non dappertutto è così. Molti sono assai meno coinvolti, meno interessati a scambiarsi pareri, a sostenere le proprie ragioni o a sottoporle al giudizio dell'altro. Non sono né meglio, né peggio: sono diversi e non basta accennare un tema, offrire uno spunto, come pigiare un bottone e partire di slancio oppure lanciare un legno affinché il cane lo rincorra svelto.
Sii comprensiva, dunque, e non farti cadere le braccia, senza però arrenderti.
Ragionare, costruirsi un'opinione, discutere, dibattere, sono infatti una capacità, ma rappresentano altresì una ricchezza e, per come la vediamo noi, un dono. Un dono che facciamo a noi stessi e alla società, alla comunità, a chi ci sta attorno, convinti - qui sì - che ci sia un meglio e un peggio. E il meglio è sempre il dibattito, il confronto, sapere che tutte le cose dritte (cioè, banalizzate) mentono e le verità sono sempre ricurve ovvero per essere riconosciute necessitano di una molteplicità di sguardo.

P.S. Questo post ha un fine doppio: cercare di capire le ragioni di un comportamento, ma anche dare risposta allo sgomento dei vicini di casa, quando ci sentono discutere animatamente, senza cogliere le parole esatte né l'argomento, pensando che ci stiamo accapigliando per chi sa quale litigio, mentre in realtà è un banale confronto su quanto deve cuocere la pasta al sugo o sul nanotalpa di Nietzsche e quale sia il suo muso.

lunedì 11 ottobre 2021

Come un aquilone (Per sempre accanto)

I figli sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno. Gli insegnerai a vivere, ma non vivranno la tua vita. Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto.
(Madre Teresa)

È vero, hai ragione: di notte, in questi tempi, spesso non dormo.
Mi sveglio di colpo, i pensieri inceppano il sonno, mi giro e rigiro finché alla fine mi arrendo, rinunciando al buio, alla speranza di riaddormentarmi subito, all'evitare di fare i conti con pensieri, tarli, preoccupazioni.
Una di esse, lo ammetto, riguarda te, il tuo futuro, la paura da un lato di metterti troppa pressione e dall'altro di non comunicarti quanto sia importante il tempo attuale per costruire qualcosa, per gettare le fondamenta di una felicità che raramente casca dall'alto, quasi sempre è invece fatta di responsabilità, di sacrificio, di impegno.
Sei stato bravo nell'affrontare il liceo, non dandomi eccessivi pensieri, facendo il tuo dovere senza che la scuola diventasse troppo.
Ora però è necessario crescere, fare un gradino in più, comprendere cosa cambia dopo le superiori e applicarcisi con tenacia, impegno.
Credo ti sia goduto una buona estate, che abbia staccato la mente e vissuto più possibile amicizie, passatempi, svago.
Non ti chiedo di rinunciarvi, però - da oggi in poi - di mettere in cima alle tue priorità l’università, lo studio.
Io so quanto può essere difficile, quanto a volte il futuro spaventi o ci si senta schiacciati, anche dall'incertezza, dal timore di non farcela. Ci sono passato.
Alla tua età non avevo punti di appoggio o strade segnate, vagavo spesso a vuoto e ho aspettato due o tre anni, dopo il liceo, prima di mettermi in asse e imboccare un percorso certo, mio.
Non ti chiedo di non ripetere i miei errori, men che meno di dover riuscire a tutti i costi.
Ti chiedo soltanto di provarci, di concentrarti su ciò che conta, di non farti scivolare tra le dita questo tempo senza tentare di metterlo a frutto.
Ti chiedo di provarci non per me, per le mie paure o le mie ansie forse eccessive, ma per te stesso, perché l’uomo che diventerai dipende dal ragazzo che sei, da quanto semini adesso.
Perdonami dunque queste parole invadenti, questo richiamo “all'ordine”, questo condividere una preoccupazione che ho e che non dipende esclusivamente da te, ma richiama le mie di paure, le incertezze, le fragilità della persona che sono.
Non voglio che ti senta schiacciato, semmai soltanto spronato, a fare meglio, a volare alto.
Sapendo che comunque ti voglio un bene infinito, che non c’entra nulla con ciò che fai o farai, ma riguarda ciò che sei e proprio per questo non mi deluderai mai, a prescindere da tutto.
Coraggio allora, non temere nulla, né i quiz, né i test, né gli esami, né il futuro.
Una strada la troverai, questo è certo.
Da oggi mi aspetto soltanto che ci provi, che ti metti in cammino, d’impegno, sapendo che con me non dovrai nascondere o temere nulla, poiché ti sarò sempre accanto.

P.S. A Giovanni. 10 settembre 2021

domenica 10 ottobre 2021

Lo spazio bianco (Contro il vuoto)

Ama i tuoi genitori, se sono giusti e retti: altrimenti sopportali.
(Publilio Siro)

Scrivo poco di te, che sei sempre più grande, maturo, un bel ragazzo che si affaccia al mondo, restando in bilico tra il giovane che sarai e il bimbo che eri e tuttora sei, per qualche aspetto.
Siamo fortunati ad averti con noi: lo credo veramente e per questo lo ripeto spesso, a te per primo.
Mi pare tu stia crescendo robusto, di spalle e di spirito, sereno soprattutto, con quel sorriso ch'è come un uovo che si schiude e mostra un pulcino, con quegli occhi socchiusi a fessura e dai quali esce una luce intesa, che rischiara attorno.
Ti piace giocare a basket, stai meno alla play station rispetto ad un tempo, guardi parecchie serie tv su Netflix ("Teen wolf", la tua preferita da mesi), stai scoprendo l'universo femminile e le relazioni di amicizia, sfruttando la coda di un'estate che per te è stata un parco giochi, un'esperienza unica di crescita e divertimento.
Mi spiace non esserci spesso per te, specialmente adesso, lavorando lontano.
Mi spiace davvero, ma confido che tu cresca forte lo stesso, imparando a contare sulle tue forze e appoggiandoti su più figure, poiché è così che si diventa grandi, che si cresce: in continua relazione gli uni gli altri.
L'unica preoccupazione che ho - lo ammetto - è lo spazio bianco che c'è in corrispondenza della casella di tuo padre, per quel cordone ombelicale troncato da anni di netto e che per una serie di ragioni indipendenti dalla nostra volontà non è tuttora ricollegato.
Vorrei seriamente che invece lo fosse, che tu potessi confrontarti con chi ti ha generato, vorrei che la realtà dei rapporti sostituisse l'incertezza, il timore, la curiosità, il vuoto.
So che avverrà, so che deve avvenire, so che debbo avere pazienza io per primo, per sperare che continui ad averla tu, trasformando la ferita in cicatrice e non infettando un giorno l'equilibrio che ti sei costruito.
So tutto questo, ma pure che meriti di conoscere le tue radici più profonde, qualsiasi esse siano, consapevole che non sei e non sarai mai solo, che ti saremo sempre accanto.

P.S. Sei tornato a casa con il labbro gonfio, per "un pugno" - hai detto - che ti ha dato tuo fratello più piccolo, con il quale c'è un rapporto complesso, com'è normale che sia, considerato ciò che avete vissuto e che si muove a entrambi dentro. Lo annoto qui, per un motivo semplice: forse capiterà anche a te, quando sarai adulto, di trovarti ad affrontare un'incomprensione, un litigio, un conflitto, e dovrai in un istante decidere cosa fare, come comportarti, quali conseguenze dare; allora potrai ricordarti e decidere se ripetere più o meno lo stesso mio atteggiamento oppure se fare l'opposto, valutando il mio errore come pietra di riferimento.
Da parte mia - affinché tu possa un giorno giudicare sapendo il dritto e il rovescio - ho cercato di non istituire un processo sommario, bensì di credere alla ricostruzione che hai fatto, di darti fiducia, tentando nel contempo di sdrammatizzare, di non dare troppo peso al tutto, sapendo che stabilire torti o ragioni è importante, ma sapere comprendere, eventualmente perdonare e ristabilire velocemente i rapporti, le relazioni, lo è di più.

sabato 9 ottobre 2021

Un Angelo (Senza retorica)

Le ultime sue notizie le ho avute un lunedì, poco tempo fa, a risposta scritta di un saluto, dalle colline della Valpolicella, dove s’era ritirato.
“Grazie Giorgio, mi sei sempre nel cuore.
Ho passato un anno pesante, ho perso il mio fratellone chirurgo per Covid e mi hanno impianto due stent nella coronaria ma, ringraziando il Cielo, ho tanta voglia di vivere”.
Quella voglia, che già in passato lo aveva salvato - compresa quando raccontava di essere precipitato a bordo di un elicottero, sul monte Bianco - questa volta non è bastata.
Angelo Longoni è uscito di scena con la stessa discrezione con cui il venerdì sera salutava e poi lasciava la redazione: un’uscita di scena garbata, un momento c’era e un’istante dopo se n’era già andato.
Lavorare accanto a lui, come con tutti i colleghi di Monza, è stato per me un onore e un’esperienza umana senza prezzo.
Come coloro rimasti a galla a lungo, conosceva il tempo in cui dare battaglia e quando invece era opportuno ritirarsi, sorridendo pur se in bocca aveva l’amaro.
Appartenuto a una generazione in cui scrivere era ritenuto atto leggero, senza bisogno di eccessiva cautela o di doppia marca da bollo per certificare un aggettivo o un verbo, Angelo aveva una passione civica e un modo tutto suo di relazionarsi con il prossimo.
E quando colpiva lo faceva sempre di stiletto, senza proclami o fiato alle trombe, piuttosto infilzando e poi allontanandosi sorridendo, addirittura fischiettando, come se comparisse sulla scena del delitto per caso.
I rischi di querela maggiori, da direttore, li ho corsi con lui, ed è proprio per questo che mi stava simpatico: un giornale che non azzarda mai è un giornale forse sulla corta distanza più ricco, perché non paga risarcimenti, ma certo più grigio e povero, visto che alla lunga non lo compra più nessuno.
Tra i mille ricordi che lo riguardano, ne scelgo tre.
La serie di articoli che inanellò contro l’allora comando della Polizia Locale.
Le mattinate in piazza a chiacchierare con la gente, il giovedì, all’ombra del camper de “Il Cittadino”.
Il caffè - rigorosamente amaro, senza un grammo di zucchero (“Così cura anche il mal di testa!”) - al bar, mentre parlava della “sua” Juventus.
Buon viaggio allora, Angelo.
Se non detestassi la frasi mielose, aggiungerei che ora lo sei, oltre che di nome, anche di fatto.
Invece ti dovrai accontentare di un abbraccio e di un “grazie”, perché forse non mi hai detto sempre la verità, ma mi hai fatto sentire ogni volta accolto e non mi hai mai negato un sorriso.

P.S. L’amico Massimo mi suggerisce un quarto ricordo: il racconto di quando era stato in coma, a lungo, proprio in seguito all’incidente in elicottero, e si era risvegliato sentendo “un odore buonissimo di torta”.
Chissà se lo sentirà anche ora, dall’altra parte rispetto a dove ci si sveglia di solito.

venerdì 8 ottobre 2021

Cuore laico (Memoria e pregiudizio)

“Se non riesci a ricordare dove hai messo le chiavi, non pensare subito all'Alzheimer; inizia a preoccuparti invece se non riesci a ricordare a cosa servono le chiavi.”
(Rita Levi Montalcini)

A volte la parole mi sfuggono, spesso ripeto le identiche citazioni, gli stessi aneddoti, in più riconosco a fatica il volto dell'uomo che vedo allo specchio e che non coincide affatto con l'immagine che ho di me stesso, ferma a qualche anno addietro, come nelle vecchie foto delle carte d'identità che conservo nel cassetto.
La memoria è un meccanismo straordinario, tutt'altro che perfetto, interessante proprio per questo: somiglia più alle opere d'arte che agli scaffali polverosi dell'Archivio di Stato.
È un po' come se partissimo ogni giorno per un viaggio, convinti di portarci appresso tutto, mentre sono  pochi i panni che stanno nello zaino.
I social network rivelano in maniera implacabile quanto per strada smarriamo, poiché sono una sorta di diario indiretto per pigri - quei pigri come me, che un diario non riuscirebbero a tenerlo più di un giorno - e mantenendo memoria di tutto costringono all'evidenza di quanto profondo sia il cambiamento, a fronte di altri dettagli che non mutano mai, restano appiccicati addosso.
Anche rispetto ai social network tuttavia c'è una sorta di maturazione, un'evoluzione, una maggiore consapevolezza d'uso, resa evidente ogni volta che Facebook o Instagram segnalano: "Hai ricordi da rivivere oggi".
Io, quei ricordi, raramente vorrei riviverli, ma nove volte su dieci mi sorprendono, stupiscono, perfino imbarazzano.
Primo, poiché ci sono stati anni in cui praticamente sulla bacheca di Fb scrivevo ogni dettaglio, quasi quasi pure quando andavo in bagno (lo so, molti lo fanno ancora, credo sia un processo legato alla crescita, alla fase evolutiva appunto: accade quando si è "bambini" nei social network, poi si cresce anche lì).
Secondo, poiché scopro cose che avevo completamente dimenticato e che ora non rifarei, neppure con una pistola puntata alla rotula del ginocchio destro.

P.S. Se c'è un'abitudine che invece resta tale e quale, oggi come ieri, riguarda i "mi piace", i "like" o, ancor meglio i "cuoricini", per esprimere attenzione, interesse, apprezzamento altrui.
Ecco, in quelli io, ieri come oggi, piuttosto che lesinare abbondo, ho la generosità del prodigo, l'appetito dell'ingordo. Tanto che se dovessi descrivere in due parole la mia attività sui social network risponderei: "Metto like - in pratica, laico - e non me ne vergogno". Per il momento.

giovedì 7 ottobre 2021

Il corpo nudo (Cicatrici e dintorni)

“Quando sto davanti a te alla fine del giorno, tu dovresti vedere le mie cicatrici e sapere che io ho avuto le mie ferite e anche le mie guarigioni.”
(Rabindranath Tagore)

Dicono che la carne viva, dopo un contatto intenso con il fuoco, continui ad ardere, come brace, per giorni, a lungo.
Non so se sia vero, so però quanto brucia un conflitto non risolto, un vuoto improvviso, un amore spezzato, un'amicizia troncata, un litigio aspro, una delusione, un'incomprensione, un lutto.
Le ferite si rimarginano, le cicatrici restano: un'altra lezione che ho imparato sulla mia pelle, anche quando non era mia la pelle lacerata, semmai la mano che teneva l'impugnatura del coltello.
Passa. Tutto passa. Ripeterselo fa bene, così come ricordare che "più a fondo scava il dolore, più gioia si potrà contenere" - come mi scrisse David, un tempo indefinito addietro - ma né uno né l'altro leniscono il dolore nel momento in cui divampa e si propaga nel profondo.
Ciascuno di noi allora dovrebbe avere qualcuno che "alla fine del giorno" ci sta davanti, a cui poter mostrare le proprie cicatrici, che sappia le nostre ferite e guarigioni.
Ma più ancora noi, per primi, dovremmo essere per qualcun altro colui o colei che "sta davanti", che osserva, rimane attento, si mette in ascolto.
Aprirsi è importante. Lasciare aprire lo è altrettanto.
Come sempre: lo scrivo a tutti per ricordarlo a me stesso. Alla persona affaccendata, distratta, pigra, gretta, indolente che troppo spesso sono. Se dovessi confessare un cruccio, infatti, metterei ai primi posti la sensazione di "non esserci abbastanza", di farmi sfuggire momenti essenziali o relazioni che meriterebbero di essere coltivate e invece sfuggono, scivolano via, come la farina di granturco tra le dita quando non si stringe il pugno.
"Se ci tengono, si faranno vivi loro" mi ripeto, ma è una scusa banale, il velo lieve e vano che tenta di coprire un corpo nudo.

P.S. Non erano storie tristi quelle che in passato ho raccontato, non lo è neppure questa.
Ciò che lascia l'impronta d'un sorriso infatti è la certezza di essere compreso e, nel caso, perdonato, dalla stragrande maggior parte di amici e parenti e conoscenti a cui non do quanto potrei, quanto meriterebbero.
Una consapevolezza, quella della bontà altrui, che è sprone principale affinché ad essere magnanimo, comprensivo con gli altri sia io. Un circolo virtuoso in cui il torto fa da olio carburante e non da freno.

mercoledì 6 ottobre 2021

Se questa è una donna (Parole nuove)

"Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole...". 
(Primo Levi)

Parole vecchie, parole nuove, parole che aprono una via e altre che chiudono un cerchio, parole che limitano, parole che ampliano, parole come strumento, parole che raccontano, che influenzano, parole che cambiano il comportamento.
Prendo a prestito una tesi e una frase.
La frase è quella qui sopra, di Levi, in corsivo.
La tesi è quella di mia figlia, che consegnerà a novembre e che sta ancora elaborando, il cui primo capitolo tratta proprio "il linguaggio che riflette ma anche influenza la società" (Alessandro Zucchi).
Metto nella centrifuga il tutto, confidando di cavarne un succo accettabile, abbinando un'ultima citazione, tratta dalla cronaca delle pagine di spettacolo di un quotidiano, del maggio scorso: “A Cannes è arrivata Jodie Foster con la moglie Alexandra Hedison”.
La moglie. Chi decide che Alexandra Hedison di Jodie Foster è la moglie e non il marito? E se anche lo fosse, se si ritenesse tale, qual è l'essenza che la determina, perché l'una e non l'altra e viceversa?
Possiamo affrontare l'argomento oppure scansarlo, ciò non impedirà alla realtà di andare avanti, di evolvere, trascinandosi dietro il linguaggio, oppure trovare parole calzanti o nuove e - come teorizza Zucchi - far sì che il linguaggio condizioni la società, non limitandosi a rappresentarla.
Di certo, per quanto possa urtare (e urta me, per primo, lo ammetto, che oltre ad appartenere pienamente al mio tempo ho per la significato corretto delle parole particolare attenzione e riguardo, tanto che ancor oggi non riesco proprio a dire "la sindachessa" o "la ministra") il cambiamento è irreversibile, assicurato, poiché s'inserisce nel solco di un processo che dura secoli, a volte lento, a volte svelto, orientato sempre più all'addomesticamento, a una civiltà inclusiva, tollerante, mite, gregaria, in cui tenersi per mano prevale sul darsi uno schiaffo.


P.S. Che poi la tesi di mia figlia e la frase di Primo Levi si intrecciano. La frase completa della citazione di Levi è infatti: "Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo". Levi - figlio del suo tempo e pure del nostro, di quello in cui sono cresciuto - utilizza la parola "uomo", escludendo la donna, anche se sono certo volesse includerla, poiché l'uomo che cita non è il maschio, bensì l'essere umano, di qualsiasi genere.
Ciò che concediamo dunque alla poesia e anche alla prosa, dovremmo restituire nel linguaggio comune, nel saggio: le parole sono per natura mutevoli, ma innanzi tutto un "simbolo", qualcosa che letteralmente unisce. Spetta a noi coniarne di nuove, di giuste, e non utilizzarle per dividerci, su tutto.

martedì 5 ottobre 2021

La mossa del pedone (Cambiare, se stessi)

“Il compito più difficile nella vita è quello di cambiare se stessi.”
(Nelson Mandela)

L'unico indice puntato che funziona è quello allo specchio.
Il cambiamento passa sempre da se stessi, perché noi stessi siamo le sole persone su cui possiamo confidare, incidendo a fondo.
Accettarlo non è semplice - specie nelle molte occasioni nelle quali ci sentiamo seduti dalla parte della ragione, sistemando gli altri sullo sgabello del torto - eppure è un modo sicuro per il cambiamento, vero.
Badare al proprio, senza giudicare o attendere le mosse dell'altro, evitando di crearsi delle scuse, è anche il cuore di un video che anni fa mi aveva illuminato e che ricordo spesso. È quello di Velasco, allenatore di pallavolo e motivatore a tempo guadagnato, in cui racconta: "L’attaccante schiaccia fuori perché la palla non era alzata bene, e si lamenta con l’alzatore perché l’alzata non era perfetta. A quel punto l’alzatore si gira verso il ricevitore, lamentandosi che la ricezione non era perfetta: "Se tu che sei il ricevitore non ricevi bene, io che sono il palleggiatore non riesco a fare l’alzata perfetta e poi l’attaccante schiaccia fuori". A quel punto il ricevitore si gira, cercando qualcuno a cui dare la colpa… Ma lui riceve la battuta dalla squadra avversaria, per cui non può dire all'avversario di battere facile così da ricevere bene e lì finisce la catena…".
Per Velasco la soluzione è semplice: "Gli schiacciatori non parlano dell’alzata, la risolvono!". E per risolverla non hanno che un modo: disporsi al meglio, cambiare la propria postura o l'ampiezza del salto, l'inclinazione del braccio, la rigidità della mano, per fare in modo che si ottenga il meglio.
Cambiare se stessi, non sperare nel cambiamento altrui o attorno: un'indicazione semplice, attuabile subito, per cui non dobbiamo attendere la ricetta del medico né alcuna autorizzazione ministeriale.

P.S. “Cambiare” è come “convertirsi”: un verbo che pretende la forma riflessiva, prima persona singolare.
Io, in cosa sono disposto a cambiare?
Per quanto mi riguarda, dovrei avere più disciplina, ad esempio.
Essere più coraggioso, audace, intraprendente anche.
E meno supponente, permaloso, più umile.
Di quella umiltà che consiste nel mostrare il proprio lato debole, senza vergognarsi, nel caso tendendo la mano, per chiedere (un consiglio, un aiuto, un’opportunità, un’occasione…).

lunedì 4 ottobre 2021

Una mente educata (Resistere al pregiudizio)

"Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal proprio senza avere bisogno di accettarlo" (Aristotele)

Le ragioni degli altri. Sono quelle che più mi intrigano, che ricerco con curiosità e ostinazione.
Un atto di volontà, spesso pure in contromano, in un tempo qual è il nostro, assai frammentato, in cui chi alza il dito per obiettare viene immediatamente etichettato e, forse per una forma di protezione, tendiamo a chiuderci nelle bolle di conforto di quanti la pensano allo stesso modo.
Aristotele invita alla resistenza, ricordando che "comprendere" e "accettare" sono azioni distinte, senza obbligo alcuno di unirsi in matrimonio.
Educare la mente allora è azione buona e giusta, nostro dovere, oltre che fonte di salvaguardia.
Perciò insisto affinché ovunque - in famiglia come tra amici o nei circoli, nelle amministrazioni, sui luoghi di lavoro, in chiesa, al bar, nelle piazze... - venga coltivato il dialogo, il dibattito, ci si confronti di più, si alimenti il desiderio di spiegarsi, comprendersi.

P.S. Mi piacerebbe dedicare a questa opportunità di scambio un luogo, magari lo stesso che ho ricevuto in eredità da mio padre e di cui in questo blog ho già scritto.
Sarebbe un bel lascito, oltre che un modo concreto di contribuire a ciò che ritengo buono, giusto, anche se più di un posto fisico, ciò che serve è un'attitudine, un atteggiamento.


domenica 3 ottobre 2021

Quando cala l'oscurità (La luce dentro)


Le persone sono come le vetrate.
Scintillano e brillano quando c’è il sole, ma quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce dentro.
(Elisabeth Kubler-Ross)

Quando cala l'oscurità. Cala sempre, prima o dopo. È per noi l'immutabile alternanza della notte e del giorno: può durare poco o tanto, ma ci sarà sempre un buio ad alternarsi al chiaro e di contro un'alba che sfida il tramonto.
Ecco perché la luce occorre averla dentro.
Intendo non la luce ch'è un dono, quella del carattere di chi ha cuor contento o che accompagna le persone serene di natura, poco inclini al tormento.
Piuttosto, la luce accesa dalla volontà, la capacità di vestire i panni dell'altro, di mettersi in ascolto, di scegliere ad ogni bivio il bene, il buono, il sorriso, il tendere costantemente la mano, vedere la parte del bicchiere mezzo pieno, riconoscere le proprie mancanze e le virtù di chi ci sta accanto o che osserviamo da lontano.
Le persone sono come le vetrate.
Non i vetri, limpidi, perfettamente trasparenti.
Le vetrate spesse e opache, colorate, quelle delle chiese o delle case in stile liberty e art nouveau, delle finestre o dei divisori, che illuminano e insieme coprono, quelle saldate con il piombo, pezzo per pezzo, come pezzo su pezzo siamo noi, non banalmente un uno.

P.S. Si fa in fretta a dire: sii contento. Ed è facile giudicare sommariamente da fuori, fare l'addizione delle fortune altrui, evitando di sottrarre ciò che non vediamo, quanto chi abbiamo di fronte tende a celare, a non mettere sul banco. C'è bellezza dentro ciascuno, insieme a fragilità, delicatezza. Per scorgervi la luce occorre attenzione, rispetto, non rompere a sassate il vetro, bensì accostarsi vicino, a volte mettendo le mani sulle tempie, eliminando l'abbaglio che c'è attorno e aguzzando la vista, mettendo meglio gli occhi a fuoco, confidando che ci sia anche ciò che d'acchito non notiamo. Vedere "la luce dentro" è un esercizio che riesce se, per farlo, ci alleniamo.

sabato 2 ottobre 2021

Lasciare un'impronta (Desiderio e cambiamento)

“Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto“
(Thomas Jefferson)

Parto al contrario, proponendo qualcosa che negli anni recenti ho sempre mantenuto: dedicando ottobre a questo spazio, rinnovando il proposito di un post al giorno.
Al tempo stesso, provo a cambiare spartito, inaugurando un modo nuovo, riportando sempre una frase che ho letto o ascoltato da qualche parte o sottolineato in un libro, e aggiungendovi sotto un pensiero.

P.S. La novità scompensa sempre, destabilizza, disorienta persino.
Ho avuto colleghi e amici che l'aborrivano, anch'io però la subisco, l'accetto, piuttosto che auspicarla, favorirla o cavalcarla appena compare all'orizzonte o mentre si fa spazio già al di qua dell'uscio.
A volte, quasi sempre, sono così pigro che piuttosto che fare qualcosa che non ho mai fatto, preferisco rinunciare a qualcosa che non ho mai avuto.
A contare allora non è la capacità di fare un salto, di cimentarsi, di sperimentare, bensì la molla che spinge a farlo, cioè l'aspirazione, l'ambizione e tutti quei sentimenti che si declinano con un desiderio.
In altre parole, il verbo che conta, nella frase di Jefferson, è il primo: vuoi, volere.
Se manca quello, il resto possiamo anche cancellarlo, considerarlo inutile, mai scritto.
Cosa voglio allora? Cosa desidero io, di ambizioso, in questo tempo?
La prima cosa che mi viene in mente è: un obiettivo, una missione, uno scopo. Vorrei lasciare un'impronta, utilizzare pienamente l'esperienza accumulata, mettere a frutto i talenti che ho ricevuto in dono, qualsiasi essi siano.
Se questo è l'auspicio, so anche cos'è che mi manca, cosa non ho mai a sufficienza avuto: disciplina, determinazione, spirito di sacrificio.
Buono a sapersi. Almeno come inizio.