venerdì 31 dicembre 2010

In arrivo sul binario (Quattrocento)


Se fosse un binario steso, mi piacerebbe passare palmo a palmo la mia vita, per scoprire gli snodi che hanno determinato il punto esatto dove mi trovo. Martedì scorso ho visto "A Christmas Carol", il canto di Natale di Dickens, riproposto per l'ennesima volta al cinema. La scena che più mi ha colpito è quando, ricapitolando il passato, Scrooge si trasforma dal bravo ragazzo che è in un uomo cinico e avaro. "La cosa avvenne da naturalmente" come direbbe Hugo, sassolino su sassolino trasformato in montagna e di cui ci si rende conto soltanto quando il danno è fatto e di coraggio per tornare indietro non se ne ha più. Essere indulgenti con se stessi, sapersi perdonare, tenere a bada l'orgoglio, dare un colpo di spugna al passato (qualunque esso sia) e ricominciare talvolta da capo mi pare buon antidoto alla discesa a picco, che spesso sembra ascesa soltanto per un difetto di vista, un vizio di prospettiva.

Se fosse un binario steso, mi divertirebbe contare le coincidenze dei treni che - spesso inconsapevolmente - ricamano il destino di un'esistenza. Prendiamo oggi: è l'ultimo giorno dell'anno e il post che sto scrivendo è esattamente il numero quattrocento (contare per credere, ma forse vi conviene fidarvi). Ieri, per caso, mi sono imbattuto in un pulsante che consente di sapere quanti visitano questo blog, quali sono gli argomenti ritenuti più interessanti, da dove provengono i lettori occasionali o fissi. Quando cominciai questa sorta di diario pubblico, mi ripromisi di non badare alle statistiche e a null'altro che non fosse il mio interesse personale, l'istinto. Ammetto però che non è facile, che sarei impostore se negassi che oltre al mio, cerco anche il gusto dell'altro, di un lettore immaginario eppure esistente in carne ed ossa che decide di passare di qui per scelta oppure per caso. Eccolo che ritorna, il caso. Giusto in tempo per chiuderla qui: quest'anno ho già dato, l'anno prossimo vedremo. Quattrocento post sono assai più del libro che non ho mai scritto: sono oltre tre anni di vita, tenuti per mano.


Foto by Leonora

giovedì 30 dicembre 2010

Il secondo libro di Piperno

Sto leggendo Persecuzione, il secondo libro di Piperno. Un romanzo tutto preliminari e niente orgasmo. Pipperno.

mercoledì 29 dicembre 2010

La seconda possibilità


Camminare in riva al mare. Più spesso, non solo d'estate, scalzo, la sabbia sotto i piedi, annusare il vento e il sale, sentire le onde che s'infrangono a riva, tenersi per mano, coi calzoni risvoltati fino alle ginocchia. Cuocere pane nel forno a legna e carne alla griglia, anche d'inverno, mangiarla attorno a un tavolo senza paura di sporcarsi le mani e bere vino rosso, mosso, e ridere, ricordare, piangere, chiacchierare. Piantare nell'orto basilico e sedano. Vestirsi meno, meglio. Avere poca fretta e correre di più, tenersi in esercizio, guadagnare fiato ed elasticità di tendini. Andare a teatro e al cinema e a cena, con regolarità, come a un rito. Viaggiare, all'estero, mangiare brioche senza crema, in piccole piazze, sotto i portici. Inseguire un sogno, almeno uno, uno solo, grande, arduo. Puntare in alto. Tenere la porta aperta aperta, essere generoso, con spontaneità, senza fare ogni volta di conto. Capire l'utilità della talpa, che mi devasta il giardino, e convincerla a spostarsi un poco più in là, nel prato libero, dove non dà fastidio a nessuno. Accarezzare il mio cane, l'unico ch'è rimasto, dopo che l'altro, cinico di specie animale (in greco) e di fatto, ha scelto d'essere adottato e viene a farci visita ogni tanto. Essere schietto. Attaccare bottone con chi è sconosciuto, prestare attenzione a chi già mi è amico, non dare nulla per scontato. Farmi passare le arrabbiature in un attimo, evitando di mettere il broncio. Seminare bulbi di tulipano, nelle bordure, all'entrata di casa. Prendere più sole, con la protezione, in terrazzo, mentre ascolto musica e penso e leggo.

Chiudo così una lista breve e infinita insieme. Alcuni buoni propositi che ho appuntato qui, pro memoria per i mesi che stanno arrivando e che attenderò sveglio, tra poche ore, con un pensiero fisso: immaginare che non sia quello nuovo, ma ancora l'anno vecchio, che torna, ricomincia, mi concede un'altra possibilità affinché viva meglio i miei giorni, un giusto tempo.

Foto by Leonora

martedì 28 dicembre 2010

L'Io pe(n)sante


Ci sono persone che assomigliano al sole: brillano, splendono, scaldano, ma se ti avvicini troppo rimani scottato. Sono astri, spesso geniali, ch'è meglio osservare da lontano e a cui non voglio assomigliare, pur se mi rendo conto che i miei principali difetti sono evidenti proprio alle persone che mi stanno vicine, a cominciare dai famigliari. L'aggettivo che più mi si addice è "pesante". A Natale, ad esempio, ho fatto una testa quadra ad Isabella, colpevole di aver fritto una specie di ravioli, appestando la casa d'un odore sgradevole. "Va bene, ho sbagliato, ma ti rendi conto che me lo hai ripetuto mille volte! Praticamente ogni volta che mi hai rivolto la parola, oggi!". Non esagerava. Poi l'ho messa sul ridere, non smettendo però di ripeterlo, facendo scuotere la testa e sorridere gli invitati al pranzo natalizio. Quando m'impunto su un aspetto, un concetto, so essere insistente quanto detestabile. C'è di buono che me ne rendo conto, per cui evito il peggio, prendendomi in giro per primo. Il paradosso è che quanto sono esigente con chi mi è vicino, tanto risulto tollerante e comprensivo con gli amici, con chi conosco meno o il cui vincolo di parentela va oltre il primo grado. Una sorta di doctor Jekyll e mister Hide del pianerottolo. Faccio outing per ricordare lo sbaglio a me stesso, più che per espiare colpe che invece si sommano ad altri difetti, che rinuncio a scrivere per dignità e amor proprio.
P.S. Ho ricevuto una lettera di Beatrice. Me l'ha spedita a novembre, l'ho letta soltanto ieri l'altro. Non so chi sia e quindi non posso risponderle in privato, ma volevo dirle che ho apprezzato la fiducia che ha posto in me, confidandomi un poco del suo mondo privato.
Foto by Leonora

domenica 26 dicembre 2010

L'occasione buona


Pur preparato bene (senza fretta) il Natale è passato, come quelli che lo hanno preceduto e come quelli che lo seguiranno. E' stato però un tempo di pienezza e mi mancherà meno dei momenti che invece non vivo consapevolmente, rendendomi conto di quanto sono importanti quand'ormai non ci sono più, finiti, passati, pietra posata su pietra. Ho imparato così a tollerare l'assenza, ad accettare il fatto che il passato non torna e che ciò che è dato una volta mai arriva una seconda. La casa in questa mattina di Santo Stefano è un campo di battaglia, dopo che ieri una mezza dozzina di bambini l'ha trasformata in reggia. Ora è l'immagine del tramonto della festa, con le luci dell'albero spente, le scatole ormai vuote dei giochi disseminate dappertutto, i palloncini colorati mezzi sgonfi e palline di polistirolo resistenti a qualsiasi passaggio di aspirapolvere o scopa. Solo il silenzio porta dignità a questa mattina grigia, con il cielo fuori ch'è tutto una nuvola (adesso che ci penso, non vedo il sole da una vita). Sono comunque fortunato, ho delle ferie da smaltire e starò a casa quasi una settimana. Mi concentro, cerco di mettere in pratica la teoria, pensando al ben di Dio che potrò fare da domani in poi: alzarmi tardi, fare qualche giretto, leggere, stare in compagnia degli amici, la sera. Prima di archiviare del tutto questo Natale, volevo ringraziare le persone che hanno avuto per me un gesto, un saluto, un pensiero d'augurio. Vorrei dire che ha funzionato, che davvero è stata una bella giornata. Anche solo con un sms, un messaggio su Facebook, una telefonata, ho sentito persone che da mesi non vedevo o con le quali non sono in una confidenza tale da prendere e scriver loro o dire: "Piacere, sono Giorgio e anche se può sembrare strano di te mi importa". Natale invece è un'occasione buona ed anche per questo mi piace: invita a bussare alla porta senza preoccuparsi di avere qualcosa da dire, semplicemente per fare un augurio, per creare un contatto, per gettare un seme che a volte rimane tale, ma altre volte diventa fiore, sboccia.
Foto by Leonora

lunedì 20 dicembre 2010

Cinque giorni


Cinque giorni. Cinque giorni poi sarà Natale, lo stesso Natale di quand'ero piccolo e sul tavolo, la mattina, trovavo i regali portati da Gesù Bambino. Ritrovo quello stesso stupore negli occhi di Giorgia, che ha il candore nell'animo ed è affettuosissima, anche se Giovanni non scherza e neppure Giacomo, che resta un cuore tenero. Oggi hanno rotto l'enorme vaso colorato di ceramica, che per sedici anni ha fatto bella mostra di nelle case dov'è stato. Così stasera tutti a letto presto, senza tv, lasciando me qui, solo, con le luci dell'albero e i miei pensieri, tra i quali nego le domande sul futuro, su ciò che accadrà domani, preferendo vivere alla giornata, godendo di questa pace relativa ch'è l'assenza delle disgrazie che negli anni recenti ci hanno accompagnato. Però capita, alcune notti, di svegliarmi e di non riaddormentarmi subito, di rimanere a ruminare idee, finché il cervello è stanco e pur se insoddisfatto per le risposte che non ci sono, torna in letargo, attendendo un'altra scintilla, un altro tempo.

Un cruccio ulteriore è il lavoro, la preoccupazione di non fare abbastanze bene, di non mettere tutte le energie a frutto. A volte sono così confuso. Eppure, dopo due anni e mezzo al giornale, ho una dimestichezza con la "macchina" che non avrei mai immaginato e ancora passione, entusiasmo... E persone che stimo, a cui devo molto. Certe sere mi manca mio padre. Non tanto le sue parole, lo sguardo, quanto lo starmi a sentire, sapere d'esser ascoltato. Basta però con la tristezza, Natale è ciò che nasce, ciò che comincia, un giorno nuovo, guardare avanti e non indietro. Intanto è già un regalo accorgermi che mancano cinque giorni, far sì che non si presenti all'improvviso, senza che sia preparato, senza poterlo gustare appieno, al contrario di quand'ero bambino e bastava quel giorno e render lieto tutto un anno.


Foto by Leonora

sabato 18 dicembre 2010

La vita Felice (o Sulle spalle dei giganti - 2)


L'ho appena accompagnato alla macchina ed è stato uno stupendo regalo di Natale. Oggi è venuto a trovarci Felice, storico "rutamàtt" di Guanzate. "Rutamàtt" (rottamaio, per i diversamente lombardi) gli calza a pennello ma è riduttivo: ha tre tir, un capannone grande quanto due campi da calcio, gru, camion e mezzi vari con cui commercia rottami metallici.

Felice è un uomo mite, che ha cominciato a lavorare sodo quand'era ancora un ragazzino. L'ho conosciuto perché tra i suoi clienti c'erano anche Ambrogio e mio padre: loro si occupavano del dettaglio, lui dell'ingrosso, portando in ferriera il tutto. Quando d'estate salivo sui camion e entravamo nel suo magazzino, per scaricare i cassoni, si scambiava sempre qualche chiacchiera, in genere in tono di scherzo, ma anche seriosa. Ricordo che avrei voluto stare lì, ad ascoltare per ore, ma il lavoro veniva prima di tutto e rendeva asciutto il contorno. A gennaio Felice Luraschi avrà sessantacinque anni. Quando lo vidi per la prima volta ne aveva una trentina meno, ma aveva gli stessi occhi seri, poche parole, modi spicci e quella risata improvvisa da bimbo che scopre il dolce nascosto dietro e piatti, nella credenza. Oggi mi ha raccontato cose che non avevo mai saputo. Che era molto bravo a scuola, con memoria d'elefante e passione per lo studio. Dopo le medie, che negli anni Cinquanta erano già un lusso, voleva fare il liceo classico, ma il padre gli disse: "Non c'è qualcosa di più rapido?". Scelse l'istituto tecnico setificio, spegnendo senza una lacrima il sogno di diventare medico. Tre mesi dopo, la vita svoltò di nuovo. Suo zio, a quarantacinque anni, restò secco mentre caricava un camion. Infarto. Il padre di Felice rimase solo e non era cosa. Lui lo comprese da solo, andò a scuola ancora qualche giorno, poi restò a casa e disse: "Lì ho chiuso". Un professore andò a casa sua per dissuaderlo, per spiegargli che stava gettando al vento l'occasione del riscatto, lo prese perfino per il collo, scuotendolo. Non cambiò idea. "Sono stato contento così, Giorgio" dice ora guardandomi dritto negli occhi e aggiungendo: "C'era troppa miseria, bisognava dare una mano". Non s'è più fermato, neanche con il diabete che gli ha fatto passare anni in bilico tra questo e l'altro mondo. Ora può permettersi di lavorare di tanto in tanto, quando ne ha voglia. I tre figli e una figlia, insieme agli operai, mettono testa e braccia per lui, che ancora ha il pallino del gioco. Poco fa ha suonato al campanello, lasciando un pacco di Natale, con una bottiglia di spumante e un panettone. Non c'è anno in cui non ne abbia lasciata una simile per noi, sia quando mio padre si era ritirato dal lavoro, sia quando non c'è più stato. Per pudore e paura di disturbare la lasciava ad Ambrogio, mentre quest'anno l'ha fatto di persona e mi ha commosso. "Tuo padre aveva un bel carattere, era una persona di spirito" ha detto parlando a voce bassa, quando ormai era fuori casa e stava per aprire il cancello. "Sono stato contento di essere venuto a trovarlo qualche giorno prima che morisse. Io sapevo dell'infanzia di povertà, che non aveva avuto il papà, dei sacrifici che aveva fatto, eppure mi ha detto: "Felice, io sono stato fortunato, ho avuto quello che volevo, una famiglia, dei nipotini". Sapeva di essere alla fine, poteva lamentarsi della malattia, di doversene andare ancora così giovane e invece vedeva positivo. E' stata una lezione... E adesso basta, che quando lo dico mi viene una cosa, qui, allo stomaco". Una cosa allo stomaco è venuta anche a me, ma dalla contentezza di averlo veduto, perché è grazie alle persone come lui che ricordo che mio padre non è vissuto invano.

Foto by Leonora

giovedì 16 dicembre 2010

Nazione Traviata


Ieri sera sono stata al teatro Sociale di Como, dov'era in scena "La Traviata" di Verdi. Era il regalo di Isabella per il mio compleanno e anche la prima volta che assistevo dal vivo a un'opera lirica. Tralasciando le difficoltà iniziali da contadino in gita (sono stato almeno cento volte al Sociale, ma sempre per articoli o servizi, mai da spettatore, così sono andato avanti e indietro prima di trovare l'entrata del pubblico, mi sono perso nei corridoi, ingarbugliato con i vestiti, fatto ridere le "maschere": insomma, Toto e Peppino sbiadivano) è stato bellissimo. Mi sono emozionato a sentire quelle voci, ma mentre con le orecchie e una parte del cervello mi beavo, l'altra continuava a muovere quelle due rotelle che ci sono e m'è venuto in mente questo: possibile che in una nazione come l'Italia, la televisione pubblica non riservi almeno una serata alla settimana alla lirica? Perché non l'abbiamo mai fatto, perché abbiamo gettato al vento anni e anni in cui il patrimonio artistico e culturale poteva essere promosso e non trascurato. "Non l'avrebbe vista nessuno" è un'obiezione comprensibile ma non paghiamo il canone forse per questo, per non essere vincolati soltanto dall'audience, dalla dittatura del grande pubblico? Il teatro italiano, la lirica, sono un segno distintivo, un vanto. Per fortuna non sono tutte spine, c'è pure qualche rosa. Nonostante tutto, i teatri italiani non si spengono, lo Stato italiano, gli enti locali, le Regioni, trovano ancora le risorse per finanziare le compagnie, per dare fiato a ciò che altrimenti si estinguerebbe. Ma questo è un motivo in più per arrabbiarsi, perché con una mano il pubblico dà e con l'altra toglie, si pagano gli spettacoli ma poi non si mettono a disposizione di tutti, alla televisione ad esempio. Qualche trasmissione spot (su Rai Tre, se non ricordiamo male, il sabato sera, in terza serata) ma nulla di efficace, sistematico. Per fortuna, a differenza di Violetta, non è mai troppo tardi per una nuova vita.

Foto by Leonora

domenica 12 dicembre 2010

L'Angelo


Oggi, in redazione, il mio collega Mario è sbottato, accusandoci di un eccesso di retorica quando nei titoli mettiamo la parola "angeli". "Premiati gli angeli della Croce Rossa"... "Hanno ucciso un angelo"... Cose così. Io non ho detto nulla, ma un Angelo oggi l'ho incontrato davvero. Don Angelo, un prete che gestisce comunità per minori con l'associazione Agorà'97. Non ne avevo mai sentito parlare prima, me l'hanno presentato Paolo e Cristina e stamani, con Isabella, lo abbiamo conosciuto di persona. Ci ha ricevuto senza salamelecchi, andando subito al sodo, con quella praticità che quando studiavo alla Cattolica giudicavo con la puzza sotto il naso e poi, una volta picchiato il muso contro i problemi concreti, ho imparato ad apprezzare. L'associazione che dirige ha tre comunità e in una di queste, la casa di Gabri, ci siamo incontrati. Sono ospitati pochi bambini, con patologie molto gravi. In pratica, è una sorta di mini ospedale, travestito da dimora domestica, per accentuare un accoglienza che solo il contatto di tante brave persone riesce a dare. Gabri, ci ha raccontato Don Angelo, era un bimbo che fino a due anni e mezzo è stato ricoverato nel reparto di patologia neonatale, senza mai uscire, senza nessun contatto con il mondo. La sua sorte era segnata ma i genitori hanno tanto insistito, allestendo quella casa per lui. Gabri a Rodero è vissuto sei mesi, prima di spegnersi. "Almeno è stato accudito, ha guardato anche i cartoni animati alla televisione e non soltanto il monitor sanitario che aveva davanti al lettuccio. E' riuscito persino a vedere un cavallo, dal vivo!". E mentre lo diceva, Don Angelo, senza accorgersene, chiudeva e apriva le mani, come a fare "ciao", quasi certamente il gesto di Gabri, quando se l'è trovato innanzi quello splendido, gigantesco animale. Il resto della visita preferisco tacerlo. Lì ho toccato con mano tutto il dolore e insieme tutto l'amore del mondo.

Foto by Leonora

lunedì 6 dicembre 2010

Diverso da chi?


Cinque giorni a casa sono una manna nel deserto. Dovevamo andare a Venezia, dovevamo andare a Ravenna, dovevamo fare questo e quello. Nevica. Restiamo a casa, tutto il giorno. Per me il paradiso è questo, seppur in dosi omeopatiche, perché l'ozio è condizione ideale solo se guarnita dal "negozio", dal darsi da fare prima e dopo. Ci pensavo stamattina, nel dormiveglia. Lavorare è un ottimo modo per non pensare ad altro, per evitare di confrontarsi con problemi, dilemmi, persino angosce che vanno dal banale al profondo, dalle preoccupazioni pratiche (dove andare in vacanza, comprare o no una nuova auto, come tirare la fine del mese...) alle domande essenziali del perché il dolore, la sofferenza, la malattia, la morte, lo stare al mondo. Quesiti a cui non si sfugge se non appunto fuggendo. Un modo meno impegnativo per me è leggere, mettere la testa nei libri, sostituire all'universo reale uno immaginario, che tuttavia dura il tempo d'un mattino. Se poi l'argomento è interessante le stesse domande esistenziali tornano con prepotenza in scena, lasciandomi sospeso nel dubbio. Ma non è per questo che oggi scrivo. I telegiornali, in queste ore, danno notizia della ragazzina scomparsa a Brembate, in provincia di Bergamo. Sospettano un terribile omicidio e hanno fermato un marocchino. A Lamezia un giovane, sempre di origine marocchina, ha investito e ucciso sette ciclisti. Persino tra i miei contatti di Facebook le reazioni non si sono fatte attendere, tutte dello stesso tono: rimandiamo gli immigrati a casa loro. Non voglio aggiungere nulla, se non che - può piacere oppure no - casa loro è ormai la nostra. Punire chi sbaglia è giusto, perseguitare un'intera categoria solo perché proviene da un paese straniero è sbagliato. Lo era quando gli immigrati eravamo noi in Svizzera, in Germania, in Belgio, lo è allorché a immigrare sono gli altri nel paese nostro. A questo proposito sono orgoglioso del reportage realizzato da Dario Tognocchi e dal mio collega Stefano Ferrari, in via Milano alta, a Como. Un video che consiglio di vedere a tutti coloro che hanno a cuore la verità e il reale, contro ogni pregiudizio.

Foto by Leonora

sabato 4 dicembre 2010

Italia for preside


Oggi sono tornato al liceo, per accompagnare Giacomo all'Open day. Mi ha fatto un certo effetto tornare alla scuola ch'è stata la mia, anche se allora era una semplice sezione staccata del Giovio, mentre ora si chiama Terragni ed è autonomo al cento per cento. Sono stato incantato dalla preside, dal discorso che ha fatto, parlando con passione del proprio lavoro e con stima dei colleghi che l'affiancano. Mentre parlava pensavo non solo che l'Italia ha un futuro, ma anche che è un gran paese perchè nonostante il rumore dei numerosi alberi che cadono c'è una foresta immensa che cresce, un immenso polmone che dà a questa terra, alla nostra gente, respiro. Mi riferisco alla scuola statale, non perché sia contrario a quella privata. Anzi, penso che la competizione tra i due modelli sia ciò che consente a entrambi di migliorarsi. E' però alle statali che vanno tutti e tre i miei figli e non c'è giorno che non rimanga ammirato dalla qualità umana e didattica che viene offerta loro. Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Da quando avevo i calzoni corti io, le cose sono migliorate moltissimo, c'è un'attenzione, una cura, che anni fa non esisteva. Mi hanno fatto piacere, nei giorni scorsi, i commenti all'ultimo post. Lo riprendo per ribadire un concetto che, nella sintesi, è rimasto solo abbozzato. Non sono contrario alla protesta per principio. Guai al paese in cui si è abituati a chinare il capo. Semmai, credo che suonare sempre il tamburo sia un pessimo modo per sostenere le proprie ragioni, ottenendo come frutto indifferenza, invece di partecipazione, comprensione, condivisione. Ritorno sul punto che per me è il nocciolo: non ricordo una riforma o un tentativo di riforma che sia stata accolta senza strepiti e urla. Mi viene in mente la parodia che a Zelig un comico faceva di Emilio Fede: "Attentato!!!", gridava. Eppure non è possibile che sia sempre tutto gramo. La preside che elogiavo prima e che si chiama Erminia Colombo, a un certo punto ha detto: "Per quanto riguarda i licei, la riforma Gelmini ritengo sia stata migliorativa". Volevo abbracciarla. Anche se la penso in maniera diametralmente opposta rispetto al ministro, anche se sono certo esistano parecchie storture. Eppure in un tempo di tifo e casacche, in cui o stai di qua o stai di là, ammiro fino a commuovermi chi conserva autonomia di giudizio, ragionevolezza, buon senso. E sa suonare il proprio spartito variando strumento, affiancando alla gran cassa anche il fluato dolce, l'oboe, il clarinetto.

Foto by Leonora

mercoledì 1 dicembre 2010

La contestazione


Lavarsi la faccia e far cadere le gocce; non ripiegare l'asciugamani e lasciarlo appallottolato; mettere l'accappatoio uno sopra l'altro sull'attacapanni; far cadere le briciole dalla tavola; posare i gomiti e le braccia sul tavolo, mentre si mangia; non riporre tazze e tovagliette dopo colazione e merenda; disseminare e abbandonare le scarpe sulle scale e i vestiti per casa; non spegnere le luci; non chiudere la porta d'ingresso... Do un taglio alla lista, che se ci pensassi un minuto sarebbe assai più lunga. Ebbene sì, appartengo alla lista dei genitori rompiscatole, anche se non sono mai stato un precisetti e ricordo perfettamente gli sbuffi di quando ero un bambino io e venivo ripreso a mia volta. Dev'essere una ruota che gira, anche se spesso a girarmi non è la ruota. Appartengo a una generazione che non ha conosciuto contestazioni. Appena nato nel Sessantotto, troppo piccolo nel Settantasette, ho vissuto al liceo quella che delle turbolenze di quegli anni era ormai la coda, sovente sfociata in pantomima (ad una delle poche assemblee d'istituto, allo Scientifico, dopo tre ore di verbosi ragionamenti - pippe, sarebbe corretto definirle - stavo chiacchierando con i compagni quando la ragazza di quarta o quinta che parlava si bloccò, preso uno sgabello di legno e ferro e ce lo scagliò addosso, urlando e inveendo). Per il resto nulla. Oggi vedo vent'enni che protestano, fotografie di ragazzi nascosti da un cappuccio, in mezzo ai fumogeni, frasi di fuoco indirizzate a questo e quel ministro... Soprattutto un ministro, la Gelmini, che dà nome a una delle tante riforme della scuola (da che mondo e mondo, non ne ricordo una che non fosse contestata, che non abbia fatto stracciare vesti a studenti e professori, che sia venuta da destra o da sinistra: ho smesso da un pezzo di dare credito alla protesta, a qualsiasi protesta sulla scuola, proprio per questo). Mi sono sempre domandato cosa sarebbe successo se fossi stato io genitore di quei ragazzi ribelli del Sessantotto, come mi sarei comportato, cosa avrei detto loro, come avrei reagito. Mi domando tuttora se un Sessantotto, un Sessantotto vero, tornerà mai, se capiterà che i miei figli appartengano a quel tempo, se contesteranno me e il mondo che ai loro occhi rappresento, se metteranno in discussione tutto, anche in modo violento. Do un'altra occhiata all'asciugamani appallottollato, in bagno. Resterà a lungo umido, messo così. La linea che distingue la pedanteria dal buon senso è sottile. Comunque vada, è scritto nel destino: rimarrò fino in fondo un borghese piccolo piccolo.

P.S. L'ultima frase è un omaggio a Mario Monicelli, che a novantacinque anni l'ha fatta finita gettandosi dal quinto piano. Per me invece rimarrà sempre affacciato a quella finestra di casolare, nel film "Il ciclone", con i ragazzini che lo salutavano: "Ciao Marioooooo"...
Foto by Leonora

lunedì 29 novembre 2010

Il valore e il successo


Giacomo è stato bravissimo, ieri sera, allo spettacolo teatrale che ha preparato con gli altri ragazzi e ragazze di terza media. Io alla sua età ero molto più imbranato: ricordo la prima volta da adolescente in scena, nei panni (pochi panni) del bambino indiano Rajii Shankar. Ero teso e talmente rigido che al mio posto sarebbe stato più espressivo anche un menhir, uno sperone di pietra. Bravi anche i suoi compagni, si vede che al di là del nostro borbottare play station e televisione non tarpano capacità e creatività varia.

Poco fa leggevo sul Foglio del lunedì qualche breve biografia dei giornalisti che hanno firmato gli articoli in pagina. Ho smesso da un pezzo di considerarmi giovane ma ammetto che fa un certo effetto notare che esimi direttori e prestigiosi inviati hanno meno anni di quanto io ne abbia. Mi convinco che ognuno percorra la sua strada, misteriosi sono gli itinerari e ricordo di essere partito tardi, già convinto di dover puntare alla maratona, poiché i quattrocento metri erano già finiti da un pezzo e non ero neppure alla linea del via. Non ho l'ambizione della poltrona: ogni giorno ho la dimostrazione di quanto arduo sia prendere decisioni, più in alto si sale e peggio è e non sono più così ingenuo da non conoscere qual è l'altro lato della medaglia. Semmai temo di impiegare il tempo facendo altro rispetto a ciò per cui ho un talento. Poi ripenso a quando era un bambino, e recitavo da cani, e scrivevo anche peggio: dov'è certificato che io abbia un talento? Allora riformulo la preoccupazione: temo di non riuscire a fare ciò che veramente mi piace. E cioè? Scrivere, raccontare. Però non è male neanche scegliere gli argomenti da mettere in pagina. E discutere con i colleghi, fare i titoli (io adoro fare i titoli), scartare dieci foto e prendere dal mazzo proprio quella giusta... Diciamoci la verità: cosa voglio di più? Le noie non mancano ma mi alzo al mattino - neanche presto - e posso fare un mestiere che adoro. Semmai mi stupisco di coloro che riescono a lavorare, presentare serate, scrivere libri. Scrivere libri. Ma come fanno a scrivere libri? Dove trovano il tempo, le energie mentali? Non credo di essere pigro e neppure di perdere tempo in stupidaggini. Sì, vedo qualche film, la sera tardi. E leggo, però quello è anche un dovere professionale, oltre che un piacere. Forse ho capito: il problema è che dormo troppo. Otto ore a notte, anche nove, minimo. Berlusconi non ne spreca che cinque. Forse quattro. Non c'è da stupirsi che lui abbia un impero economico, sia presidente del Consiglio, partecipi a feste con ragazzine che hanno un terzo (quasi un quarto) dei suoi anni, mentre io me sto qui, sul divano, da solo, che sono quasi le due e m'è venuto freddo ai piedi. E sto vedendo un film ("Star System"), una delle stupide commedie di Hollywood, dove però un professore di filosofia ha appena finito di citare al figlio una frase di Einstein. "Non cercare di diventare un uomo di successo. Piuttosto, diventa un uomo di valore" gli ha detto. L'attore aveva una faccia da uomo buono, saggio. A Villa Certosa, se mai ha bussato, non devono avergli aperto.

Foto by Leonora

mercoledì 24 novembre 2010

Sulle spalle dei giganti


Ambrogio toglie la protezione anti grandine. Domani o dopo dicono che nevicherà e teme che il peso divelga la rete che teneva al riparo le viti, ormai non più gravide d'uva. E' una stagione che si spegne, questa. Forse anche la sua, anche se non ha ancora settant'anni e un fisico che nonostante qualche recente acciacco mette invidia. Gli voglio bene, pur se è uomo da nessuna smanceria e sa essere sarcastico e duro e tagliente come i metalli che ha commerciato per un vita. Per trent'anni di lavoro ha fatto coppia con mio padre, anche se era lui che portava in dote un mestiere e nel bene e nel male teneva di tutta la baracca le briglia. Entrambi gran lavoratori, avevano un carattere opposto: lui più irruente, scaltro, dinamico, strategico; più riflessivo, metodico, ordinato, paziente mio padre. Avevano un punto d'equilibrio proprio nel fatto che nessuno dei due si tirava indietro, in una generosità di fondo e una praticità poco pignola, tipica degli uomini (le donne non me ne vogliano). Non sono stati estranei da incomprensioni, litigi persino. Li hanno superati, dando esempio di cosa significhi la parola amicizia. Con Ambrogio ricordo innumerevoli momenti. La prima parolaccia sentita, la prima presa in giro subita, il pianto commosso quand'è morto Mario, suo padre, brianzolo purosangue, che ha comprato e venduto pelli di coniglio da quando aveva ancora i denti da latte fino a che ha chiuso gli occhi l'ultima volta. Quando all'inizio degli anni Settanta stavamo costruendo la casa fu Ambrogio, senza salamelecchi né fronzoli, che ci prestò una somma che ora appare piccola ma che allora era essenziale per arrivare al tetto e tirare al fiato, senza ricorrere a una banca. Quando leggo del miracolo economico, del produttivo nord ch'è riuscito a lasciarsi alle spalle la miseria, penso ad Ambrogio e a mio padre e a decine di migliaia come loro, che sono andati in vacanza meno volte di quante in una mano le dita. E' lavorando dieci ore al giorno, aiutandosi a vicenda, che hanno costruito mattone su mattone non soltanto una casa, ma anche il benessere di cui godiamo ora, le fondamenta di un futuro in cui un paio di scarpe ai piedi non sono più un lusso e l'unica cosa che manca è forse il latte di gallina. Non gliel'ho detto oggi, quando sono andato a trovarlo, perché mi avrebbe turato la bocca con l'ironia, dicendo che sono il solito esagerato, sentimentale, che la metto giù dura. "Cala, trinchetto" mi avrebbe detto. Però lo penso davvero. Lunghi anni ad Ambrogio, che non è un santo ma un gigante sì. E' salendo sulle spalle di tutti quelli come lui che noi riusciamo a sfiorare il cielo, sorridendo alla vita.

Foto by Leonora

sabato 20 novembre 2010

Il piede storto


Ci sono giorni che cominciano così, col piede storto. Oggi era uno di quelli, fin da quando sono uscito di casa, poi in redazione, dove sono stato più intrattabile d'un riccio spinoso. Non mi andava bene nulla, vedevo nero dappertutto. Cercasi disperatamente una mano di bianco. Possibile che sia solamente io esigente, severo nel giudicare quello che faccio, che potrebbe essere fatto molto meglio? In particolare in questi giorni ce l'ho con quanto è scontato, con i nostri cliché mentali, con l'abitudine e l'assuefazione al percorrere il sentiero conosciuto, alla mancata voglia e volontà di mettersi maggiormente in discussione, di sperimentare vie, di capovolgere il tavolo e provare a inventarsi un mondo nuovo. "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero". Perché non possiamo noi? Di cosa abbiamo paura, cosa ci induce a restare legati a una corda, a tenere il freno tirato? Fretta. Fretta di fare, di concludere, di decidere. Desiderio di chiudere le caselle della tombola una ad una, così da arrivare alla svelta a un risultato, qualunque esso sia, un tanto al chilo, tanto siamo pagati lo stesso, anzi - se facciamo bene, ma impiegando più tempo - anche meno. Dov'è la passione? Dov'è il fuoco che ci spinge a migliorare, a sfidare noi stessi ogni giorno, a innamorarci di ciò che mettiamo in pagina e che il mattino successivo finisce in mano a migliaia di persone, una platea tanto grande che se solo ne avessimo cognizione, autentica consapevolezza, dovremmo metterci in ginocchio e piangere, di commozione o tremare, per lo stupore? Ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo, della bellezza del mestiere che abbiamo lottato per fare ma, riconosciamolo, per tutti noi è arrivato in dono? Non basta mettere parole l'una in fila all'altra, riempire spazi bianchi, cogliere il primo frutto che pende dall'albero. O il nostro è un concerto, una sinfonia, un immenso quadro, un piccolo capolavoro quotidiano o non è nulla, carta che va al macero. Questa è la verità. E chi non lo capisce, penserà sempre che fare il giornalista è semplicemente un lavoro, scollegato dalla vita, da cedersi per soldi o baratto. Domani pomeriggio andrò a parlare a una tavola rotonda sul futuro della nostra professione, su studi e mestieri della comunicazione. Speriamo che l'amarezza e il cinismo si sciolgano, non ho intenzione di portare a lungo il broncio con me stesso, anche se non è così automatico farsela passare, nascondere tutto alzando semplicemente il tappeto e gettandoci sotto con la scopa lo sporco.

Foto by Leonora

giovedì 18 novembre 2010

Garibaldi fu ferito


Ciascuno ha le sue convinzioni, che mutano per cultura, istinto ed esperienza. Quello che faccio qui, lasciare quasi ogni giorno una traccia, contraddice nei fatti l'opinione che negli anni mi sono fatto della memoria, cioè che prima poi svanisce, passa. Possono passare dieci anni, cento o migliaia, ma l'esito è il medesimo, così com'è vero che anche il più antico dei monumenti si sgretolerà ad un certo punto della parabola dell'universo. Una consapevolezza che non mi turba, tutt'altro: come ho scritto altre volte, per certi versi mi rassicura. Ne parlo perché tornando per cena, nonostante fossero le dieci passate, ho ascoltato Giacomo ripetere la lezione di storia. Lo sbarco dei mille, l'incontro di Teano, l'unità d'Italia... Quando ero piccolo Garibaldi era un mito. Si cantavano canzonette che lo riguardavano ("Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion") e ricordo che in quinta elementare, invece dell'album dei calciatori, feci una raccolta di figurine sul Risorgimento. Oggi mi sembra lontano quel tempo: più di Garibaldi stesso. Non è soltanto responsabilità della politica, anche se allora uno dei maggiori partiti lo aveva scelto per modello, mentre uno degli attuali lo vede come il simbolo di un misfatto (io per altro andavo a scuola dalla suore, eppure Garibaldi era ugualmente riverito, segno che l'ottusità perché sia perfetta necessita di qualcuno che lancia l'anatema ma anche qualcun altro che lo raccoglie e si adegua con zelo). La corrosione ha origine assai più profonda dell'onda del momento e in ogni caso, ciò che rimane, non è mai fedele all'originale. Chi fosse veramente Garibaldi lo sapeva lui solo ed è una regola che vale per ognuno di noi, compreso me stesso, che in questo blog ha una versione patinata, un riflesso.
P.S. Non riesco più a vedere i telefilm. Anche i film, talvolta, ma le serie tv quasi sempre, specialmente i gialli, che sono stati sempre la mia passione. Sarò diventato un pignolo, ma non c'è episodio in cui mi appaia banale la trama o - più spesso - non scorga una lacuna, un punto che non torna, un dettaglio inverosimile, un difetto. E così, invece che godermi la puntata, mi fisso su quell'aspetto o faccio attenzione per scoprirne un altro e in ogni caso cade in verticale la poesia del momento. Aiuto! Almeno in questo, vorrei tornare ad avere l'ingenuità di un bambino.

Foto by Leonora

martedì 16 novembre 2010

In fila per sei


Mille. Mille e uno, per la precisione. La uno è Alisia, figlia di Michele, mio compagno alle medie e al liceo. Mille e uno amici di Facebook. Una montagna, una pila di nomi e cognomi che a metterli in fila uno ad uno non so neppure dove si arriva. Non li conosco tutti di persona ma abbiamo in comune una porta aperta, una finestra sul giardino altrui, la declinazione virtuale del "nessun uomo è un'isola" (e neanche una donna). Altre cose da segnalare non ne ho. Il faggio è spoglio, da giorni piove, sul tavolo del salone c'è un vaso con dell'agrifoglio e bacche rosse che sono una meraviglia, il criceto Genesio appena diventa buio scatena un rumore d'inferno girando sulla ruota, una settimana fa è passato il giorno del mio compleanno. Quarantaquattro anni in fila per sei col resto di due. Ho conosciuto persone che a guardarle ti viene da alzarti in piedi e toglierti il cappello, ad averlo, un cappello. Qualcuna l'ho persa per strada, per colpa mia.
Foto by Leonora

sabato 13 novembre 2010

Scuola o biblioteca (sindaco incluso)


Voglio bene a Lurate Caccivio: è in quel dedalo di strade, a mezza via tra pianura e collina, che ho radici, casa e famiglia. In questi giorni c'è un dibattito acceso in paese e venerdì è in programma un consiglio comunale aperto alla cittadinanza. Alcuni vorrebbero che le vecchie scuole di Lurate, abbandonate da anni e ora ristrutturate, ospitassero la nuova biblioteca, altri preferirebbero far tornare almeno alcune classi delle elementari. Lo dico subito: sono di parte, essendo stato tra i primi - se non il primo - ad aver chiesto ormai tanti anni fa di metter lì una biblioteca. Credevo e credo tuttora nell'importanza di piantare nel centro di Lurate un seme di cultura. Se dovessi scegliere da solo non avrei dubbi, ma in questo caso si tratta di decidere insieme e sono grato al sindaco Palamara, convinto assertore delle scuole, di aver accettato il confronto, di non aver chiuso le porte. Gli fa onore. Così come è giusto riconoscere alla precedente amministrazione Botta l'aver messo mano all'edificio con un progetto polivalente, che non lega le mani in alcun modo.
Ai miei concittadini, su questo tema, vorrei dire una cosa semplice: mettiamoci in un atteggiamento positivo. Anch'io mi dolgo delle cose che mancano e noto con dispiacere ciò che altri comuni vicini hanno fatto negli anni passati, senza che noi riuscissimo a stare al passo. Questa volta è diverso. Discutiamo non di villette a schiera o rifiuti, bensì se sia meglio una scuola o una biblioteca. Non è forse già questo straordinario? Mille e più persone si sono mobilitate non per un tornaconto personale, ma perché vorrebbero a Lurate un centro civico, delle aule dove trovarsi, degli spazi dove i loro figli possano socializzare, passare i pomeriggi, le serate, in mezzo a montagne di libri. Di contro, l'attuale maggioranza non è scettica perché lì vorrebbe una colata di cemento, ma perché preferirebbe mettere una scuola, richiamandosi alle tradizioni. Non è straordinario anche questo? Sono profondamente convinto che comprendere le ragioni degli altri sia il primo passo per una buona scelta. Ecco perché, senza potere alcuno ma affidandomi al buon senso dei tanti che conosco e che stimo, esprimo qui un desiderio: che venerdì si partecipi più per ascoltare che per convincere. Poi una decisione andrà presa, toccherà al primo cittadino assumersi la responsabilità, ma se saprà mettersi sopra le parti, se ricorderà di essere il sindaco di tutti, se starà a sentire la sua gente - tutta la sua gente - credo che qualsiasi cosa scelga, non sbaglierà.


Ci credevo, lo avevo anche scritto sul giornale. Invece sbaglierà lui, mi sbagliavo io. Ieri sera il sindaco di Lurate Caccivio non ha ascoltato la sua gente: è entrato con la propria idea e con la propria idea è uscito. Che delusione. Avrei voluto dirglielo, parlargli col cuore, ma ho capito subito che non si sarebbe mosso di una virgola. Così me ne sono stato zitto, io che pur non appartengo alla schiera di chi lo crocifigge, che ho nostalgia come molti delle scuole in centro, che considero errori quelli commessi quando non è stata realizzata una scuola a Lurate. Però un centro civico ora vale assai di più, può render vivo il centro storico per tutto il giorno, sere comprese, oltre che a diventare quel "seme di cultura" a cui accennavo prima. Non lo dico per me, bensì per i miei figli, che meritano un posto migliore. La proposta che volevo fare e che mi sono tenuto dentro, come un groppo in gola, è questa: facciamo decidere a loro. Promuoviamo una consultazione di ragazzi e giovani dai dodici ai trent'anni, lasciamo che si assumono la responsabilità di una scelta. Dopotutto siamo al loro servizio: non abbiamo avuto la fortuna di abitare questa terra per farne ciò che vogliamo, bensì per lasciarla in eredità. Questo si chiama bene comune e chi non lo capisce può fare il sindaco cinque anni, ma non lascerà altra impronta che un cattivo ricordo di sé.

P.S. So di essere un pirla, un illuso impenitente, ma io confido ancora che cambi idea. Ha fatto così fatica per diventare sindaco, non può sciupare tutto comportandosi così...

Foto by Leonora

venerdì 5 novembre 2010

Un Paese migliore


Otto. Otto anni. Giovanni li ha compiuti oggi e, oltre alle scarpe con le rotelle, gli è arrivato in dono un criceto. Genesio l'ha chiamato e farà coppia con Silvio, il canarino. Io sono arrivato come al solito tardi, ma in tempo per mangiare la torta, in una bella serata, senza esagerazioni. Il piccolo mi perdonerà se la chiudo qui e parlo d'altro (in effetti però lo sto trascurando: vado a vedere le partite di Giacomo e non le sue, ma non ho preferenze, anche se mi rendo conto che più il tempo passa più il principio si deve declinare in pratica e a fronte di loro tre ci sono io solo, per giunta non ubiquo). In questi ultimi giorni ho incontrato due persone fantastiche. Oggi Catherine, domenica scorsa Biba. Catherine viene dall'Inghilterra. Dalla Cornovaglia, per la precisione. Biba dal Senegal. Lei è bionda, minuta, con due occhi vispi, che guizzano e si sgranano, mentre racconta, e una pelle candida, di luna. Lui è color di una notte senza stelle, alto alto, con uno sguardo buono e un volto che quando ride s'illumina. Catherine è avvocato, moglie di un altro avvocato, inglese anch'egli, di passaporto, humor e d'aspetto, abitano in una villa antica, con giardino e un ampio terrazzo vista lago, e hanno un casolare, a Città di Castello, in Umbria. Biba è figlio di un proprietario di cava, ha otto tra fratelli e sorelli, disseminati tra Europa e Africa, qui fa il saldatore ma al suo paese ha comprato tre ettari di terra, vicino a Dakar e ha costruito una bella casa, che non somiglia per niente all'appartamento stretto e decoroso dove vive ora, con la moglie, alta quasi quanto lui, elegante e bella, che non fa fatica a rimboccarsi le maniche e lavora in un supermercato, reparto cucina. Biba e Catherine non si conoscono, ma hanno in comune una sofferenza. Il figlio di lui, il più piccolo, sette anni, è morto l'anno scorso, mentre era nella vasca da bagno, credo per un aneurisma. La figlia di lei, cinque anni, è malata di leucemia e lotta ogni giorno per la vita. Non voglio entrare nel dettaglio, non ora. L'ho messo perché entrambi, pur nella disgrazia, sono grati all'Italia, ai vicini di casa, agli amici, ai genitori dei compagni di scuola, per la sensibilità, la gentilezza, la solidarietà dimostrata. Sono orgoglioso che Giovanni sia nato e cresca qui, in un paese ch'è migliore di quello che appare, di quello che mostra.
Foto by Leonora

giovedì 4 novembre 2010

L'eterna giovinezza


Alle cronache di Ruby preferisco quelle di Rudy, il dinosauro dell'Era glaciale 3. Lo ammetto: appartengo a quella categoria di persone che, dopo il primo quarto d'ora di stupore e curiosità, dei festini a casa Berlusconi non gliene importa nulla. Sono sensibile alle tentazioni della carne (al venerdì pure a quelle del pesce) e non sono immune da peccati, per cui la prima pietra me la tengo in tasca, così come la seconda, la terza e la quarta. Semmai penso con tristezza ai settant'anni (quasi gli ottanta, se consideriamo Emilio Fede) di chi organizza festini con giovani ragazze compiacenti, al grido di bunga bunga. Mi dicono che capita così, che quando si avvicina la fine ci si aggrappa alla vita con la voracità di un naufrago che annaspa per raggiungere la riva. Sarà. Io mi sono sempre immaginato quell'età con una conquistata serenità, una saggezza raggiunta, una pace interiore e anche dei sensi. Una vecchiaia quieta eppure colorata, come questi giorni d'autunno, da trascorrere tra le persone a cui voglio bene, magari con le gambe sotto una coperta e un libro tra le mani o, se proprio sono stanco, sulla ginocchia. Mi hanno insegnato che non si diventa anziani finché si hanno speranze, ideali, sogni. Soprattutto sogni. E' questa l'eterna gioventù a cui ambisco, la sola che mi ha insegnato mio padre.
Foto by Leonora

sabato 30 ottobre 2010

La tigre e il dragone


"I dittatori cavalcano avanti e indietro su tigri dalle quali non osano scendere. E le tigri diventano sempre più affamate". Lo ha detto Winston Churchill e lo ricordo a me stesso, quando invece di raccontare sono tentato di scrivere ciò che la gente vuole sentirsi dire. Non è facile restare in equilibrio tra due burroni: quello di lisciare il pelo ai potenti e quello, opposto, di cedere al populismo. Da quando ho compiuto quarant'anni mi sono convinto che se fossero i giovani a governare staremmo meglio. Lo sostengo ripensando a me, ventenne, idealista e caparbio e appassionato: avrei potuto sollevare il mondo, se solo non mi avessero fatto da tappo, urtando o blandendo. Con il senno del poi, avrei corso però un rischio: mettere a repentaglio onestà e buon senso, cedendo alle sirene del potere, dei soldi, del lusso. La maturità, la gavetta, l'esperienza credo siano determinanti per forgiare un carattere più temprato, avveduto. Vale pure per il mio lavoro, che apprezzo proprio per averlo a lungo atteso, desiderato e di cui ho cura affinché non venga sprecato. Perciò sul giornale cerco di ottenere il gradimento del lettore, senza però assecondarlo, badando piuttosto a tener la schiena dritta, sapendo che solo chi guida, chi ha personalità viene rispettato, mentre chi va a rimorchio prima o poi finisce per essere ignorato o, peggio, schiacciato.

Foto by Leonora

mercoledì 27 ottobre 2010

Le regole dell'ingaggio


Approfitto di quest'ora libera per definire le regole dell'ingaggio.

Non sono un coraggioso alla Pietro Micca, che si butta nella mischia a capofitto, senza pensare alle conseguenze, accada quel che accada. Io alle conseguenze ci devo pensare. In compenso, proprio come certi mammiferi che si sono adattati all'esistenza in mare, ho sviluppato alcune peculiarità che compensano questa esitazione iniziale: una volta che ci ho pensato, riesco a tuffarmi anche sapendo o anche semplicemente intuendo gli sviluppi negativi. Ora David, che sono certo mi legge, sorriderà, sentendomi raccontare un episodio dei tempi dell'università. Avevamo un professore di statistica ch'era una zecca paurosa e, appena entrato in aula, si metteva a fare domande e a interrogare, proprio come al liceo. Una situazione imbarazzante, poiché la preparazione a nostro giudizio doveva essere provata all'esame, essendoci tra gli scopi dell'università pure quello di formare a un'autonomia di studio, la programmazione, senza che ci fosse la mamma severa a controllare ogni giorno se avessimo o meno studiato. Il personaggio tuttavia era tale da non lasciare adito a discussioni e pur ingoiando amaro, nessuno fiatava. Ricordo che quel giorno, un venerdì, ci pensai due o tre minuti, poi alzai la mano e gli dissi ciò che pensavo, cioè che se avesse badato più all'entusiasmo e all'amore per la materia che insegnava invece di perdere tempo con un puntiglio fuori luogo, ci avremmo guadagnato tutti. Non ricordo la sua risposta, ma soltanto il silenzio dei miei compagni mentre parlavo e il fatto che da quel giorno non interrogò più. In compenso all'esame mi fece sudare sette camicie per strappare un voticino striminzito: aveva ragione, me lo meritavo.

Sono partito da lontano. Neanche tanto lontano. Ieri ho discusso con Isabella, che si era messa a gridare con Giorgia chiedendo che fosse spento il televisore. Dopo cinque minuti di rimbrotti suoi e repliche lacrimevoli della figlia, Isabella (che è buona vera e non come me, che sotto sotto sono un Caino) ha lasciato perdere. E' lì che m'è saltato in mente di scrivere un post sulle regole dell'ingaggio: prima di pretendere, è necessario essere disposti ad andare fino in fondo, costi quel costi. Capita in casa, in famiglia, tra amici, sul lavoro. Altrimenti il rischio non è soltanto restare inascoltati, bensì perdere autorevolezza. E anche la faccia.

P.S. Una nota per David. Se il ricordo che ho dell'episodio scolastico diverge da ciò che accadde veramente (tipo: io mi vedo come Cicerone che intima l'ultimatum a Catilina, mentre in verità ero un questuante balbuziente alla Johnny Glamour) lo dica pure, nei pensieri qui sotto. M'appello solo alla bontà e alla discrezione dei modi: ho una reputazione, e sono anche più vecchio di lui, non venga dimenticato.


Foto by Leonora

martedì 26 ottobre 2010

Il prescelto


Senza chiedere nulla in cambio. L'ha detto il prete, domenica, a messa. La predica è continuata ma io mi sono fermato lì, a pensare a tutte le cose che vengono fatte per me senza chiedere nulla in cambio. Ho riflettutto sulla circostanza che - non per caso - sono le stesse che hanno valore ai miei occhi, che mi fanno distinguere il falso amico dal vero. E ho cominciato a tenere il conto delle cose che faccio io senza badare al tornaconto. Ce ne sono? Forse. Assai meno di quelle che avrei desiderato, che considero giusto. Rovisto tra i ricordi, cercando la perla che luccica nel cestino vuoto. Così, su due piedi, adesso, ne trovo poche, poco più d'un paio: il magro bottino d'un finto buono. Dicevo l'altro giorno che l'egoismo è il motore dell'uomo, ma labile è il confine tra l'egoismo che ti fa voler bene a te stesso (condizione non sufficiente ma necessaria per voler bene anche all'altro) e quello che ti fa innalzare un recinto e calpestare tutto attorno.

Cambio argomento, ma neanche tanto. Domenica sera, a Report, hanno raccontato la storia di Ambrogio Mauri, brianzolo di Desio, costruttore di autobus, morto suicida con una lettera lasciata ai figli, in cui - nel succo - si diceva questo: "Ho creduto che Tangentopoli spazzasse via i disonesti e per noi tornasse ad essere un tempo propizio per lavorare, per fare ciò che abbiamo sempre fatto. Non è così, io mi fermo qui". S'è sparato. La disillusione è stata più forte di tutto in un uomo che non conosceva il cinismo: invece di continuare a lottare s'è arreso. Ma non è morto del tutto. Ogni volta che entro al giornale, ad esempio, so che nel mio piccolo, nel nostro piccolo, possiamo fare tanto, possiamo mettere un mattone per fare argine all'ingordigia di coloro che nessuna inchiesta ha ancora affondato. Anch'io, come Mauri, avevo creduto che da quella stagione non si potesse tornare indietro. A differenza sua, oltre all'egoismo, m'ha salvato l'esser più giovane, l'incoscienza abbinata a un entusiamo ottuso, eppure utilissimo, poiché antidoto naturale al veleno indotto dalle sconfitte di ogni giorno. "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero". Vale anche per me, che mi ostino a pensare di poter cambiare le cose, almeno un pezzettino. L'onestà, un'onestà non bacchettona, di fondo, credo debba tornare requisito fondamentale per distinguere la gramigna dall'erba medica. Se uno è incapace, può imparare. Se invece è ladro, ruberà sempre, senza accontentarsi mai. Non so se questa sia "mettere al centro la questione morale", però qualcosa dobbiamo pur farlo, da qualche parte è importante cominciare. La prossima volta che sarò chiamato a votare, sceglierò il mio candidato rispondendo a questa semplice domanda: "A chi, tra loro, darei il mio portafoglio?".
Foto by Leonora

domenica 24 ottobre 2010

L'orecchio e il convento


Un gradino sulla scala di legno che porta al soppalco. Mi sono seduto lì, stasera, a casa di Brunella e Angelo, mentre suonavano musica jazz dal vivo (non Angelo e Brunella, due loro amici). Il suono giungeva perfetto, ero io fuori posto, rozzo d'orecchio e di gusto. Almeno lo ammetto, senza fingere competenza e darmi tono. E comunque dopo una decina di minuti, sul davanzale d'un finestrino, poco lontano, ho visto un libro. L'ho preso, l'ho sfogliato, s'intitolava "Confessioni di un sicario economico", ho cominciato a leggerlo, scoprendo che il jazz è fantastico come sottofondo. Tra un brano e l'altro mi fermavo, applaudivo, e in quei pochi secondi riflettevo su quanto poco sia educato alla musica. Tanto per fare un paragone, se fosse cibo, sarei come un porcellino, mangerei di tutto. Non è vanto. Sempre stasera, tramite Facebook, Rosa mi chiedeva quali fossero i miei autori preferiti. Gli ho risposto che sono onnivoro, gli ho fatto anche qualche nome, dimenticandone però molti altri, che mi sono venuti in mente dopo, mentre riflettevo su quanto mi sentivo inadeguato. David, due settimane fa, mi ha regalato un cd: Giorgio Gaber. E a lui che devo la passione per i cantautori italiani, per Fossati, De André, Guccini... I miei figli ascoltano Van De Sfroos, l'ultimo disco, che ha fatto da compagnia alle vacanze dell'anno scorso e pure questo agosto. Al fratello di Angelo, che si chiama come me, Giorgio, debbo la passione per la musica inglese e d'oltre oceano: Elton John, Bruce Springsteen, ma anche Loggins & Messina, tanto per fare qualche nome. Da ventenne è stata la volta degli italiani: ogni estate al mare una colonna sonora. Più Zucchero di Vasco Rossi, Carboni e persino - lo confesso - Masini, anche se non ne ho mai fatto una malattia (ma lo ascoltava Mauro Pellizzoni, da mattina a sera, ed era impossibile toglierselo dalla testa). Poi Ramazzotti. A un concerto, a Varese, andai con un pulmino da otto posti. Eravamo io e sette ragazzine adolescenti, che ora sono mamme a loro volta di figli, qualcuno già grandicello. Una decina d'anni fa cominciai ad apprezzare la classica e la lirica, senza tuttavia farne un culto, tanto che ora è sparita dallo spartito. Potrei continuare a lungo ma credo non interessi a nessuno, nemmeno a me, che riconosco la mediocrità della mia personale compilation. A proposito, concludo aggiungendo la lista attuale del mio Ipod, che comprende una trentina di canzoni, i cui autori sono nell'ordine: Eurythmics, Alessandra Amoroso, Tiziano Ferro, Renato Zero, Charles Aznavour, Gilbert Becaud, Elton John, Billy Joel, gli Abba, una mini compilation di disco dance anni Settanta, Mary J. Blidge, Michael Buble, Frank Sinatra, Michael McDonald, gli Acdc, Celine Dion, Steve Wonder, Guccini, Bertoli, Max Gazzè, Luther Vandros, John Legend, Black Eyes Peas. Chiedo scusa a chi è fine d'orecchio: questo è ciò che passa il convento.
Foto by Leonora

lunedì 18 ottobre 2010

La cura


Da un paio di settimane sono ufficialmente disturbato. Non da un compagno di banco, né da un vicino di casa e nemmeno da un ficcanaso: è invece un male che viene dalle cattive abitudini alimentari. Tradotto in parole povere: torno a casa tardi e m'abbuffo come un suino, ragion per cui lo stomaco ha cominciato a lagnarsi. Prima come un fastidio avvertito ai polmoni, ma in verità era l'esofago. Me l'ha detto il dottor House, al secolo Daniele Bellocco, medico di base a Lurate Caccivio. Dottor House perché quando sono andato da lui, prima di visitarmi, farmi fare i colpi di tosse, guardarmi la lingua e tutto il resto, mi ha fatto una serie di domande che neppure una portinaia curiosa avrebbe partorito. "Che mestiere fa?", "A che ora torna la sera?", "Cosa mangia?", "Vero che non si accontenta del primo ma si fa pure un secondo?"... Poi ho capito dove andava a parare e ne sono rimasto anche affascinato e ammirato, ma all'inizio pensavo solo: guarda un po' 'sto curioso! Sta di fatto che la diagnosi è stata lapidaria: "C'è un accenno di reflusso gastroesofageo". Una cosa che se me l'avessero detta un mese fa sarei sbiancato, ma da qualche giorno ero praticamente convinto di avere un male brutto ai polmoni, per cui quando me l'ha detto avrei voluto abbracciarlo. Ora la situazione non è migliorata, anzi: quasi tutte le notti mi sveglio e tossisco. La metto giù dura, come quasi tutti i maschi, che fanno i duri e poi al minimo dolorino frignano. A mia parziale discolpa porto il fatto che in quarantatrè anni (quasi quarantaquattro) è la prima volta che ho qualcosa di semiserio. Lo scrivo qua, a espiazione del fastidio che procuro a quasi tutto coloro con cui sono in confidenza e che non risparmio dal renderli edotti di ciò che mi accade sotto il mento. Potrei farne a meno e lo comprendo dai loro sguardi, dalle loro reazioni. Chiedo scusa a tutti. Scusa a Isabella e ai miei figli, che talvolta sveglio con colpi di tosse da elefante costipato. Scusa ai colleghi, che in riunione e in privato ho messo a parte dell'acciacco. Scusa a Federica, che gentilmente s'è offerta di consigliarmi un "inibitore della pompa gastroesofagea" e che ho guardato con sospetto, come se mi avesse proposto un trapianto di cuore fatto dal macellaio ("E vabbé, non ti fidi, ho capito, torna dal tuo medico" m'ha detto). Scusa a mia madre, a cui ho sottratto un flacone di Riopan nottetempo. Scusa al tappetino in cucina, su cui ho versato buona parte dello stesso Riopan, facendolo traboccare dal cucchiaino. Scusa al dottor Bellocco, da cui non sono più tornato. E scusa anche e soprattutto al mio stomaco, che da decenni mi serve a meraviglia: sono bastati pochi giorni di disagio e già l'ho considerato infido, infedele, infingardo. Ora vado a letto: di raccontare oltre non ho fegato.

Foto by Leonora

sabato 16 ottobre 2010

I pionieri e la frontiera


Marco ha scritto l'ultimo post un paio di settimane fa, Mauro invece sono mesi che non aggiorna il suo blog, così come Andrea, e anche sua moglie, Valentina. Elena poi ha addirittura chiuso il suo, preferendo aprirne un'altro, di fotografia. Per non parlare di Maddalena, ch'è inchiodata al 9 dicembre dell'anno scorso: passo quasi ogni giorno per vedere se cambia idea, ma continua a restare muta. Di recente perde i colpi anche Wilma, la mia preferita, ma per fortuna ci pensa Miranda a tener viva la baracca. Chi non tradisce mai è Silvia, che per me rimane Fuma e aggiorna il suo sito quasi ogni giorno, come del resto Paolo, Gaspar e i due altri Andrea, compreso colui che con il suo "Per strada" percorre quella a fianco della mia. Ma sono eccezioni alla regola: al cospetto della vitalità dei blogger un paio d'anni fa, sembriamo i sopravissuti al termine di un'epidemia. Uso la prima persona plurale perché mi ci metto anch'io, che nel bene e nel male continuo qui la semina. A volte dimentico che tutto cambia e che ciò accade ancor più velocemente nella nostra epoca liquida, dove poco è ancorato al profondo e tutto il resto galleggia. Il blog rimane per me rampa di lancio e àncora, spazio di libertà assoluta (pur se ora come ora della libertà non sento la mancanza) e sassolini di Pollicino, lasciati nel bosco per ritrovar la strada. Ripenso a quando l'ho aperto, sudando e sbuffando come un mantice, perché con la tecnologia avevo la dimestichezza di un elefante che vuole schioccare le dita. Era il 1 ottobre 2007. Non mi sono neppure ricordato l'anniversario: padre sbadato. Un paio di mesi dopo ci ritrovammo insieme, i blogger di Como e dintorni, per mangiare una pizza. E' lì che ho conosciuto Frenz, Giovanni, Luca, Leonora, Alessandro, Stefania, Giuseppe, Francesco, Palmasco e i già citati Elena, Gaspar, Valentina, Andrea... Persone incredibili. Fu la sera in cui più di ogni altra sentii il futuro vicino, a portata di mano e nello stesso tempo sterminato, immenso. Sempre grazie al blog risalgo alla data esatta: era il 19 novembre del 2007. Mi piacerebbe riproporre una rimpatriata, a tre anni esatti di distanza.
Foto by Leonora

martedì 12 ottobre 2010

Facciamole un applauso


"Facciamole un applauso! E andiamo in pubblicità...". L'avvocato di famiglia ha appena finito di parlare della madre di Sarah Scazzi, del suo dolore, della dignità, della compostezza di queste ore e soprattutto del suo desiderio di silenzio. Il legale, cicciottello, sudaticcio, bravo oratore, finisce in crescendo, pur se tutt'attorno non vola una mosca. "Perché la mamma di Sarah - conclude al confine dell'urlo - è una gran donna!". Nello studio di Matrix nessuno fiata. Un secondo, due, tre. Poi prende la parola lui, il conduttore scialbo, Alessio Vinci. "Facciamole un applauso!" sentenzia. E senza neppure aspettarlo aggiunge: "E andiamo in pubblicità...".

Lo so, voglio farmi del male. Oppure dev'essere una vena di inaspettato masochismo che per due sere di fila m'induce a lasciare libri e film, per tornare alla cara, vecchia tv generalista. "Cara" perché m'ha tenuto a balia, tenendomi compagnia dai dieci ai vent'anni assai più che amici, genitori e compagni di scuola. "Vecchia" perché da un paio d'anni non la guardo (quasi) più, scalzata dal satellite e dal computer. Eppure l'imprinting dev'essere fortissimo, s'è vero com'è vero che a volte mi basta incappare per caso in Porta a porta o Anno zero per non staccare gli occhi dalla schermo. "Esci! Esci da questo corpo!" devo fare come nell'Esorcista per spegnere o cambiare canale. Ieri, ad esempio, non ce l'ho fatta. Tornato tardi e reduce da una bella serata con David, mi si è parata davanti la puntata di Matrix sulla morte di Sarah Scazzi, strangolata dallo zio. In studio la solita compagnia briscola, collegata dal paese Sabrina Misseri, la cugina di Sarah, figlia dello stesso assassino. Descriverei il tutto così: uno spettacolo agghiacciante. Agghiacciante perché l'inquadratura stretta sul volto della ragazza mentre la regia manda in onda la confessione del padre è qualcosa che va al di là del cattivo gusto: è pornografia. Spettacolo perché l'informazione è assolutamente marginale a confronto dell'intrattenimento, infatti anche il linguaggio, i rituali sono quelli del varietà, del festival di Sanremo. "Facciamole un appluaso! E andiamo in pubblicità...".

Oggi, recidivo, m'imbatto in Ballarò. Lo ricordavo meglio. Del mercato di Palermo non prende soltanto il nome, ma pure la confusione. Tutti gridano, sbraitano, si parlano addosso e soprattutto nessuno ascolta ciò che dice l'altro! Conduttore incluso. Ricordavo meglio pure lui.
Foto by Leonora

domenica 10 ottobre 2010

A mì el me piàs no (libertà di stampa, sempre)


Non conosco di persona Alessandro Sallusti, non ho mai scambiato con lui una parola, non gli devo favore alcuno. Quasi tutti i miei attuali colleghi invece l'hanno avuto per direttore e, di recente, il mio amico Mauro ha avuto la buona sorte di lavorare con lui e me ne parla spesso, perché lo stima e - pur quando la pensa diversamente da lui - gli riconosce onestà intellettuale oltre che un carattere sostanzialmente buono. Buono dentro. Ricordo quand'ero un ragazzo e vedevo questo mio mestiere col binocolo: Sallusti prese in mano La Provincia e la rivoltò come un calzino, trasformando la palude in un laghetto d'acqua limpida, frizzante persino. Ne restai ammirato. Di Sallusti parlo talvolta con mio cognato Fulvio, che l'ha avuto per compagno e amico negli anni delle superiori, al Setificio. Recentemente anche con mia mamma, che invece lo detesta quando compare con quel volto scarno e austero, nei vari telegiornali, Ballarò o Anno Zero. "Guarda che è un bravo giornalista - le dico io - e Mauro che lo conosce bene dice ch'è un buono...". "Sarà - replica lei, scettica, in dialetto - ma a mì el me piàs no". A lei non piace.

Questa però è soltanto la cornice: il soggetto del quadro è un altro.
Tre giorni fa degli agenti sono entrati nell'ufficio e in casa del direttore de "Il Giornale", Sallusti appunto. Avevano un mandato e il potere di perquisire l'abitazione palmo a palmo, compreso chi ci abitava, ch'è rimasto in mutande, attendendo che fosse finito tutto. I magistrati che avevano impartito l'ordine cercavano dei dossier, che lo stesso giornalista avrebbe detenuto o commissionato, potenzialmente dannosi per gli oppositori del capo del governo, che del suddetto giornale ha nella sostanza il controllo. Nel frattempo, su tutti gli organi d'informazione, venivano pubblicati gli stralci delle intercettazioni telefoniche subite dal vice direttore de Il giornale, Nicola Porro detto Nicolino, a colloquio con il responsabile dell'ufficio stampa di Emma Marcegaglia, attuale presidente di Confindustria. Tali telefonate mettevano pressione, inutile nasconderlo. Sarei però un ipocrita se sostenessi che di simili pressioni non ne abbia fatte anch'io: è una regola del gioco, anche se tale gioco può essere ritenuto da taluni brutale, fetente, esasperato. Se rischio di prendere un buco, cioè di non dare una notizia che altri hanno, e il motivo è qualcuno troppo ciarliero con la concorrenza e poco con noi, la prima cosa che faccio è prendere il telefono e mettere in chiaro le cose: se domani la leggo sull'altro giornale, per noi sei morto. Oppure, come diceva un direttore placido di carattere ma colorito nel linguaggio: "Tu sul nostro giornale non verrai mai più nominato, se non per cose a te spiacevoli compreso quando passarei a miglior vita e pubblicheremo la tua fotografia, in cui sei ritratto brutto".
Diversa l'ipotesi che il presidente del consiglio orienti in qualche modo il lavoro dei servizi segreti, per screditare i propri avversari, utilizzando poi la stampa che controlla per dare eco e clamore all'evento. Una possibilità inquietante ma tutta da dimostrare, più simile ai libri di fantapolitica e dietrologia che allo scenario concreto. Controllare che i servizi segreti non "devino" dalla strada della legalità è compito del parlamento e dovere di ogni buon magistrato, che tuttavia nella ricerca della verità non può calpestare un altro diritto inviolabile, la libertà di parola e di stampa, che in un paese civile hanno valore assoluto e non possono essere imbrigliate in modo alcuno. A prescindere dal colore politico e anche dal nome e cognome dell'editore. Se poi uno compra "Il Giornale" sa da chi dipende, conosce quale sia l'orientamento, e perciò potrà "pesare" la notizia a seconda del suo modo d'intendere il mondo.
Ecco perché esprimo solidarietà a Sallusti, che paga quel volto scarno e corrucciato da infausto annunciatore di sventura (difetto imperdonabile in un paese da commedia avere un volto tragico). Le sue idee possono non essere le mie (figuriamoci quelle di mia madre), ma ha il diritto di esprimerle come crede meglio.

Foto by Leonora

sabato 9 ottobre 2010

Cartellino giallo


Il cartellino giallo mi ha fatto diventare rosso. E' successo una settimana fa, a Legnano. Mio figlio era reduce da un infortunio ed è entrato in campo a partita già iniziata e segnata: tre a zero per gli avversari. A metà della ripresa, quando i gol erano già diventati quattro, su un calcio d'angolo Giacomo ha sentito di esser stato trattenuto e ha protestato con l'arbitro. Peggio, allontanandosi da lui lo ha mandato platealmente a quel paese con la mano. Non una, due volte! Fischio, gioco fermo e ammonizione sacrosanta, mentre io in tribuna sarei voluto sprofondare: passi un giocatore scarso, anche falloso, ma maleducato no, non lo posso tollerare. La rabbia mista a delusione è durata un quarto d'ora buono, fino al termine della partita, quando - unico delle due squadre - Giacomo è andato verso l'arbitro per stringerli la mano. "Ah, quello è mio figlio - ho pensato - mi sembrava strano". Che abbia fatto una stupidaggine, che non abbia ragionato se n'è accorto anche lui, che infatti appena uscito dagli spogliatoi aveva basso lo sguardo. Da parte mia, ero ancora rammaricato e sono stato tagliente e persino un po' bastardo, come solo con i miei stretti familiari faccio. "Ti dico solo una cosa: che non capiti mai più - gli ho detto - tu vedi troppa televisione. Sembravi Totti invece sei solo un bambino che deve crescere". Lui non ha replicato, gli sono scesi due lacrimoni lenti lenti, mentre guardava dritto avanti a sé, combattendo tra il groppo in gola e l'orgoglio.

Se lo appunto qua, se racconto un episodio minuscolo, è per collegarlo a una vicenda ben peggiore, di cui scriverò domani sul giornale: lo stato d'animo di un padre il cui figlio, perdendo il controllo dell'auto, ha ucciso una ragazza che sarebbe diventata mamma di lì a poco e ch'è morta sull'ambulanza, mentre metteva al mondo la creatura che portava nel grembo. Mi sono immaginato spesso, nei giorni scorsi, di essere nei panni di quel padre, che non c'entra nulla, e che pure ha davanti agli occhi la rovina del figlio, che non può abbandonare, a cui deve stare vicino anche se non può negare lo sbaglio, né la gravità di quanto accaduto, la sterminata tragedia che ha procurato. Non so cosa farei se fossi al suo posto: prego Dio che mi risparmi da simili situazioni, pur sapendo che neppure Dio può mettere al riparo dalle disgrazie della vita, sia che rientrino in un vasto e impescrutabile disegno, sia che risultino un banale terno al lotto. Se mai dovesse accadere, vorrei la forza di non fuggire, di non negare, di aiutare chi mi è vicino e per primo me stesso ad assumermi le responsabilità, a chiedere scusa, perdono, anche se difficilmente verrà accordato. Domandarlo però, avere il coraggio di compiere quel gesto, è il primo passo se non per ottenere il perdono degli innocenti, almeno per concederlo a se stessi, per cominciare a farlo, avendo coscienza del tremendo sbaglio compiuto, ma pure della dignità di chi non fugge, decidendo di restare innanzi tutto un uomo.
Foto by Leonora

lunedì 4 ottobre 2010

Allargare il cerchio


Non faccio parte di gruppi, associazioni, partiti, club, circoli o confraternite né palesi né segrete. Per il lavoro dipendo da un'azienda e nella vita privata ho molti conoscenti e meno amici, sparsi qua e là, che nulla chiedono e molto danno: soprattutto in pazienza, nel perdonarmi le troppe e ingiustificate latitanze. Due domeniche fa parlavo con Brunella, era reduce da un raduno regionale (credo) di Comunione e liberazione, a Milano. "Erano più di settemila persone - mi ha detto - e quando cantavano erano impressionanti". Erano, terza persona plurale. Brunella non fa parte del "movimento", ma neppure ha il paraocchi contrario, quello che giudica da fuori vedendo solo nero. Credo anch'io che abbiano un carisma particolare e sono pronto a mettere la mano sul fuoco sulla buona fede dei più. La loro strada non è la mia, per la semplice premessa che ho messo all'inizio: preferisco non avere appartenenze, mantenere autonomia di giudizio. Però con Brunella e con Raffaele, che s'è aggiunto alle chiacchiere che stavamo facendo, condivido l'esigenza di non essere soli del tutto, del poter contare su amici che camminano a fianco. Non è solo questione di individui, anche di famiglie. Non siamo "animali sociali" per caso e la bellezza dello stare insieme, di allargare il cerchio, che abbiamo riprovato nei tre giorni passati ad agosto in montagna, in val di Sacco, dovrebbe trovare sbocco e compimento anche durante l'anno. In questo ammiro Isabella, che rispetto a me ha una sensibilità e una generosità maggiore e pur se io sono egoista, preferendo la pigrizia della tv o del divano, insiste nell'intrecciare occasioni d'incontro con le altre famiglie, con conoscenti nuovi o di vecchia data che siano.
Foto by Leonora

sabato 2 ottobre 2010

Il piano inclinato


Guardo "Ombre rosse" di John Ford, un film western che mi faceva impazzire quand'ero bambino. Lo rivedo ora e penso che - essendo stato girato nel 1939 - è più vicino all'epoca in cui è ambientata la vicenda (con cow-boy, indiani, dilegenze, fucili Winchester e tutto il resto) che a quella attuale. Allora, visto nel televisore Mivar in bianco e nero che si accendeva grazie a un trasformatore pesante, rumoroso e grigio, sembrava un prodigio della modernità, ora è esso stesso un reperto storico. In quegli anni mi pareva che tutto fosse immortale, che la storia umana, che l'intera creazione universale esistesse solo per dare compimento al bimbo che ero, principio senza fine di tutto. L'esatto opposto di quanto credo adesso, avvertendo fisicamente la sensazione che tutto muta e che in quest'enorme e pur spettacolare ruota che gira, nulla si conserva, né i pensieri, né le opere e neppure la memoria. Tempo. E' solo questione di tempo e ogni cosa finirà, tutto verrà cancellato. Non è un pensiero triste. Ammetto anzi che la qual cosa mi consola, perché toglie l'ansia di rimanere aggrappato sul piano inclinato, di lasciare impronta di sé più a lungo di quel paio di generazioni che seguiranno. Anche se fossero dieci, cento, mille, arriverà sempre l'ora in cui il tempio in tre giorni verrà distrutto.

Non c'è speranza allora? No, tutt'altro. Perché spesso le apparenze ingannano.

Foto by Leonora