sabato 18 dicembre 2010

La vita Felice (o Sulle spalle dei giganti - 2)


L'ho appena accompagnato alla macchina ed è stato uno stupendo regalo di Natale. Oggi è venuto a trovarci Felice, storico "rutamàtt" di Guanzate. "Rutamàtt" (rottamaio, per i diversamente lombardi) gli calza a pennello ma è riduttivo: ha tre tir, un capannone grande quanto due campi da calcio, gru, camion e mezzi vari con cui commercia rottami metallici.

Felice è un uomo mite, che ha cominciato a lavorare sodo quand'era ancora un ragazzino. L'ho conosciuto perché tra i suoi clienti c'erano anche Ambrogio e mio padre: loro si occupavano del dettaglio, lui dell'ingrosso, portando in ferriera il tutto. Quando d'estate salivo sui camion e entravamo nel suo magazzino, per scaricare i cassoni, si scambiava sempre qualche chiacchiera, in genere in tono di scherzo, ma anche seriosa. Ricordo che avrei voluto stare lì, ad ascoltare per ore, ma il lavoro veniva prima di tutto e rendeva asciutto il contorno. A gennaio Felice Luraschi avrà sessantacinque anni. Quando lo vidi per la prima volta ne aveva una trentina meno, ma aveva gli stessi occhi seri, poche parole, modi spicci e quella risata improvvisa da bimbo che scopre il dolce nascosto dietro e piatti, nella credenza. Oggi mi ha raccontato cose che non avevo mai saputo. Che era molto bravo a scuola, con memoria d'elefante e passione per lo studio. Dopo le medie, che negli anni Cinquanta erano già un lusso, voleva fare il liceo classico, ma il padre gli disse: "Non c'è qualcosa di più rapido?". Scelse l'istituto tecnico setificio, spegnendo senza una lacrima il sogno di diventare medico. Tre mesi dopo, la vita svoltò di nuovo. Suo zio, a quarantacinque anni, restò secco mentre caricava un camion. Infarto. Il padre di Felice rimase solo e non era cosa. Lui lo comprese da solo, andò a scuola ancora qualche giorno, poi restò a casa e disse: "Lì ho chiuso". Un professore andò a casa sua per dissuaderlo, per spiegargli che stava gettando al vento l'occasione del riscatto, lo prese perfino per il collo, scuotendolo. Non cambiò idea. "Sono stato contento così, Giorgio" dice ora guardandomi dritto negli occhi e aggiungendo: "C'era troppa miseria, bisognava dare una mano". Non s'è più fermato, neanche con il diabete che gli ha fatto passare anni in bilico tra questo e l'altro mondo. Ora può permettersi di lavorare di tanto in tanto, quando ne ha voglia. I tre figli e una figlia, insieme agli operai, mettono testa e braccia per lui, che ancora ha il pallino del gioco. Poco fa ha suonato al campanello, lasciando un pacco di Natale, con una bottiglia di spumante e un panettone. Non c'è anno in cui non ne abbia lasciata una simile per noi, sia quando mio padre si era ritirato dal lavoro, sia quando non c'è più stato. Per pudore e paura di disturbare la lasciava ad Ambrogio, mentre quest'anno l'ha fatto di persona e mi ha commosso. "Tuo padre aveva un bel carattere, era una persona di spirito" ha detto parlando a voce bassa, quando ormai era fuori casa e stava per aprire il cancello. "Sono stato contento di essere venuto a trovarlo qualche giorno prima che morisse. Io sapevo dell'infanzia di povertà, che non aveva avuto il papà, dei sacrifici che aveva fatto, eppure mi ha detto: "Felice, io sono stato fortunato, ho avuto quello che volevo, una famiglia, dei nipotini". Sapeva di essere alla fine, poteva lamentarsi della malattia, di doversene andare ancora così giovane e invece vedeva positivo. E' stata una lezione... E adesso basta, che quando lo dico mi viene una cosa, qui, allo stomaco". Una cosa allo stomaco è venuta anche a me, ma dalla contentezza di averlo veduto, perché è grazie alle persone come lui che ricordo che mio padre non è vissuto invano.

Foto by Leonora

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