giovedì 19 febbraio 2009

Alla conquista del West

Potrei girarci attorno mezz'ora, lo scriverò subito: lavorare, sviluppare l'informazione on line mi pare simile a un ritorno ai tempi del West, con i pionieri che lanciavano carri e cavalli nella prateria e mettevano i picchetti, per segnare il territorio e sigillare una conquista.
In queste settimane, in redazione, stiamo ragionando su come offrire un servizio migliore e il bello (terribile, invece, se si è vanesi e presuntuosi) è che i risultati si vedono subito. Posso dare la notizia più bella del mondo ma se la leggono solo in due, c'è un problema. Idem per i video. Il numero dei contatti, la quantità non è tutto, ma aiuta. Aiuta a comprendere e chi non è supponente da non chiudersi a riccio, può imparare praticamente ogni giorno, a cominciare dai propri limiti e errori.

Faccio un esempio, per essere chiaro. Sul sito de La Provincia mettiamo dei video. E' un piacere affinare praticamente ogni giorno questo aspetto, come credo facciano i designer di auto nella galleria del vento.

Prima li abbiamo messi "nudi e crudi", poi abbiamo deciso di mettere in testa un fotogramma del video e non una sigla, perché altrimenti sembrava sempre lo stesso video, poi abbiamo aggiunto l'icona "play" perché sembravano una semplice fotografia, poi li abbiamo pubblicizzati anche con altri mezzi (mettendo un rimando sul giornale di carta, ad esempio), poi li abbiamo linkati a una notizia, tra qualche giorno li collocheremo in uno spazio più ordinato e congruo... Passo dopo passo, insomma. E fonte di soddisfazione incredibile è la scoperta di come, ad ogni passo, corrisponda un miglioramento anche nei numeri, un gradimento in chi entra nel sito, di quanti considerano l'offerta web del giornale un buon servizio.

P.S. Lo scrivo qua, perché credo fermamente nella concorrenza come massima forma di collaborazione e sono convinto che, proprio come nel West, la prateria sia immensa e invece della lotta per un pezzetto di terra sia questo il tempo dell'aiuto reciproco tra coloni di buona volontà.

P.S.S. L'ultimo esperimento, di quella sorta di spontaneo laboratorio d'idee che s'è creato, è questo: abbiamo realizzato un'intervista al cantautore comasco Davide Van De Sfroos; l'intervista è stata divisa in due parti; la prima è stata messa on line e semplicemente pubblicizzata attraverso il giornale di carta, con spazi di pubblicità veri e propri; per la seconda (messa on line oggi) invece, abbiamo deciso di scatenare la potenza di fuoco del passaparola via web, oltre a mettere anche un articolo sul giornale. Alla fine tireremo le somme e riferirò.

Foto by Leonora

mercoledì 18 febbraio 2009

Mettiamo giacche


Ho molti appunti che ripeto a memoria, per timore di scordarli e a cui mi piacerebbe dedicare un post. Prima però volevo raccontare una cosa urgente, di cui porto notizia da mesi ma che per la prima volta ho realizzato oggi.

Stasera infatti ho incontrato la crisi. Sì, la famosa crisi di cui tutti parlano, noi giornalisti per primi, lo tsunami economico che viene da lontano (dall'America, persino) e i cui venti, le cui alte maree sono state annunciate a lungo. Gli effetti li registriamo ogni giorno. Aziende che chiudono, scenari cupi, cassa integrazione massiccia, previsione fosche, incertezza per il futuro... Tutto ciò, tuttavia, era l'eco di un rumore lontano. Sì, qualche ditta ha chiuso, ma ce ne sono altre che funzionano. Sì, qualcuno è rimasto senza lavoro, ma c'è la cassa integrazione. Sì, i prossimi mesi si annunciano duri, ma c'è una fine per tutto e sarà solo questione di tempo, basterà tirare un po' la cinghia e trattenere magari il respiro. Cose che passano insomma...

Stasera però, terminata la riunione a scuola, per consegnare le pagelle, mi ha fermato un amico. Un caro amico, pakistano, gran lavoratore (uno dei più grandi lavoratori che conosca), che ha sei figli ed è venuto in Italia vent'anni or sono e che qui ha realizzato il suo sogno, comprando casa, pagando un mutuo.

"Giorgio - mi ha detto - se senti qualcosa, qualcuno che cerca lavoro, dimmelo, perché da settimana prossima sono a casa, la ditta chiude e con la cassa integrazione e basta io non vivo".

"Mi spiace" sono le uniche parole che gli ho detto, che sono stato capace di dirgli. Lui mi ha sorriso, d'un sorriso buono, unico, e ha continuato. "E' tanto tempo che cerco, ma non c'è niente. Hanno lasciato a casa anche mio figlio (suo figlio studia all'università ed è bravissimo, nonostante lavorasse già part-time) ".

Sono state però le ultime due cose che mi ha detto a lasciarmi sconcertato, sgomento. Le due cose sono queste: "Giorgio, dimmi anche se cercano lavoro per una ragazza, magari in un bar o dappertutto. Mia figlia fa la prima superiore ma non ce la facciamo e piuttosto che far smettere mio figlio, che ha soltanto tre anni per finire l'università, meglio che lasci lei. E' dura, Giorgio, è dura. Pensa che non accendiamo da due mesi il riscaldamento: mettiamo giacche".

Non sorrideva più, quell'amico, mentre lo diceva, ma l'ombra gli è passata subito ed è tornato l'uomo cortese e positivo, pieno di dignità che ho sempre conosciuto e che per me è sempre stato un esempio e che stasera mi ha fatto capire che la crisi non è solo una parola che scriviamo noi, sui giornali, ma un fatto vero, un sacrificio vissuto.


Foto by Leonora

mercoledì 11 febbraio 2009

Sette premesse


Ci sono temi su cui non sono preparato e che preferisco non affrontare. La vicenda di Eluana Englaro è uno di questi. Tuttavia vorrei elencare qua (semplicemente elencare) quattro o cinque cose che costituiscono non tanto la conclusione di un giudizio, bensì la sua premessa.

Primo: la Chiesa non parla tanto per parlare

Secondo: le ragioni della Chiesa sono assai più complesse di quanto solitamente venga riportato sinteticamente

Terzo: i politici quasi sempre parlano tanto per parlare

Quarto: speculare (vedi cos'è accaduto in parlamento e, più in generale, in tutte le trasmissioni televisive) su una vicenda etica così complessa è vergognoso

Quinto: la questione è etica (perciò con possibilità di opinioni trasversali agli schieramenti) e non politica

Sesto: prima di esprimere un giudizio, bisognerebbe domandarsi: "E se Eluana fosse mia figlia, mia madre, mia sorella"?

Settimo: nessuno poteva volere il bene di sua figlia più di Giuseppe Englaro

Ecco, per me il confronto, ogni confronto su questo tema, parte da qui. Per il resto non ho risposte, ma solo una domanda aperta...
Foto by Leonora

sabato 7 febbraio 2009

Vecchi pregiudizi e nuovi miserabili


Oggi parlavo con un'amica (un'amica davvero in gamba, ma non scriverò chi è, perché poi dice che esagero con i complimenti) della delusione di chi ha votato Pd e vede dilapidato nella sciatteria un atto di fiducia. Ci ho ripensato dieci minuti fa, quando sulla copertina de L'Espresso, dedicata alla brutta figura complessiva degli euro parlamentari italiani, compariva tra gli altri Achille Occhetto. Era un fotomontaggio, d'accordo, però mi domando: cos'è rimasto di quel signore che alla Bolognina ha chiuso, in sincere lacrime (sincere parevano a me, almeno) una storia politica lunga una vita? Cos'è rimasto di quel gesto, di quell'idealità in chi poi si barcamena a Strasburgo per trenta cinquemila euro al mese? Chiunque ponga una domanda come questa viene bollato di qualunquismo, eppure non è un quesito accessorio. Cosa resta di un'aspirazione di giustizia sociale, libertà, eguaglianza in Bertinotti, Ferrero, D'Alema, Nicky Vendola... Forse non saranno gente da salotto (Bertinotti è almeno da soggiorno...) però a mio parere i poveri cristi gli fanno schifo. E per poveri cristi non intendo il senzatetto o l'immigrato o il disadattato, bensì quelli che prendono milleduecento euro al mese e ne spendono milleduecento comprando le cose al Bennet e ingozzandosi al McDonald e maledicendo il disadattato, l'immigrato e il senzatetto... I poveri sono un film che questi signori (e anch'io, purtroppo) pensano sempre medesimo a sé stesso e invece è cambiato e non abbiamo più lo stomaco per accettarlo. Parliamo di poveri, non li conosciamo. Con buona pace di Gaber, non esistono più luoghi dove barbera e champagne vanno a braccetto. Il barbera è un vino nobile, mentre qui si tratterebbe di adattarsi al Tavernello. E' il motivo per cui la Lega va a gonfie vele, perché non hanno la puzza sotto il naso e se c'è odore di sudore tanto meglio.
P.S. Non sono mai stato comunista, né leghista.
P.S.S. Mi è assai piaciuto il richiamo al valore della sobrietà che ha fatto il cardinale Tettamanzi, la cui diocesi ha istituito un fondo di solidarietà a favore delle "persone e famiglie in difficoltà". Persone e famiglie. Non solo uomini, solo donne, solo italiani, solo immigrati, solo sposati, solo divorziati, solo etero, solo omosessuali... "Persone e famiglie"... Ricordo a memoria la frase con cui monsignor Bienvenu Myriel, vescovo di Digne, ne "I miserabili" accoglie Jean Valjean: "Questa porta non chiede a colui che entra se ha un nome, mase ha una sofferenza".
Mi piacerebbe, una sera, chiacchierare con il mio amico Luigi Nalesso, che lavora alla Caritas di Como. Mi piacerebbe "ascoltare" di poveri...
Foto by Leonora

giovedì 5 febbraio 2009

Stuart 87


Chi segue Facebook lo sa e non la farò lunga col preambolo: due domeniche fa, mentre metà era ko con l'influenza, ho convinto Giorgia ad andare alla mega tombolata in paese. Con un teatro strapieno, lei è riuscita a vincere il primo premio: un criceto con tanto di gabbia, scalette e mezzo chilo di mangime annesso. Ho pagato care quelle due ore di libertà che mi ero ritagliato, ma non è questo il punto. E neppure la tenerezza di mia figlia (nove anni proprio oggi) che, quando le ho chiesto di raccontare cos'era successo, mi ha detto: "Papà, mi mancava un numero, l'ottantasette e io ho pensato tra me e me: tanto non uscirà proprio l'ottantasette... e mentre lo pensavo ho sentito che al microfono dicevano: Ottantasette!". Mi ha fatto sorridere... Comunque lo abbiamo portato a casa, il criceto, e assomigliando a Stuart Little ed essendo stato vinto alla tombola con quel numero, lo abbiamo chiamato Stuart 87.
Fin qui, poco di nuovo.
Ciò che volevo raccontare, invece, è la mia vita col criceto. Sì, perché Isabella lo guarda di sottecchi e già tre volte mi ha detto: "Dai, è un topo. Non possiamo farlo stare sul balcone, come facciamo con il canarino!". I bambini, invece, dopo la curiosità del primo giorno non lo filano proprio, almeno non quando sono in casa io (vabbé, è poco, lo ammetto). In ogni caso, col criceto ci parlo solo io. Sì, ci parlo. Perché dovreste vederlo quant'è tenero. E io, che pur non ho mai voluto animali, specialmente in casa, ora non riesco a ignorarlo. Ha un bellissimo musetto, e quando gli parli annusa tutta l'aria attorno (non muore, dunque dovrebbe essere tutto ok con l'alito) e poi inclina la testa e ti guarda con quegli occhietti scuri, tra il diffidente e il curioso. Tra l'altro, credevo che i topolini sono simpatici poiché siamo condizionati da settant'anni di fumetto: ora penso l'esatto opposto e cioè che Walt Disney ha scelto non a caso quell'animaletto, perché sa essere proprio delizioso.
Bene, da due settimane pulisco la gabbia di Stuart, gli do dà mangiare, da bere e oggi, prima di andare al lavoro, abbiamo fatto anche le pulizie di primavera, nel senso che ho smontato la casetta dove si rifugia e l'ho lavata per bene, tenendolo nel frattempo in mano. E poi lo osservo. Il secondo giorno credevo fosse malato: non usciva dalla casa, dormiva sempre, pareva rintronato. "Dovrà ambientarsi", ho pensato. Invece Olivia Piro, che mi segue su Facebook, mi ha illuminato, scrivendo che in questa stagione i criceti tendono al letargo. Infatti Stuart dorme tutto il giorno e esce solo di rado, specialmente a quest'ora, quando si diletta a mordere il ferro della gabbia, facendo un gran baccano, tipo una vecchia macchina da scrivere mentre i tasti battono sul tamburo. E poi sposta le scale, andando avanti e indietro (lo sento ora, di là, che sta trafficando). Ad ogni modo, quando gli do da mangiare si abbuffa di semi, ne mette una gran quantità in bocca, li porta in quella che considera la sua tana ( la casetta) e li accumula, facendo anche sei o sette viaggi, avanti e indietro. Poi, una volta fatte le provviste, si raggomitola su se stesso e s'addormenta. Per ora ho notato questo. Volevo tenere una sorta di diario quotidiano su FB, una sorta di Tamagotchi vivo e vegeto, ma ho desistito: ho scoperto infatti che scrivendo del criceto si ottiene lo stesso effetto di portare a spasso un bimbo piccolo: tutti ti chiedono, s'interessano e invece della condivisione di un "prendersi cura", pare l'esca di un broccolare a buon mercato.
Foto by Leonora

lunedì 2 febbraio 2009

Neve (e Ninive)


Cade la neve e in redazione si discute di bus senza catene, di spazzaneve che non si sono visti, di previsioni meteo e di polemiche. Stamattina io dovevo uscire, perché avevo preso un impegno e se fossi rimasto a casa mi sarei roso il fegato. Tutti gli altri invece sono rimasti sotto le coperte. Motivo? Sono cambiati i tempi. Quand'ero piccolo, non c'erano storie: se nevicava ci si alzava presto e se le macchine non potevano circolare, si andava a piedi, accompagnati dai genitori. Al mio paese molti ricordano certe maestre che abitavano sul lago e anche quando scendevano quaranta centimetri di neve, si presentavano in classe regolarmente o, al massimo, in ritardo di mezz'ora. Una volta, quando andavo al liceo, sono andato da Lurate a Olgiate a piedi (trovando sulla strada il mio compagno Marco Tettamanti, che veniva da Villa Guardia) ed era la cosa più normale del mondo. Non è più così. Il principio è cambiato e andare a scuola e perfino a lavorare è diventato un optional. Colpa nostra, che siamo diventati lassi (mi piace questa parola: lasso). Io per primo, che mi sono alzato e sono partito, ma ho fatto dormire i miei figli. Prima di Natale, infatti, con un'altra nevicata simile, chi era andato a scuola è stato fatto tornare a casa e così, questa volta, per non saper né leggere né scrivere (espressione quanto mai azzeccata...) ho deciso che era inutile rischiare.

Ora, mi chiedo, tutto ciò è un processo inarrestabile o potremo tornare ad essere un paese in cui le regole sono regole e le eccezioni eccezioni? L'eccezione per me è un metro di neve. Facciamo pure ottanta centimetri. Settanta? facciamo settanta. Comunque tanta. Altrimenti, scuole aperte. Che poi si svolgano lezioni regolari é un altro discorso, ma un conto è arrendersi in partenza, un conto sapere che verrà fatto tutto il possibile per garantire il servizio scolastico. Lo stesso vale, non mi sembra neppure il caso di precisarlo, per chi va al lavoro. Altrimenti, altro che crisi... Da lasso a lesso (cioè bollito) il passo è breve e seppur diffido di una società spartana, temo maggiormente gli ozi e i vizi di Ninive...

P.S. Tra l'altro, le giornate a scuola mentre fuori nevicava erano le più belle. Un po' perché si immaginavano già i giochi per il pomeriggio, un po' perché il clima in classe era per di più quieto, senza interrogazioni e neppure spiegazioni troppo impegnative. Così l'effetto ottenuto era duplice. Primo: si educava al senso del dovere (a scuola ci si va comunque). Secondo: il dovere era ripagato da una sorta di piacere.
Foto by Leonora