lunedì 30 aprile 2012

Lo spazio vitale (Sta sù de doss)

Ho bisogno dei miei spazi altrimenti soffoco. Leggere un libro senza nessuno attorno. Camminare sulla spiaggia per tre ore senza rendere conto ad alcuno. Dormire, fino a mezzogiorno e poi alzarmi e tornare ancora a letto. Stare la sera dopo le dieci da solo sul divano. Fare un complimento senza pensare a un tornaconto, soltanto per il piacere di farlo. Dire cose mie segrete a gente che conosco pochissimo o da pochissimo. Mangiare la Nutella senza esser visto. Leggere il giornale mentre ceno. Guardare le gambe delle donne, mica sempre ma ogni tanto. Ascoltare musica con il volume a palla, sotto la doccia o mentre mi rado. Rimanere al buio e con le cuffie dell'iPod per non essere disturbato quando la Juventus perde (d'accordo, quest'anno non è mai capitato, però un paio di volte l'ho fatto lo stesso, restandoci male per un pareggio). Scrivere al computer nel più completo silenzio. Guardare alla tv telefilm violenti, tipo Board Walk Empire o i Soprano. Girare canale anche se c'è Zelig, quando mi annoio. Bere una Sprite ghiacciata o una Coca Cola o anche semplicemente dell'acqua naturale (Sprite e Coca Cola però sono meglio) in piena notte, quando la sera prima ho divorato una pizza e mi sveglio di soprassalto con un arsura che neanche nel deserto del Gobi la sentono. Camminare a zonzo per le località di villeggiatura, lasciando Isabella e i bambini in albergo o in appartamento o nel bungalow. E un'altra mezza dozzina di circostanze che ora dimentico o che ricordo ma sono troppo pavido per elencarle nel dettaglio.
Perché è vero che la felicità è autentica solo quando si condivide, come ho scritto ieri, ma pure un santo ha bisogno del proprio spazio vitale, figuriamoci io.
P.S. Mentre scrivevo questo post, pensavo che in dialetto milanese esiste una frase, un motto, un intercalare persino, proprio per trasmettere il bisogno di rimanere solo, ogni tanto, e più ancora di non restare invischiato da un eccesso di vicinanza: "Sta sù de dòss". Cinico ma talvolta necessario.

Foto by Leonora

domenica 29 aprile 2012

La tua felicità è la mia (dividendola si moltiplica)

L'ho letta un paio di giorni fa, dipinta su un muro, ma ero certo di essermela appuntata anch'io e infatti l'ho ritrovata, in uno dei sette pensieri scritti nel marzo del 2009. "Happiness is real only when shared". La felicità è autentica soltanto se è condivisa.
Mi frulla in testa in questi giorni di ponte, in cui prenderò il giorno di vacanza che ho rimandato a Natale e che potrebbero essere serenissimi se altri cieli, accanto al mio, non fossero scuri di nubi e tempesta. Troppe le storie di crisi, i nomi, i cognomi, i volti delle persone che conosco, a cui voglio bene, e che hanno perso in questi mesi il lavoro, senza trovarne un altro, dovendo fare i conti sapendo che non tornano. Anche ieri, mentre eravamo a pranzo, ho saputo che il papà di un'amica di Giulia è stato lasciato a casa. Facevano già i salti mortali prima, immagino, visto che aveva un impiego lui solo e ora immagino con che peso andranno a letto, sapendo che il buco della cintura è sempre più stretto. Chiudo gli occhi, ripenso a quanti conosco e che sono in qualche modo in mezzo al guado. Chi non viene pagato da tre mesi, chi non prende i soldi della merce che ha venduto l'anno scorso, chi è in cassa integrazione, chi è stato lasciato a casa dall'oggi al domani e punto. Ripenso alla fortuna che ho, nell'avere un buon posto, ben retribuito (senza contare ciò che più conta, cioè l'essere apprezzato). E' vero, da quando ho cominciato questo mestiere ci sono stati alti e bassi e i bassi hanno sfiorato il logoramento, quando mi sentivo stretto in gabbia, soffocato. Però a fine mese lo stipendio veniva accreditato e anche se non era da nababbo (sui mille e seicento euro al mese) mi consentiva di vivere sereno. Ora, ho saputo dai miei ex colleghi della tv, la situazione è grigia anche lì e tra contratti di solidarietà, ferie forzate e cassa integrazione si barcamenano, sperando in tempi migliori e cercando di non andare tutti a fondo. E io mi sento piccino piccino al loro confronto, quasi non meritassi tanta fortuna, pur se so che è una ruota che gira e per quanto posso restare in equilibrio, ad ogni alto corrisponde sempre un basso: è solo questione di tempo.
Seguendo i miei pensieri sono uscito dal solco che avevo all'inizio tracciato. Ci torno svelto, per dire che non esiste godimento pieno dei propri privilegi e tanto meno felicità se le persone che dicevo prima, quelle che conosco, a cui voglio bene, non lo sono altrettanto. Non è un caso se i politici del dopo guerra hanno attuato politiche di redistribuzione del reddito. Una scelta egoistica più di quanto appaia all'occhio disattento. Anche il ricco, infatti, trae beneficio da una società dove la differenza tra lui e il povero non è abissale, non crea un varco insormontabile, profondissimo. Avere milioni di dollari o di euro ed essere costretto a girare con la scorta o ad abitare in villaggi protetti da guardie armate fino ai denti (come avviene in molti paesi del terzo e anche del secondo mondo - perché anche se nessuno lo definisce mai un "secondo mondo" deve pur esistere visto che c'è il terzo mondo e anche il quarto) è meno allettante rispetto ad avere in banca un conto più striminzito ma poter girare sicuri, non essere definiti soltanto come un bersaglio. Come ben sapeva Christopher McCandless, la felicità è autentica soltanto se è condivisa. Lo stesso mi pare valga per la fortuna, per il lavoro, per la ricchezza: solo dividendole si moltiplicano.

Foto by Leonora

La primavera di Anna (abbracciando Franco e Alessandro Corrado)

Foto by Leonora
Il faggio si sta vestendo a festa ed è uno sbocciare che assomiglia a un botto: ieri era spoglio, domani sarà uno splendore di foglie verdoline e tenere (che in pochi giorni diventeranno scure e coriacee). Un piccolo miracolo che mi riconcilia con la vita, in una settimana spezzata in due dal dolore per una persona cara, che in ventun giorni ha lasciato tutti noi, ma soprattutto la sua famiglia. Anna Maria Derelli era la moglie di un amico. Di più, d'un secondo padre per me: Franco Corrado. Una donna elegante, seria, di poche chiacchiere e zero di quei sorrisi dispensati per un nulla. Si chiamava Anna, come mia madre e come mia madre era nata nel '40, in principio della guerra. Meno d'un mese fa pareva avesse dei calcoli, ma quando il medico l'ha mandata da un suo collega, un luminare, il sospetto che ci fosse dell'altro ha turbato i sonni che precedevano la visita. Ci ha raccontato il marito che alla prima diagnosi, pur se il dottore s'era espresso con somma prudenza, lei aveva compreso subito, prima di tutti gli altri, cosa gli capitava. "Lei crede in Dio?" ha domandato al professore. "Cosa c'entra?" s'è sentita rispondere, inducendola ad aggiungere: "No, non dubito della sua abilità, però a questo punto sono nelle mani di Dio e io credo molto in Santa Rita", poi, in silenzio, ha abbassato le palpebre e per un lunghissimo istante è rimasta così, finché lo stesso medico s'è sentito in dovere di aggiungere: "Ma signora, non faccia così, è soltanto un'operazione, non pianga". E' stato in quel momento, tornandolo a guardare dritto, che lei ha risposto: "Non sto piangendo dottore. L'ho fatto pochissime volte in vita mia. Ho solo chiuso gli occhi, pensando che l'unica cosa che mi dispiace è di non poter veder crescere la mia Barbara". La nipotina. Sorella di Luca, figlia di Alessandro, a suo volta figlio di Franco e Anna.
Franco Corrado mi ha raccontato queste cose con una tranquillità speculare al dolore, calmo e posato come l'ho sempre visto, perfettamente rasato, profumato, vestito elegante. "Mi sono alzato stamattina alle cinque - mi ha detto - e ho fatto tutto come se ci fosse ancora lei, perché so che così voleva. Pensa che mi ha lasciato sei cravatte già con il nodo fatto e i vestiti da mettere. Ha preparato anche la sua ultima partenza". Volevo abbracciarlo, dirgli che mi dispiaceva, che gli ero vicino. Non c'è stato bisogno: anche senza dirlo, lui lo sapeva. Lo sa.
Anche con Alessandro ho parlato qualche minuto e mi ha commosso anch'egli, raccontandomi delle ultime parole che ha scambiato con la madre, poco prima che morisse, proprio come ho fatto io con mio papà. Un sciogliere i nodi che allevia la lacerazione del distacco, che mette pace dove prima era angoscia, sassi a punta sotto i piedi, bufera.
Lo scrivo qui, perché voglio conservarne memoria, esattamente come per il faggio, che ogni autunno muore e a primavera risorge, ribollendo chioma. In attesa che venga primavera anche per Anna, per mio padre, per tutte le persone con cui ci siamo salutati un'ultima volta e per quelle che saluteremo, quando verrà il nostro autunno e saranno altri ad attendere, per noi, primavera.

domenica 22 aprile 2012

Il peso (lieve) dei giorni


Foto by www.lyonora.it
I giorni si contano, ma i giorni anche si pesano.
Ci ho pensato stamattina, mettendo sulla bilancia i miei quarantasei anni con gli ottant'otto dello zio Emilio, il fratello di mia nonna materna. Io, rispetto a lui, nel numero sono a mezza strada, però in fatto di qualità il distacco è molto meno ampio.
Mettiamoli sulla bilancia, allora, questi benedetti anni, mesi, giorni.
Io fino a ventisette anni ho studiato, fatto il militare (venti mesi di servizio civile, per essere preciso), collaborato come giornalista portando a casa soldi, pur se non un vero stipendio, fatto vacanze di gruppo (quelle dell'oratorio, senza nessun Daccò che mi pagava yacht privati e resort di lusso, ma pur sempre giorni spensierati e di svago quasi assoluto), fatto l'animatore, goduto di tantissimo tempo libero, passato generalmente in tre modi: in compagnia degli amici, guardando la tv, leggendo libri.
Mio zio Emilio a dieci anni, l'età attuale di Giovanni, il mio terzo figlio, è andato a lavorare come garzone dal fabbro del paese, dieci ore al giorni, fiacche e calle sulle mani, caldo d'estate e gelo d'inverno, senza prendere un centesimo, perché dovevi già dire grazie che ti tenevano lì, imparando un mestiere a calci in quel posto. A quattordici è entrato in vetreria, sempre dieci ore anche se pagato, al reparto officina, ragazzo di bottega con pochissimi diritti e un dovere solo: stare zitto e lavorare sodo. A diciott'anni è stato arruolato e una settimana dopo il giuramento caricato su un treno che lo ha portato in Germania, in un campo di lavoro, che nel caso specifico non l'ha fatto libero, bensì quasi ammazzato. Lo hanno salvato delle patate crude che in spregio al pericolo aveva nascosto sotto terra e d'inverno, quando da due giorni non metteva nulla sotto i denti, con le dita senza unghie ha disotterrato e divorato poco per volta, quasi fosse un banchetto fastoso. Al ritorno a casa ancora lavoro, quarant'anni di settimane tutte uguali, una dopo l'altra, con unici vizi il sabato e la domenica pomeriggia in cooperativa, per giocare a carte, e due settimane di vacanze al mare, in pensione, ma mica sempre, cinque o sei anni in tutto. Poi l'infarto, la paura di morire, il lento ed inesorabile ritirarsi nel proprio mondo privato, dove l'orizzonte è quello dei propri acciacchi e non importa nulla o poco di tutto il resto. Quanto a me, dopo gli studi ho trovato lavori di gran soddisfazione, le vacanze fatte regolarmente, gli svaghi e gli amici in abbondanza, con i pensieri sì, ma pure la possibilità di affrontarli scegliendo la mia strada, il mio mondo.
Siamo figli di generazione fortunata, nati senza conoscere alcuno stento e con l'ambizione di potere fare tutto. Vorrei che i miei figli possano dire lo stesso, fra trenta, quarant'anni, ma non ne sono così certo.

domenica 15 aprile 2012

Qualcosa è guadagnato

Mia cognata Manuela dice che è colpa della moda, dei vestiti, delle pettinature che si portavano. Non so, può darsi, di certo c'è che ieri sera a casa di Raffaele e Rosy m'è capitato di guardare le fotografie di quando eravamo ragazzi e mi sono accorto che da allora sono ringiovanito un sacco. Nonostante le rughe in più e i capelli in meno. Avevamo vent'anni ma ne dimostravamo almeno venti più di adesso. E non mi riferisco soltanto al sottoscritto. Lo scrivo per tutti coloro che appartengono alla mia generazione: non rinnego nulla di ciò che è stato, ma per giustificare certi vestiti, certe capigliature, certi portamenti ci vuole del fegato. Vogliamo parlare dei calzoni a vita alta, che pure Fantozzi sarebbe impallidito? O le spallotte modello giocatore di football americano? E le permanenti a criniera di leone, con boccoli e riccioli montati a neve?
Ci sono poi dettagli che avevo rimosso e che rivisti ora meriterebbero l'esclusione dal circolo civile senza appello. D'estate, al mare o al lago, portavo magliette tagliate che coprivano soltanto le spalle e la parte superiore del petto. Dovevo averle viste indossate in qualche film di Matt Dillon e detestando le spalle abbrustolite e rosse paonazze per il sole le avevo adottate con somma soddisfazione. Sono andato avanti tre o quattro anni così, senza sospettare minimamente quanto fossi ridicolo e ieri che mi sono rivisto sarei voluto sprofondare, rifugiarmi in un angolo buio e isolato. Altro che giovinezza perduta, altro che rimpianti per il passato: io, in me stesso, sto meglio adesso e a giudicare dall'aspetto sono assai più gradevoli, curate, belle (tanto per continuare il discorso iniziato ieri) quasi tutte le donne che conosco oggi rispetto alle ragazze che erano un tempo. Non tutto insomma è perduto. Nonostante l'età, qualcosa è guadagnato.

Foto by Leonora

sabato 14 aprile 2012

Mi piacciono le donne

Mi piacciono le donne con i tacchi. Non a spillo, non a mo' di trampoli, semplicemente alti, belli, importanti ("importante" è un aggettivo che ho letto sulle riviste femminili e ho capito che significa "grande ma sia detto senza offendere"). Mi piacciono le donne in genere, quelli con i tacchi di più. Detesto invece le "ballerine" (le scarpe, non le danzatrici), che mi rendo conto essere la massima espressione di comodità, eppure esteticamente mi fanno perdere la poesia, fosse anche quella di Kavavis o del buon Pablo Neruda, pace all'anima sua e dell'estate che aveva dentro. Una volta non ero così: mi piacevano anche le ragazze che indossavano le ballerine. Poi i gusti cambiano, cambio anch'io, e non sempre me ne vanto. Mi piacciono le donne semplici, ma curate. Non so perché sono entrato in una questione estetica spinosa quanto i rovi del prato avanti casa, dev'essere il retaggio d'un pensiero dapprima incosciente e poi rielaborato nel sonno, questa notte. Non ne conservo memoria, solo una sensazione. Mi piacciono le donne con i tacchi e quelle che sorridono, che non parlano per nulla, che sanno cosa dicono, che colgono il meglio di te senza detestare il peggio, sapendo che coesistono entrambi, che siamo metà angeli e metà demonio. Mi piacciono le donne e anche i maschi, pur se i maschi non li sfiorerei con un dito e con loro ho meno confidenza, non riesco ad avvertire alcun magnetismo, all'opposto di quanto avviene con l'altro sesso. Mi piacciono le donne anche se in questa fase della vita sono tranquillo, serenamente sposato (direi felicemente, ma mi viene in mente che "felicemente" è avverbio di peso e che come ho scritto nel post precedente la felicità perfetta non esiste, se non per un momento a cui - se si è fortunati - se ne aggiunge un altro e un altro ancora, possibilmente all'infinito). Mi piacciono le donne che mi prendono così come sono e quelle che mi fanno cambiare, piano piano, possibilmente in meglio. Mi piacciono le donne con i tacchi e di basso gradisco soltanto le infradito, al mare. Mi piacciono le donne a cui piace il mare, la spiaggia, la pelle salata, il sole al tramonto, l'odore di crema solare, la doccia la sera e i capelli bagnati, che con il caldo si asciugano e profumano di balsamo. Non so se mi sono mai innamorato. Amato e amante sì, ma d'un amore ch'è moto a luogo, senza pianoforti che suonano o sospiri e incanto. A volte, me ne rendo conto, mi sono innamorato dell'idea di innamorarmi, ma non è la stessa cosa: la differenza che passa tra il pensiero e il corpo, l'essenza fisica di ogni essere umano. Mi piacciono le donne e a loro chiedo scusa, se qui ne ho scritto a briglia sciolta, senza pensarci troppo. Con il tempo sono diventato meno malizioso e più romantico, l'animale c'è tuttora ma dorme, d'un sonno leggero. Il medesimo sonno zeppo di sogni che ho avuto stanotte, tornato dal lavoro ch'era quasi l'una e abbuffato di fragole al limone, conigli di cioccolato, patatine e un Bacardi Breezer ai frutti di bosco. La prossima volta, giuro, scaldo una tazza di brodo, dormo quieto quanto un bimbo e il giorno dopo scrivo di siepi da tagliare, libri da leggere, gite e passaggiate da fare, con scarpe comode, senza tacco.

Foto by Leonora

sabato 7 aprile 2012

Frammenti di felicità

L'ho scritto l'altro giorno, per il compleanno di Sabrina. Più passano gli anni e più mi convinco che una felicità continua non esiste. Esistono dei momenti di felicità e conservarne la memoria, chiudere gli occhi ogni tanto e sentirli tanto vicini da riviverli, è un dono che non ha prezzo, che vale una vita. Alcuni di quegli istanti li conservo per me, li coccolo persino, contento di riviverli pure quando fanno diventare lucidi gli occhi e riaprono una ferita. Altri riaffiorano sorprendendomi, risorti da chissà quale sepoltura, in letargo per mesi, anni e poi visibili, anche se come da un vetro smerigliato, che fa perdere i contorni, non la sostanza. Altri ancora li fotografo in diretta, specie in questi giorni, in cui l'idea dei momenti di felicità perfetta mi ronza per la testa. L'ultimo è stato ieri sera, mentre finiva un film d'azione e l'intera famiglia era assorta nella trama, chi sul divano, chi seduto sul parquet, per terra. Un paio di settimane fa m'è capitato di fissarlo mentre avevo in mano un Martini rosso e la città attorno era un quadro e il sole scaldava e illuminava a meraviglia. Stamattina invece è stato quando ho finito di tagliare il prato e gocce di pioggia cominciavano a cadere, nel silenzio più totale, profumo di erba tagliato e fiori di magnolia. Me ne sono stato lì, per un minuto o due, consapevole che era un intervallo e che passava, deciso però a imprimermelo in testa, non per farne scorta - perché non esiste un deposito per le sensazioni che si provano e che quando passano non sono niente e anche il ricordo al confronto è soltanto una pallida ombra - bensì con la consapevolezza che in quel frammento di felicità era contenuto l'annuncio di una felicità assai più grande, incomprensibile a noi mortali, assoluta, eterna.

Foto by Leonora