sabato 30 novembre 2013

Valeria

Foto by Leonora
Dico sempre che ci sono sottili fili rossi che ci uniscono alle persone: alcuni li seguiamo passo passo, di qualcuno non ne veniamo mai a capo, altri vanno e vengono, altri ancora rimangono sotto traccia mesi, anni, per poi riannodarsi all'improvviso. Com'è capitato con Valeria, che non vedevo da un sacco e con cui neppure mi scrivevo. Eppure avvertivo la sua presenza, discreta, costante, quasi una mano sulla spalla che mi accompagnava e che potevo distinguere in piccoli gesti, moderne briciole di pane lasciate sui sentieri dei social network.
Ho rivisto Valeria l'altro giorno, tale e quale a come la ricordavo, forse con una luce diversa negli occhi, ma sempre spigliata, indipendente, decisa a non restare indietro un passo, una di quelle donne che apprezzano le galanterie ma a patto che il rapporto alla pari non sia pregiudicato.
Valeria fa il mio lavoro. Non questo, l'attuale, bensì quello che ho fatto prima di diventare giornalista, e che in fondo non ho abbandonato mai, perché non si fa l'assistente sociale ma si è assistente sociale sempre, dentro, ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all'anno.
Anche su questo abbiamo scherzato, bevendoci uno spritz e raccontandoci a voce il riassunto delle puntate precendenti, ciò che ci siamo persi nel frattempo, dagli affetti alla professione, dalle passioni ai dubbi esistenziali che distinguono o accumunano.
Stavo bene con lei e il tempo è volato, come sempre capita quando sono a mio agio. Valeria non ha avuto solo rose e fiori dalla vita, i crucci e le delusioni l'hanno scavata senza toglierle la terra sotto, rendendola forse più dura ma anche forte. L'ha salvata e la salva, per sua stessa ammissione, l'ironia, l'autoironia soprattutto, quel modo di guardare a se stessi con lievità, senza darsi eccessiva importanza e smarrire il sorriso.
E mentre era lì, di fronte a me, minuta e in apparenza fragile, le invidiavo la resistenza e la resilienza, la capacità di tornare alla forma originaria dopo esser pressata e strizzata per benino. Tra noi due quella forte è lei. Perciò, per quel che la conosco, Valeria resta per me un modello, un esempio. Volevo scriverlo qui, proprio oggi, nel giorno del suo compleanno.

venerdì 29 novembre 2013

Un secolo, una vita (elogio del tempo attuale, contro tutti i pessimismi)

Foto by Leonora
Giacomo a gennaio compirà diciassette anni e benedico il secolo che ci separa da un altro tempo, da un'altra epoca. Gennaio 1914. Non c'erano play-station né computer, ma questo senza dubbio è il meno. Era la pace che vacillava e nel volgere di pochi mesi l'Europa si sarebbe infiammata in una guerra che un anno dopo avrebbe contagiato pure l'Italia.
Ci pensavo ieri l'altro, mentre leggevo la biografia di Adriano Olivetti, guardando mio figlio sdraiato sul divano ("Gli sdraiati" è l'ultimo libro di Michele Serra, che parla proprio degli adolescenti), quieto e beato, senza neanche quei crucci esistenziali che assillano molti suoi coetanei, sazio di serenità e indolente come lo ero io, alla sua età, ma con la stessa curiosità per le vicende politiche, per lo sport, le amicizie, gli svaghi.
Mi immaginavo il suo trisavolo Giovanni, cento e venti anni prima, o Ermenegildo Bardaglio, il papà di George, appena sbarcato in America, dopo un viaggio infinito in un piroscafo che non somigliava affatto a una nave da crociera, senza sapere una parola di inglese e con scarsissimi quattrini in tasca.
Se fosse nato cent'anni prima Giacomo, il mio Giacomo, tra poco più di un anno sarebbe stato abile e arruolato per la guerra, sarebbe partito per il fronte, lasciando me, sua mamma, sua nonna e i suoi fratelli con un groppo alla gola e un giogo pesantissimo, che ci avrebbe tenuti svegli la notte e si sarebbe dilatato durante il giorno, come un'ombra.
In quella guerra mondiale, la prima, morirono dieci milioni di soldati, moltissimi dei quali poco più che ragazzi. Altri milioni restarono feriti, segnati nel corpo e nello spirito da un'esperienza disumana.
Cosa resta di quel falciare vite con la facilità di una mietitrebbia?
Qualche monumento ai Caduti, alcune lezioni, molte pagine di storia. Nulla tuttavia che mi faccia anche soltanto prendere in considerazione che di morire in una guerra valga la pena. Benedico allora i passi che abbiamo compiuto, le scelte che sono state fatte, i recenti settant'anni di pace e pure la condizione attuale, che può sembrare fosca e grama, ma nella peggiore delle ipotesi non assomiglia nemmeno lontanamente all'inferno che allora cominciava.
Gennaio 1914, gennaio 2014. E' trascorso un secolo non invano. Lo vorrei ricordare ogni mattina che mi sveglio con la luna storta e scuoto il capo sussurrando tra me e me: "Che tempo maledetto, questo della crisi". Per quanto maledetto sia, rispetto a un secolo fa, è comunque sciambola.

sabato 16 novembre 2013

Tutto scorre (God bless America)

Foto by Leonora
Leggo Erodoto e non per tirarmela. Tanto per cominciare, mi piace moltissimo e in più è un "memento homo", un ricordare che tutto è effimero, passa, ciò che è vitale per noi non conta nell'infinità dell'universo più di un battito d'ala della farfalla. Eppure per mille cose mi batto, non dormo, resto inquieto, come se caricarsi sulle spalle tutti i crucci potesse spostare di una virgola il mondo a cui appartengo o determinare in meglio o in peggio il destino. Non la forza tuttavia giova allo scopo, né l'astuzia, la potenza, il denaro. Piuttosto la conoscenza, la saggezza, la fortuna, la capacità di intuire e perseguire le cose che contano, alzando lo sguardo e rallentando, invece di tenere il naso schiacciato a terra e correre come un forsennato.
Un pro memoria personale e anche per il Paese in cui vivo, sempre più diviso, conflittuale, confuso, intimorito. Tutti tratteniamo il fiato, come sperando che alla fine tutto si risolva, i nodi si sciolgano e la vita a cui eravamo abituati torni di nuovo. E' possibile. Può darsi che si tratti di una crisi di sistema profonda ma passeggera, come ce ne sono state molte, nel 1929, nel 1974, nel 1987... Magari invece è un infarto più profondo, l'inizio di uno degli infiniti ribaltamenti negli equilibri del mondo, con la civiltà occidentale giunta al capolinea e l'alba di una nuova era, con tutte le sorprese e le incertezze del caso.
Lapidaria ed efficace in questo senso è la frase che si trova all'inizio delle Storie proprio di Erodoto: "Proseguirò la mia narrazione, trattando delle città degli uomini, senza differenza, sia piccole sia grandi. Poiché quelle che un tempo erano grandi, ora per lo più sono diventate di scarsa importanza; mentre quelle che ai tempi miei sono grandi, prima erano trascurabili. Essendo persuaso che la prosperità umana non rimane mai fissa nello stesso luogo, io ricorderò allo stesso modo sia le une sia le altre".
P.S. A questo proposito, mi ha emozionato un brano (qui il video) tratto dalla serie televisiva "The newsroom" ("La redazione") in cui un giornalista parla a un gruppo di studenti, attacca pesantamente la presunta superiorità americana e in genere occidentale, concludendo poi così: "Non c'è alcuna evidenza che siamo la più grande nazione al mondo. Siamo settimi nell'alfabetizzazione, ventisettesimi in matematica, ventiduesimi in scienze, quarantanovesimi nelle aspettative di vita, centasettantottesimi per la mortalità infantile (...). Siamo primi al mondo in tre categorie: numero di detenuti pro capite, numero di adulti che credono che esistono gli angeli e nelle spese per la difesa, dove investiamo più della somma delle spese delle 26 nazioni che ci seguono in classifica, di cui per altro 25 sono alleate(...). Certo, eravamo la più grande nazione del mondo. Difendevamo quello che era giusto, combattevamo guerre per ragioni etiche, facevamo la guerra contro la povertà, non ai poveri. Ci sacrificavamo, ci preoccupavamo dei nostri vicini, eravamo sinceri e coerenti e non ci lamentavamo. Costruivamo grandi cose, facevamo grandi progressi tecnologici, esploravamo l'universo, avevamo grandi artisti e la più grande economia del mondo. Arrivavamo alle stelle comportandoci da uomini. Aspiravamo all'intelligenza, non la disprezzavamo: non ci faceva sentire inferiori; non ci definivamo secondo chi avevamo votato e non eravamo spaventato così facilmente. Eravamo tutto ciò perché eravamo informati (...) da dei grandi giornalisti, da dei grandi uomini, uomini che erano rispettati e venerati. Il primo modo per risolvere un problema è riconoscere che c'è un problema. L'America non è più la più grande nazione al mondo".

sabato 9 novembre 2013

Diventare vecchio (non è brutto)

Foto by Leonora
Un male fisico. E' quello che provo quando due o più persone non vanno d'accordo. Disagio lo provavo anche prima e in genere, pur se sono un tipo nervoso, ho sempre avuto passione e vocazione per trovare i punti che accomunano, per comprendere e far comprendere le ragioni dell'altro.
Ora però quella sensazione sgradevole in presenza di un attrito altrui si amplifica spesso in una ferita, in una stigmate che mi rode dentro. Compreso per lo sport e per la politica, con gli scontri beceri tra fazioni che prendono sempre più spesso dell'ironia, degli sfottò, anche del sarcasmo, ma anche nei rapporti personali, sul lavoro o nella comunità in cui vivo. Un esempio sono le scuole di via Regina Margherita, nel mio paese, con l'edificio rimesso a nuovo per ospitare un centro civico salvo poi essere destinato dall'attuale amministrazione a scuola elementare, o primaria come sarebbe più corretto. Un argomento su cui ho già scritto e che ho desiderio di affrontare di nuovo. Lo farò.
Prima però ho un compito che mi è stato affidato da un amico, Moreno, che mi ha chiesto di citarlo in un post. Lo faccio volentieri perché qualche settimana fa è stato un piacere ritrovarlo insieme ad altri amici a un matrimonio. Moreno, Gianni (che per me resta Giannino), Carlo (Carletto), Matteo, Luca (lo sposo)... Hanno tutti quarant'anni (Matteo è un filo più giovane) ma per me restano quei ragazzi che ho conosciuto quand'erano bambini e che ho visto crescere, all'oratorio. Così come tanti altri, con cui sono rimasto amico e che vedo tuttora, chi più chi meno. Paolo, Elena, Paola, Antonella, Carla, Alessandro, Umberto... Ero il più grande, ora le distanze si sono accorciate e ciascuno di noi ha avuto la sua vita, piegato come un giunco o ancora ritto in piedi, poco importa. Quel che conta è che con il cuore sono a loro ancora più vicino, mi sembra di voler loro più bene, mi commuovo persino, quando incontro qualcuno che non vedo da un pezzo. Forse non dovrei scriverlo, forse senza rendermi conto è la testimonianza che sto diventando vecchio. Ma se diventare vecchio vuol dire questo, cioè andare ancora più d'accordo, allora diventare vecchio non mi dispiace affatto.
P.S. Prima che me ne scordi, il matrimonio di Luca e Annabella è stato bellissimo. Complimenti agli sposi e in particolare ai parenti francesi di lei, che hanno dimostrato cosa significhi far festa per davvero.