domenica 30 novembre 2014

L'uomo (in mostra) che si solleva

Foto by Leonora
Tranne poche eccezioni veniamo al mondo e viviamo convinti di essere eterni, unici, superiori a chi ci ha preceduto e incuranti di chi ci seguirà, come se tutto dopo di noi dovesse finire o non fosse degno di essere preso in considerazione qui, adesso: ci sentiamo tutti Adamo e probabilmente, sotto certi punti di vista, Adamo un po' tutti lo siamo, nel senso di originali, unici, primi.
E' forse l'illusione più potente dell'essere umano, ciò che ne ritaglia il limite ma lo spinge pure alla grandezza, a un'assenza di remissività che per l'intera nostra specie sarebbe dannosa.
Giunge poi per ciascuno un tempo in cui fare i conti con la disillusione, con l'assoluta precarietà del nostro vivere, la consapevolezza di essere, bene che vada, anelli minuscoli di una catena infinita, in cui l'aspirazione di lasciare un segno tangibile, duraturo della nostra presenza su questa terra equivale a follia. Quel momento in genere coincide con la vecchiaia o con un colpo forte alla bocca dello stomaco, quale può essere una delusione, un inciampo, una malattia.
Se guardo a me stesso tra questi due poli vivo una tensione continua, con la parte razionale che mi riporta con i piedi per terra e quella inconscia, delle emozioni, dello spirito, del cuore, che anela a uscire dalla gabbia, a superare i lacci dell'esistenza placida, quotidiana, quasi che confidassi in una capacità umana di andare oltre. Fatico a rendere questa impressione con le parole, mi piacerebbe essere un pittore e disegnare ciò che provo. Lo farei dipingendo un uomo che stacca i piedi da terra, con il braccio che va alla schiena e aggrappandosi alla collottola della giacca riesce a sollevarsi da sé.
P.S. Chi pensa che questi pensieri siano partoriti per colpa della pizza mangiata alla una di notte o della birra sbaglia. Non estranea invece è la visita alla mostra di Chagall, sempre di ieri sera, che al netto delle nozioni fornite dalla guida ha saputo comunicare altro, confermando che l'arte è vera quando svela una dimensione metafisica.
P.P.S. Ho scelto questa foto di Leonora perché tutte le statue indicano con qualcosa che non si vede, qualcosa di altro rispetto alla loro fisicità. Mi piace pensare che quel "altro" sia proprio la dimensione metafisica.

giovedì 27 novembre 2014

Un uomo solo al comando (in bocca al lupo Martino)

Foto by Leonora
Lo leggo tutte le settimane, senza l'apprensione con cui lo facevo quando lavoravo lì, ma con il medesimo piacere e in più la sorpresa di trovarvi notizie che non conoscevo, oltre che uno stile che per alcuni aspetti è ancora il mio, mentre per altri è cambiato, com'è giusto che sia, essendo il giornale fatto giorno per giorno, adattandosi ai tempi che corrono e non un sepolcro imbiancato.
Esaurito il mandato del sottoscritto (qui ciò che avevo scritto allora) e concluso il Losa Due, che come tutti i governi balneari aveva un raggio limitato, a "il Cittadino" da questa settimana c'è un direttore nuovo, giovane: Martino Cervo.
Non conosco Cervo di persona, professionalmente me ne hanno parlato bene alcuni colleghi milanesi che stimo e persino Vittorio Feltri, incrociato con Giorgio Gandola sotto i portici all'inizio di via Zambonate, a Bergamo, e del cui fiuto giornalistico nel distinguere i puledri di razza dai ronzini mi fido.
Evito di aggiungere altro, tranne un consiglio. Non a lui, che mi dicono abbia già le idee chiare e può e deve far di testa sua, senza bisogno che nessuno dia fiato ai tromboni, bensì ai lettori, alle moltissime persone che vogliono bene al Cittadino, che lo considerano voce preziosa e imprescindibile per il territorio.
Il consiglio è questo: stategli accanto, seguitelo, fategli sapere quando dà il giusto risalto a una notizia o scrive qualcosa di azzeccato e anche quando secondo voi stecca, stona o, peggio, si accoda al coro sbagliato. Il senso di solitudine è infatti una tra le lezioni più brucianti che ho imparato sulla mia pelle, nei quasi tre anni in cui sono rimasto lì, in cima alla piramide.
Il direttore, qualsiasi direttore di giornale, è un uomo solo al comando, pur senza avere la maglia biancoceleste e non essendo in fuga sui cinque colli alpini che portano a Pinerolo.
P.S. Ho scelto non a caso le parole della radiocronaca di Mario Ferretti, che raccontava il momento più alto dei cento e novantadue chilometri di Fausto Coppi in solitaria, nella terz'ultima e decisiva tappa del Giro d'Italia. Quel giro si concluse infatti a Monza, sessantacinque anni fa giusti giusti. E lo vinse proprio Coppi, l'uomo solo al comando.

mercoledì 26 novembre 2014

Oltre lo spazio (siamo tutti Samantha)

Foto by Leonora
Da grande non volevo fare l'astronauta. Il veterinario sì, prima ancora lo scienziato, il parlamentare; l'astronauta no: avevo già da bambino sogni con i piedi per terra e un certa resistenza a viaggiare lontano.
Sarà per questo che mi ha emozionato poco il volo nello spazio di Samantha Cristoforetti, la prima donna italiana a fare il grande salto, pur se comprendo e rispetto la meraviglia altrui, di fronte a una delle poche imprese in grado di far dimenticare le difficoltà di questi mesi, la recessione, la crisi e tutto il resto, proiettando simbolicamente la generale aspettativa di un migliore futuro.
Difficile però sfuggire, in questi giorni almeno, alle molte cronache, ai resoconti sull'aviatrice e il suo star trek, compresa la tendenza al "siamo tutti esperti" in virtù della quale si tratta con la competenza da bar qualsiasi argomento.
Nel mio piccolo ho staccato la spina, domandandomi: chissà com'è stato per Samantha volare nello spazio, raggiungere l'obiettivo di una vita. Chissà se quell'istante in cui si sarà affacciata all'oblò vedendo il pianeta Terra da lassù - così intero da poterlo afferrare quasi con la mano e così immenso, incantevole, stupendo - l'avrà ripagata dei sacrifici fatti o anche solo soddisfatto appieno la sua curiosità, il suo desiderio. Chissà quanto le è costato esser in cielo, tutta l'attenzione ai numeri, ai parametri, ai cavi, ai dettagli, che toglierebbero poesia pure a un Whitman se fosse chiuso in pochi metri quadri di plastica e metallo.
Una o più volte nella vita siamo tutti Samantha, compiamo imprese o occupiamo posizioni che a vederle da fuori sembrano strabilianti o quanto meno invidiabili, ma che vissute da dentro conoscono pure il sapore amaro del sacrificio e quello acido dell'ansia, dell'apprensione, delle difficoltà. Mi riferisco al lavoro, ma anche alla famiglia, allo sport, agli amici, al circolo o alla scuola che frequentiamo. Facciamo fatica a godere del tempo presente, mentre da lontano sembra tutto bello, perfetto, proprio come il globo che intravede Samantha dalla sua navicella colorata di bianco.

sabato 22 novembre 2014

L'età dei lumi (e chi impara ad orientarsi al buio)

Foto by Leonora
Esiste una testa, una ragione, un modo per far funzionare il cervello e di questo ognuno di noi è convinto. Meno consapevolezza c'è invece su una sfera altrettanto importante che tuttavia, essendo ardua da dimostrare con il metodo scientifico, tendiamo a ignorare o a porla in secondo piano, quasi fosse un dio minore, un'abilità tanto complicata e misteriosa che è meglio tenerla chiusa in un cassetto.
Mi riferisco a tutto ciò che in genere abbiniamo all'area del cuore, inteso non come pompa idraulica, bensì come luogo emotivo, in particolare all'intuito, al "sentire" qualcosa - un'emozione, uno stato d'animo, una passione, una condizione umana... - prima ancora di capirla.
Ci stavo pensando ieri sera, tornando da un affollato e interessante incontro voluto dalle amministrazioni comunali e dalle associazioni genitori di Villa Guardia e Lurate Caccivio, con relatrice la psicopedagista Valerie Moretti (nome pronunciato alla francese, Valerì).
Per oltre due ore, con abilità, in modo spiccio, asciutto, semplice, scegliendo alla perfezione i tempi, gli esempi e pure le battute di spirito aveva intrattenuto e interessato moltissime mamme e papà, aiutandoli a riflettere sul loro ruolo e sui comportamenti dei figli, siano essi bambini che frequentano le primarie o adolescenti già svezzati da un pezzo. Inutile dire che mentre l'ascoltavo ero tutto un raffronto con quanto capita a me, in famiglia, come si fa con la raccolta di figurine sull'album: ce l'ho, ce l'ho, mi manca, ce l'ho...
Al termine sono uscito confortato nell'apprendere che quanto accade è frutto di fattori biologici, oltre che culturali, dunque il mio margine di incidenza non è illimitato (tradotto: per quanti danni possa fare, il risultato di come saranno i miei figli non dipende da me), ma pure un poco disorientato. Perché in tanta conoscenza mi pareva mancasse un tassello e non tanto perché Valerie/Valerì abbia mancato di sottolinearlo, bensì perché sono io che tendo ad ignorarlo.
Sono cresciuto con l'idea che il bene abbia a che fare con tutto ciò che si può contare, spiegare, provare, dimostrare rigorosamente, perciò tengo in secondo piano altre azioni che invece andrebbero allenate, rinforzate, stimolate, coccolate persino.
L'intuito, ad esempio, ma anche l'istinto, quella capacità che a volte nei film (la "forza" e il suo contrario, negativo, il "lato oscuro", in Guerre stellari, ma anche le percezioni di Rutger Hauer in Furia cieca) è tanto esagerata da collocarla tra le fantasie, tra le illazioni senza fondamento.
E' così? Oppure c'è un embrione di vero in quel narrare d'incanto?
Un paio di esempi, per spiegarmi meglio.
Quando si tratta di educazione dei figli, di accompagnarli in un percorso che li porta da bambini ad adulti, è fondamentale documentarsi, ragionare, adeguando la teoria alla prassi, però è altrettanto vero che certe cose si "sentono" e che liberandoci dalle troppe nozioni, prestando ascolto a ciò che "sappiamo dentro" riusciamo a dare risposte più congrue e adatte allo scopo, azzeccandoci e sbagliando meno.
Lo stesso vale per alcune sensazioni che abbiamo quando si tratta di rapporti umani, certe impressioni sul collega di lavoro o sul partner, non sono confutate da prove, ma che avvertiamo vere, salvo scacciarle oppure dando loro eccessivo peso, mentre sarebbe meglio trattarle per ciò che sono: indicazioni, suggerimenti, direzioni di senso, briciole di pane nel sentiero di Pollicino.
Non so se la radice sia la stessa, però mi capita anche con l'inglese, che riesco a capire lentissimamente quando mi sforzo di tradurlo parola per parola, mentre ne comprendo meglio il significato quando lascio fluire le parole, senza trattenerne nessuna, pemettendo loro di attraversarmi, senza ritrosie né imbarazzo.
Per concludere: non rinnego l'età dei lumi, di cui mi ritengo legittimamente figlio, ma certe volte credo sia importante imparare ad orientarsi al buio.

martedì 18 novembre 2014

Mi piacciono le persone

Foto by Leonora
Mi piacciono le persone che sanno raccontare, che traducono qualsiasi episodio in una storia, che scelgono le parole con gusto. Mi piacciono le persone che hanno il senso della gratuità, conoscono il valore di ogni cosa e il prezzo di nessuna. Mi piacciono le persone che vestono con classe senza curarsi dell'etichetta, che abbinano il sentirsi a proprio agio con lo stile, la ricercatezza. Mi piacciono le persone dal cuor contento. Mi piacciono le persone che cavano il buono da tutte le situazioni, compresa la più brutta. Mi piacciono le persone che comprendono il dolore altrui senza dare eccessivo peso alla propria pena. Mi piacciono le persone che ridono senza trattenersi, botto di sole che illumina la giornata più grigia. Mi piacciono le persone che dicono le cose in faccia ma senza urtare, con empatia. Mi piacciono le persone che sanno senza farlo pesare, convinte che nulla è più vasto della propria ignoranza. Mi piacciono le persone che sanno pensare con le mani e trasformano in oggetto un'idea. Mi piacciono le persone belle, dentro. Mi piacciono le persone che conservano lo stupore dei bambini e coloro che trattano gli animali con affetto, delicatezza. Mi piacciono le persone che sanno dire di no ma senza spocchia, aggiungendo un "per favore" di cortesia. Mi piacciono le persone che sanno ottenere chiedendo senza bisogno di comandare. Mi piacciono le persone che ascoltano musica, qualsiasi musica. Mi piacciono le persone che leggono in treno e che cedono il posto, con naturalezza. Mi piacciono le persone con le rughe, uomini e donne che siano, e le portano con fierezza. Mi piacciono le persone che dimenticano rapidamente le offese, così come i favori fatti, non pretendendo indietro la moneta donata. Mi piacciono le persone che si sentono provvisorie, che hanno il senso del limite, su questa terra. Mi piacciono le persone che sognano, addormentandosi serene, ogni sera. Mi piacciono le persone che prestano l'ombrello e quelle che difendono le proprie convinzioni senza bisogno di scimitarra. Mi piacciono le persone che viaggiano, forse perché sono differenti da me, che starei sempre a casa. Mi piacciono le persone che non temono le novità, in cui le radici profonde sostengono la fronda più alta. Mi piacciono le persone che curano le piante, quelle che non sprecano nulla e parimenti quelle che non sono ossessionate dal trattenere e conservare ogni cosa. Mi piacciono le persone ironiche. Mi piacciono le persone che bevono con calma. Mi piacciono le persone che conoscono il significato dell'amicizia. Mi piacciono le persone che passano da qui e leggendo ciò che scrivo mi fanno un regalo, ogni volta. Mi piacciono le persone, punto. E virgola.

lunedì 10 novembre 2014

Finirà così (saper scartare, nell'epoca del troppo)

Foto by Leonora
Finirà così, che avremo scritto molto, probabilmente troppo, e nessuno avrà il tempo di leggerlo, se non forse i nostri figli, i nipoti, qualche amico curioso o un pazzo, un perditempo, qualcuno che chissà per quale destino avrà incrociato i nostri pensieri, restandone invischiato.
Finirà così, perché tutto è "hevel", spreco, come traduce Erri De Luca dal libro del Qoelet, ma non siamo più capaci di scartare, di discernere, di buttare l'eccesso tenendo l'essenziale.
Conserviamo tutto, illudendoci poi di riassumerlo, di comprenderlo, senza accorgerci che così il rumore indistinto, il flusso roboante dell'abbondanza satura tutto.
E' il paradosso irrisolto di questi tempi, della rete, di Internet, strumento magnifico e nel contempo oppio: sopraffatti dall'illusione di poter sapere tutto, fatichiamo a conoscere ciò che conta davvero.
Se fossi propenso alla dietrologia, al complottismo, direi che prima ci tenevano a bada facendo in modo che le informazioni fossero per pochi, ora hanno capovolto la clessidra, e le nascondono sommergendoci, proprio come accade all'ago in un pagliaio.
Il risultato è identico, ma non credo sia un disegno voluto da qualcuno, semmai una conseguenza, un eccesso di risultato che quando cercavamo di dare risposte alle domande non avevamo immaginato.
Non ci resta allora che esserne consapevoli, tenerne conto, e dare risposte originali, scovare un antidoto. Abbassare il volume, ad esempio. O almeno adottare un doppio canale, quello superficiale, dell'intrattenimento, che ora come ora ci ruba gran parte del tempo, e quello più profondo, del silenzio, della meditazione, della rivincita del poco sul tanto.
Se penso al futuro - e ci penso spesso, soprattutto per lavoro - credo occorra questo: mettere argini, ricomporre i frammenti, fare e dare ordine, ricondurre all'essenziale, scartare il superfluo. Perciò credo non scompariranno i libri di carta e neppure i giornali: il loro limite può rivelarsi un vantaggio.
L'esser fatti materia, avere un peso fisico, una massa, un costo alto, costringe a soppesarli con cautela, sconsigliandone l'abuso. Così come la loro monodimensionalità equivale a un binario, a un percorso certo meno ricco, ma sicuro, chiaro.
Nel mondo multitasking dove ogni elemento è linkato e tutto scorre, perpetuo, il libro di carta è un lago, dove andare in barca, senza fretta, contemplando il panorama e l'orizzonte infinito, creando un mondo nel mondo, profondo, tutto nostro, a misura di chi siamo. Ragione per cui vale senza dubbio la pena leggerlo e forse anche scriverlo.
P.S. Per scriverlo non so, ma se avete nostalgia di un piccolo mondo antico e volete capire a chi Camilleri si è ispirato con il suo Montalbano potete leggere e perdervi in "Tutti i racconti del Maresciallo" (edizioni Oscar Mondadori), scritti nel 1967 da Mario Soldati. La letteratura che si fa leggere, con gusto.

domenica 9 novembre 2014

A tempo guadagnato

Foto by Leonora
C'è un effetto della crisi, della modernità, del desiderio di efficientismo o decidete voi che altro, capace di erodere un valore fondamentale per fare le cose per bene: il tempo. Specie quello che a un occhio distratto pare perso e invece è essenziale quanto il lievito per il pane o l'azzurro per il cielo.
Torno in basso, facendo esempi terra terra, quali il poliziotto, l'insegnante, il medico e tutti quei mestieri, giornalista compreso, che non si possono misurare a ore o a prestazioni singole, bensì presuppongono un investimento ad ampio raggio.
Prendiamo il commissario Maigret o Montalbano, se preferite. Nessuno può negare siano personaggi positivi eppure "perdono" un sacco di tempo, fumando la pipa, passeggiando per i boulevard di Parigi, o nuotando "a ripa di mare", a Marinella, concedendosi lunghe e abbondanti pause pranzo, con tanto di caponatina e sarde a beccafico.
Cosa fa la differenza? Perché siamo propensi a concedere loro ciò che invece negheremmo al funzionario pubblico che abita sul nostro stesso pianerottolo o al collega della scrivania a fianco?
Semplice: il risultato. Maigret o Montalbano alla fine il loro lavoro lo fanno, acchiappano il ladro o l'assassino o lo acchiappano quasi sempre in virtù dei ragionamenti, delle intuizioni, dei contatti sia relazionali, sia cerebrali, che si creano mentre stanno facendo tutt'altro rispetto a quello che in senso stretto è il loro lavoro.
Non la faccio lunga, volevo solo dire questo: l'efficienza è importante ma non si può misurare unicamente a ore o a prestazioni, con un modello fordista, da catena di montaggio.

martedì 4 novembre 2014

Siam pronti alla morte

Foto by Leonora
C'era molta gente domenica, sul piazzale di fronte al municipio, mentre il sole illuminava le bandiere tricolori e gli ottoni della banda cittadina luccicavano.
Brava Anna, il sindaco, che ha tenuto un discorso senza fronzoli né retorica, asciutto e denso di significato, lasciando presto spazio alla lettera di un soldato bresciano, spedita alla sua famiglia contadina e inviata dalle trincee piene di fango, durante la prima guerra mondiale.
Uno spettacolo di dignità - la commemorazione anticipata del 4 novembre - con in prima fila alpini, fanti, bersaglieri, uomini ormai di una certa età, che danno un senso concreto al mettersi al servizio della patria, la terra dei padri, facendo in mille modi opera di volontariato.
Un'ora prima, sul viale che porta al cimitero, incisi su piccole targhe dorate, leggevo e restavo impressionato dai nomi dei ragazzi del mio paese che hanno perso la vita durante la guerra. Di essi non resta che questo, un nome e cognome senza volto: troppo poco per il prezzo che hanno pagato, mentre non sono affatto convinto che il loro sangue sia servito, che la morte non sia stata vana o al soldo di interessi meschini, ammantati di buone intenzioni soltanto per condurli placidamente al macello.
A queste cose pensavo domenica, mentre con gi altri, in coro, cantavo l'inno nazionale. Un'aria che mi emoziona sempre, pur se certe parole mi lasciano inquieto. La strofa che recita: "Siam pronti alla morte", ad esempio.
Pronto alla morte credo non sia mai nessuno, tanto meno loro, giovani vestiti con i panni spessi del soldato, anche se a vent'anni si ha un'incoscienza che è facile scambiare per coraggio e alla vita non ci si aggrappa come invece avviene dopo.
I loro sorrisi sono stati spenti per sempre, un'intera generazione falcidiata, e per capire cosa significhi davvero pensavo alla foto su Facebook di mio figlio maggiore e di qualche suo amico (vedi a fianco), immaginando per un istante che lo stesso destino tocchi in sorte a loro, a Giacomo, Andrea, Federico, Damiano, Daniele, Christian, Luca, Alessandro, Eugenio, Samuele, Daniele...
Anche quei ragazzi di un tempo lontano, spazzati via dalle mitragliatrici e dai colpi di baionetta nello stomaco, avevano un padre, una madre, fratelli, sorelli, amici, dei progetti, dei sogni, erano belli, sorridenti, profondi e solari come i nostri figli, adesso.
Il cielo non voglia che la storia si ripeta e farne memoria è il primo modo per impedirlo.