martedì 31 marzo 2015

Ciao Franco

Foto by Leonora
Ci sarà Anna, ad aspettarlo, e un Pianella stracolmo e un posto tranquillo, quieto come la sua Monbaruzzo, con un tavolo di legno antico e sopra un vassoio pieno zeppo di quegli amaretti che mi portava spesso.
Voglio evitare parole inutili per ricordare Franco Corrado, una delle persone che ho stimato di più. Per chi lo ha conosciuto soltanto di striscio, basti sapere che era un liberale e un gentiluomo vero, un uomo in cui anche la vanità era più un vezzo che un vizio. Non era esente da difetti, non lo è nessuno, ma i pregi li compensavano ampiamente, andando a credito.
Per me poi era una persona speciale e per spiegare quanto lo fosse mi è sufficiente riscrivere le parole pubblicate in questo blog, nell'agosto del 2011: "Non ho amici. Non sul lavoro almeno. La mia regola è: per me pari sono. Non mi riferisco ovviamente ai colleghi, né alla dozzina di persone a cui sono più legato, quasi tutte conosciute quand'ero bambino o ragazzo. Nessuna di loro però è famosa o ha incarichi pubblici, per cui è raro se non impossibile che interferiscano con ciò che sul giornale scrivo. Tutti gli altri - politici, imprenditori, docenti, funzionari pubblici e privati... - posso permettermi di trattarli al medesimo modo, senza debito di riconoscenza nei confronti di nessuno. Qualcuno m'è più simpatico, ovviamente, qualche altro meno, ma ciascuno lo valuto dai fatti, tenendo le mani libere per scrivere ciò che voglio. Una garanzia basilare per me stesso e per loro, che possono contare sulla limpidezza di giudizio, pure quand'è critico e poco generoso. Se però esiste un'eccezione essa risponde al nome di Francesco Corrado. Chi legge questo blog e ha buona memoria sa la genesi di tutto questo: quando l'ho conosciuto la prima volta non ho esitato a farne un ritratto caustico, lui però non s'è offeso e nei fatti, non a parole, mi ha dimostrato un affetto che si riserva soltanto a un figlio. Niente di che, niente contributi monetari o favori sottobanco. Semplicemente qualche consiglio sincero, una stima manifestata senza vergogna e un esserci, quando ne avevo bisogno".
Già. Quando ho avuto bisogno, lui per me c'è sempre stato. Una presenza forte quanto discreta. Al figlio Alessandro, ai nipoti Barbara e Luca che amava così tanto, sono vicino. Le loro lacrime sono le mie, anche se a loro mancherà di più e sarà un vuoto che potrà colmare soltanto la consapevolezza di esserselo goduto.
P.S. Ci sarà Anna, dicevo. Anna era sua moglie e lo ha preceduto dove si trova adesso. Possano riposare entrambi in pace, finalmente riuniti, come desideravano.

giovedì 26 marzo 2015

La terza volta (ipocondria portami via)

Foto by Leonora
Sono morto almeno due volte. Senza contare le occasioni infinite in cui saluto tutti per bene, prima di un viaggio o di un'assenza prolungata da casa, tipo adesso che sto a Bergamo tre o quattro giorni di fila e quando parto saluto Giorgia con un siparietto, tra l'ironico e il tragico.
La prima volta che sono morto non ne ricordo il motivo esatto, l'acciacco da cui tutto era scaturito, ma ho in mente la sensazione di desolazione assoluta e certezza che fosse giunto il momento.
La seconda volta invece era per un cancro ai polmoni, alle pleure, meglio, come mio padre. Sarà stato un quattro o cinque anni fa e avevo un dolore fisso, lancinante, tra le scapole, quando respiravo. Mi ero convinto a tal punto che per un giorno o due avevo pure perso l'appetito e anche se non lo dicevo a nessuno, tranne forse a Isabella, in me maturava lucida, limpida, apparentemente incontrovertibile, la consapevolezza che fosse tutto inesorabile e già scritto. Bastò una semplice visita dal medico per chiarire che non c'era nessun tumore né decesso imminente, al più una cattiva abitudine alimentare dovuta al lavoro (ho ritrovato il resoconto di allora).
Domenica, dopo aver corso per un'ora abbondante a passo spedito, quasi dodici chilometri tra boschi e asfalto, mi sono accorto che avevo rossa la punta del naso. Un color rubizzo senza gonfiori apparenti né dolore. Soltanto un centimetro quadrato di tinta più rosa del solito. E' stato sufficiente quello per un'anamnesi a tempo zero, ricordando che in effetti nelle settimane passate avevo notato qualcosa di simile, sopra il sopracciglio e poi sulla fronte, come se i capillari si fossero rotti o il sangue fosse più liquido. Poi, per quelle strane associazioni da ipocondriaco, in un angolo del cervello mi si è accesa la lampadina, illuminando il volto del mio vicino, nonché socio di mio padre, che qualche anno fa aveva cominciato con qualcosa di simile, al naso, scoprendo dopo vari tentativi che si trattava di un male ostico, che fa spavento soltanto a nominarlo. Da allora un peso alberga in me, ospite ingombrante e indesiderato, reso più lieve quando invece di tenermelo dentro, di coltivarlo o di coccolarlo, lo sputo fuori, raccontandolo. Il medico intanto mi ha dato una pomata, che io spalmo con puntiglio e velata costernazione, incrociando le dita affinché non sia nulla di grave, ma preparandomi a morire per la terza volta, di nuovo.
P.S. Già sento i commenti quando accadrà, davvero: "Oh, non aveva niente, sempre sano come un pesce, negli ultimi cinque anni neanche un'influenza e poi zac! Ah, che destino...". Qui ci starebbe un sorriso, un emoticon. Mettetelo voi, pur senza vederlo, e se proprio non vi viene, ricordate la frase che fece scrivere l'ipocondriaco sulla sua lapide: "Ve l'avevo detto che non mi sentivo bene!".

sabato 14 marzo 2015

Il colore viola

Foto by Leonora
Per evitare di essere banale talvolta chiedo alle persone con cui sono più in confidenza: oggi di che colore sei?
Apprezzo ogni risposta e ancor più quando ribattono: e tu? Mi costringono per riflesso a guardarmi addosso, facendo sintesi dei sentimenti, obbligandomi a definirli e soppesarli, sapendo che pur numerosi che siano ce ne sarà uno più intenso, definibile con una tinta e al massimo l'aggiunta di una sfumatura.
"Oggi mi sento blu". "Oggi blu tendente all'azzurro". "Nero". "Grigio". "Arancione". "Rosso tenue". "Giallo". "Porpora". Qualcuno azzarda anche "indaco", costringendomi a chiudere gli occhi per recuperare nel pantone della memoria che diavolo di colore è, l'indaco.
Un arcobaleno delle emozioni che delinea il quadro, senza entrare nei dettagli.
Stasera ad esempio credo che Giacomo sia nero pece, perché si è infortunato ancora alla caviglia e lo vedo abbattuto e in quella mortificazione non so dargli leggerezza, per dirgli quella che poi è la verità, cioè che ha diciott'anni e di caviglie ne potrebbe slogare a dozzine, forse, per non parlare di infortuni più gravi, ma per quanto nero possa vedere è sempre azzurro il cielo del suo orizzonte e potrà superare tutto se troverà la forza dentro di sé, non perdendo la positività, la voglia di riscatto, il desiderio di sorridere.
Da parte mia metto nel raccoglitore delle esperienze l'altalena dell'esser passati dalla gioia di vederlo segnare, all'ultimo secondo, sette giorni fa, allo sconforto del trovarmelo sdraiato sul divano adesso, con la caviglia ridotta a zampone e viola. Come il mio umore.

venerdì 6 marzo 2015

Gioco di squadra (torno in tv)

Foto by Leonora
Cambio lavoro. Anzi, continuo a fare ciò che stavo facendo ma salendo di livello, oltre che di un piano (due piani, per l'esattezza).
Da questa settimana sono stato nominato "responsabile del settore informazione di Bergamo Tv" e torno dunque ad occuparmi in prima persona di una realtà che conosco bene e che mi ha affascinato da sempre, da quando bambino alle cinque del pomeriggio in punto accendevo il trasformatore elettrico per fare comparire suoni ed immagini al televisore Mivar che si trovava tra la camera da letto e il soggiorno.
Da quegli anni è cambiato il mondo, non soltanto lo schermo. L'obiettivo che mi è stato chiesto, oltre alla gestione concreta dello strumento televisivo, è quello di valutare e percorrere le nuove strade dell'informazione, l'integrazione con i nuovi mezzi ("device" in termine tecnico, cioè tablet, smartphone e tutti i marchingegni che porterà in dono il futuro), lo sviluppo dei nuovi linguaggi video.
In questi primi giorni, avendo fatto tesoro delle esperienze passate, invece di entrare a piedi uniti ho preferito un approccio morbido. Sette giorni in tutto, per ascoltare uno ad uno coloro che la tv qui già la fanno, risorse di nome e di fatto, persone che meritano rispetto per quanto danno e che devono essere messe nella condizione di lavorare al meglio. "Non credo di essere uno sprovveduto - ho detto ai miei nuovi colleghi giornalisti, il giorno in cui sono stato presentato - ma nemmeno uno che ha la bacchetta magica per risolvere tutto". Lo penso davvero: soltanto un lavoro di squadra può dare le risposte che cerchiamo e garantirci un futuro.
Grazie dunque a chi mi ha dato fiducia e a chi avrà la pazienza di accompagnarmi lungo questo nuovo tragitto.