mercoledì 30 giugno 2010

B.


Un foglio di carta bianca, scritto a mano, davanti e dietro. Una data: 15 giugno 2010. Una premessa e un'intestazione: caro Giorgio. Una coincidenza: venti righe per pagina. Parole di getto, in italiano fluido, limpido, senza bisogno di esser ricercato. Nessun errore ortografico e una sola ripetizione, che non è sfuggita alla rilettura, corretta con un tratto di penna, senza badare a cancellarla del tutto. Inchiostro blu, calligrafia rotonda, scorrevole. E una firma, di donna. Inizia con la B.
Una lettera ricevuta per posta l'altro giorno. Non so chi l'ha mandata e - a parte qualche flebile indizio - l'autrice ha deciso di restare ignota anche per me. Solo il nome conosco. E' tutto il resto che mi sfugge, ma non vi do peso: mi fa piacere che mi abbia scritto, che abbia deciso di aprire un varco tra noi, di far sì che la lettura di questo blog non rimanga un viaggio di sola andata, senza ritorno. Vorrei risponderle e non ho altro mezzo che questo spazio, confidando sul fatto che passi di qui e che si fidi di nuovo di me, che lei stessa ha scelto. Vorrei dirle che anche se per lei "non è un bel momento", se la sua vita va "letteralmente a rotoli", non è sola, c'è qualcuno a cui importa, qualcuno che non ha risposte di sorta ma è disposto a rimanere in ascolto. Mi tornano in mente le parole della poesia di Saba, "La capra", il cui "belato è fraterno al mio dolore". Così il suo al mio. Pur essendo fortunato, conosco il vuoto che bussa dentro, il picco e l'abisso. Questo vorrei dire a chi - in venti righe più venti - ha dimostrato che la voglia di andare avanti è più forte della paura di esporsi. E che non c'è bisogno di conoscersi di persona per fidarsi l'una dell'altro.


Foto by Leonora

domenica 27 giugno 2010

Faloppiese, olé


I sei giorni di vacanza stanno finendo, da domani si torna in redazione a capofitto. Credo di essermi un po' impigrito, pure arrugginito: in un paio di giorni conto di riprendere ritmo e tono. Non è per questo però che scrivo, quanto per tessere l'elogio di un allenatore, di una società, di una squadra, un gruppo. La Faloppiese, formazione di calcio della categoria esordienti (tredici, dodici anni), nel pomeriggio ha concluso al terzo posto il torneo "Brera", a cui erano iscritte oltre cinquanta squadre provenienti da tutta Italia e anche dall'estero. S'è trattato di un ottimo risultato, anche se sarebbe stato storico se in semifinale non si fosse perso ai calci di rigore contro il Varese, che per metà partita è stato letteralmente messo alla corde e graziato persino a cinque minuti dalla fine da un rigore sbagliato dalla stessa Faloppiese. Il terzo posto, alle spalle di Varese (vincitore poi del trofeo) e dei serbi della Vrbas, unito al titolo di capocannoniere del torneo ricevuto da Gabriele (Gabriele Strazzella, un attaccante nato, che spero rimanga con noi anche l'anno venturo, così come un'altra roccia, Cristian) ha coronato comunque una bellissima annata e concluso in qualche modo un ciclo. Giuseppe (Giuseppe Attanasio, l'allenatore) il prossimo anno passerà al Cantù, dopo cinque anni in cui s'è fatto apprezzare, oltre che per il bel gioco e per i risultati, anche per il cuore e lo spessore umano dimostrato. Lo scrivo ora, che se ne va, perché prima ero in imbarazzo: essendo in squadra mio figlio Giacomo, non volevo che le parole di stima prestassero il fianco a un trattamento diverso da quello che è stato. Ora però che il quadro s'è chiarito, credo sia giusto concedere il tributo a una persona che per questa squadra ha dato tutto, non risparmiandosi in alcun modo e trattando tutti in modo affettuoso ma anche schietto. Potrei citare molti episodi, ne scelgo uno: l'aver organizzato la trasferta di una settimana a Lignano Sabbiadoro, la scorsa Pasqua, per partecipare a un altro torneo. Un momento unico di aggregazione tra ragazzi e anche per i genitori. Adesso le strade di allenatore e società si dividono: come tutti i divorzi, il rischio è che il gusto acre abbia il sopravvento su quanto di buono insieme è stato fatto. I risultati e l'ottimo ricordo che ha lasciato tra ragazzi e genitori testimoniano sul valore di Giuseppe, così come la società, che ha deciso il cambio, merita fiducia e credito, essendo sulla cresta dell'onda da cinquant'anni e distinguendosi sempre per crescere ragazzi non esaltati, insegnando loro a stare al mondo, oltre che giocare a calcio. Chi segue questo blog sa che ad inizio anno ero scettico sulla scelta fatta da Giacomo, di lasciare l'Itala (altra società fatta di brave persone, a cui sono grato) per andare a Faloppio. Undici mesi dopo credo che sia stata una decisione felicissima, avendo trovato l'ambiente di cui dicevo. Lo scrivo per tutte le persone che hanno un figlio che vuole fare sport e magari si fanno trascinare dalle loro ambizioni oppure spaventare dai sogni (spesso destinati a restar tali) del bambino: scegliere un buon ambiente è fondamentale. Conosco personalmente papà e mamme che si sono lasciati incantare da società professionistiche, dal nome glorioso, ma senza alcun riguardo per la crescita dei ragazzi, che vengono presi e lasciati come carne da macello. Altre volte, e io appartengo a quel caso, sempre le mamme e i papà hanno tarpato le ali ai desideri del figlio, accontentadosi della mediocrità, del pressapoco. La Faloppiese credo sia la giusta via di mezzo - elogiata dai latini e che tutt'oggi porta lontano - tra misura e ambizione, tra pazienza nel rispettare i tempi di crescita dei ragazzi e schiettezza nel rilevare i limiti di ognuno, tra serietà agonistica e sport che comunque nella vita non è tutto. Grazie a Giuseppe (ma anche a Roberto e Fabio, suoi aiutanti sul campo) e alla Faloppiese per tutto ciò che hanno fatto per Giacomo: la mia famiglia ha avuto assai più di quanto ha dato; non lo dimenticheremo.

Foto by Leonora

mercoledì 23 giugno 2010

Campari rosso


Potenza dei motori di ricerca: mi ha scritto l'ufficio stampa di Matteo Marzotto, per chiedermi se poteva inserirmi nella mailing list così da restare informato sulle prossime iniziative della Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica, di cui lo stesso Marzotto - che ha perso una sorella, accompagnandola passo passo in quel calvario senza lieto fine ch'è la vita di chi nasce con questa patologia - è cofondatore e vicepresidente. Lo scrivo per un motivo egoistico (dimostrare che pure un blog insignificante com'è in fondo questo può avere una visibilità e, dunque, un potere) e per un motivo altruistico (ricordare che tutto il ricavato del libro andrà all'associazione, mi spiace non averlo precisato nel post precedente e me ne scuso, aggiungendolo qui: chi volesse saperne di più, questo è il link della fondazione).

Cambiando argomento: oggi ho trascorso un giorno di vacanza vera, nel senso che erano anni e anni che non ne passavo uno altrettanto spensierato, vuoi per malattie di qualche familiare, vuoi per i lavori da fare in casa, vuoi per il lavoro vero e proprio che condiziona anche quando sto a casa. Stavolta ho deciso di staccare davvero per almeno cinque giorni, così stamane mi sono svegliato presto, mi sono fatto portare in centro a Como e da lì sono tornato a casa a piedi, salendo fino al monte Croce e poi seguendo tutta la dorsale della Spina Verde da San Fermo a Drezzo, tagliando infine per Gironico e tornando a casa per le dodici e mezza in punto, preciso preciso per mettere le gambe sotto al tavolo e rifocillare cuore e pancia. In tutto ho camminato cinque ore su e giù per le colline, senza mai fare sosta, in solitaria. Non essendo propriamente allenato per le lunghe distanze, ho avvertito qualche leggero fastidio muscolare verso metà mattina, che è via via peggiorato, trasformando i chilometri finali in una serrata lotta tra il desiderio di sedermi e farmi venire a prendere oppure continuare insensibile ai quei due tronchi d'ardesia che nel frattempo eran diventate le mie gambe. L'ostinazione e la cocciutaggine alla fine hanno prevalso e devo ammettere che le conseguenze sono meno gravi del previsto: dicono che i muscoli hanno buona memoria, forse i miei si sono ricordati di qualche mitica gita in Trentino o in Valtellina. Di quelle al lago Turchino -ad esempio, nella valle sopra Grosio, meta abituale di ogni estate al tempo della giovinezza, escursioni in cui ogni volta mancava poco alla certezza di veder apparire sull'irto e interminabile sentiero la madonna. Non canto però vittoria: il peggio, lo so, sarà domattina, quando rimpiangerò di non avere in dotazione uno di quei montascale che puoi fare su e giù dalla mansarda al pian terreno con la carrozzina. Comunque, indolenzimenti a parte, ne valeva la pena. Ho fatto fatica, è vero, ma sono felice perché volevo ridare valore e provare sulla mia pelle ciò che per gli uomini era l'unico mezzo di trasporto dalla storia primitiva fino al secolo scorso, quando la bicicletta e poi addirittura le moto e le auto sono diventate un prodotto accessibile alla massa. Lurate, Como e poi di nuovo Lurate era il viaggio che il vecchio Belloni, il papà della Luigi "postina" e di sua sorella Vincenzina, faceva ogni giorno con in spalla le pezze della Tessitura Stucchi. Un giorno - sono state proprio le due sorelle, pace all'anima loro, a raccontarmelo divertite - il loro papà e il garzone che lo accompagnava decisero che si poteva fare una pazzia: fermarsi a metà strada, sulla via del ritorno, e bersi un bicchierino. Fecero così sosta alla trattoria di Breccia, che riportava un'invitante scritta a caratteri cubitali sul muro esterno: "BEVETE CAMPARI CIOE' VERMOUT". Quando l'oste li vide entrare e chiese cosa poteva offrire, i due confabularono un poco, esclamando infine decisi: "Ci dia due... Cioè!". Chissà che domani non mi scriva anche l'ufficio stampa della Davide Campari. Diventerei rosso.
Foto by Leonora

lunedì 21 giugno 2010

L'età di mezzo


Finalmente estate. Approfitto di qualche giorno libero per ricaricare le pile (strano essere l'uomo: ricarica le pile quando stacca la spina) e mi godo con il sole questo vento fresco e il verde smeraldo di alberi e prati attorno casa. La pioggia e il freddo dei giorni scorsi hanno lasciato in eredità un paesaggio ancora più rigoglioso. Ho letto d'un fiato Camilleri, con il commissario Montalbano impegnato in una macabra caccia al tesoro, e tra ieri e oggi l'autobiografia di Matteo Marzotto, che s'intitola "Volare alto". Un libro che ho trovato nella piccola biblioteca che la redazione cultura del giornale lascia a disposizione di tutti. Non lo avrei mai scelto se l'occhio non fosse caduto sull'anno di nascita di Marzotto, un bell'uomo, forse un po' basso, ma con un taglio di occhi affascinante e un sorriso luminoso: 1966. La mia età. L'età di mezzo. Perciò, sfogliando quelle pagine, è come se avessi sfogliato parallelamente la mia vita, che nel bene e nel male è giunta a uno spartiacque, un di qua e di là come nella fotografia che ho pubblicato a fianco.
Il libro non è neanche male. In alcune parti un po' scontato, banale anche, in altre più appassionante, sincero. A di là delle differenze sostanziali (lui è figlio di una dinastia industriale e ha avuto possibilità di vivere con possibilità ad altri precluse) molti aspetti li ho ritrovati comuni ai miei. Il periodo di crisi nel bel mezzo del liceo (lui perse un anno, io l'ho guadagnato, tenendo duro e accettando di fare gli esami di riparazione, rimanendo aggrappato alla promozione con la cocciutaggine di chi non ha altra scelta: se fossi stato figlio di una famiglia ricca, forse avrei fatto come lui, avrei staccato il piede dall'acceleratore, pentendomi quand'era troppo tardi). Le titubanze nel formare una famiglia (per lui un nodo irrisolto, per me era scontato, naturale, così come avere un figlio: una mentalità per cui sono grato ai miei genitori, che mi hanno insegnato che i bambini sono un dono, non un progetto da pensare e ripensare finché pronto). Il desiderio di combinare qualcosa di buono sul lavoro (concordo con lui quando dice che l'età che va dai quaranta ai cinquantacinque anni è generalmente feconda, contando su una miscela equilibrata di esperienza ed entusiasmo). Poi c'è dell'altro: lui ad esempio ha l'elicottero, una barca, ha viaggiato il mondo in lungo e in largo, è stato fidanzato con modelle e attrici... Come però ho scritto in principio al post precedente, l'invidia è un vizio che non conosco. Ho avuto troppe fortune dalla vita: rispetto tutti, ma non farei cambio con nessuno.

Foto by Leonora

giovedì 17 giugno 2010

Non ti scordar di me


Dei sette vizi capitali combatto la superbia, capisco poco dell'accidia, concedo qualcosa all'avarizia, temo gola ed ira, vorrei cedere più spesso alla lussuria, non conosco invidia.
Mi piace stare ad ascoltare la gente e detesto parimenti coloro che cominciano ogni frase con: "Ti spiego" oppure "Ma sì, l'ho detto". Dicono sempre tutto e non sanno veramente niente.

Oggi sono andato a Como, dopo settimane d'eremita. Mezz'ora in tutto, il tempo di parcheggiare, camminare qualche minuto per le vie della città murata e bere un caffé. Ho incontrato Mario, cortese ma ch'è stato sulle sue, e nessun altro. Di quel dedalo di strade che per tanto tempo sono state la mia vita non è rimasto che il ricordo. Lo scrivo serenamente, perché sono quieto dentro, conscio di non avere rimpianti né rimorsi, avendo vissuto allora e vivendo appieno adesso. L'estate qui attende il solstizio vero e proprio: anche oggi pioveva, c'era aria pungente e un cielo di novembre, grigio e scuro. Sul terrazzo di casa non ho ancora cenato e, se penso che qualche settimana se ne andrà in vacanze e a settembre sarà già tornato il fresco, mi viene un poco di tristezza considerando che la bella stagione dura a malapena un mese e mezzo. Penso a tutti gli amici che vorrei invitare o vedere per un pranzo la domenica o una sera, in compagnia. Viviana, ch'è tornata dagli Stati Uniti, e sua sorella Elisa, con sua figlia Alice che ho tenuto di battesimo. Raffaele e Rosy. David, con Massimiliano e rispettive mogli. Marco, Sonia, i due Mauro e Paola, per la grigliata che consacra la bella stagione e se non la facciamo porta jella e rischia di scatenarsi il diluvio. Manuela e Davide, con Luigi e Cristina, a cui l'avevo promesso tempo addietro. I genitori dei compagni di squadra di Giacomo. Elena, Riccardo, Paola e Paolo. Valentina e Andrea, con Maria Luisa, che ho nel cuore e non vedo da un sacco di tempo. E poi i ragazzi del Como Blog, Elena in testa. E l'altra Elena, con sua sorella Paola. O Chiara, che ancora attende il regalo di nozze, ch'è bell'impacchettato qui a casa: me ne vergogno, ma con il passare degli anni sta diventanto un pezzo da museo. E ce ne sono altri, di amici che vorrei accanto, anche se ora non li rammento, ma sono sicuro mi balzeranno in testa appena avrò spento il computer, lasciando dire tra me e me: "Ma come ho fatto a dimenticarmi? Che pirla sono stato...".

Tanti sassolini insomma, che lascio cadere qui, come Pollicino con le briciole di pane sul sentiero. Anche se quest'estate sarà breve, vorrei non ritrovarmi il prossimo autunno al punto e a capo. Se oggi sono tornato a Como sereno è perché il mio tempo l'ho goduto: sarei felice di poter dire lo stesso di questa mia età, tra qualche anno.

Foto by Leonora

mercoledì 16 giugno 2010

Pagine da libro "Cuore"

Pagine da libro "Cuore" e quattro maestre che insegnano la vita

La retorica ci fa venire l’orticaria, ma il libro "Cuore" fa eccezione alla regola. Ieri s’è conclusa la scuola per migliaia di ragazzi, che si moltiplicano come in aritmetica se si aggiungono padri, madri, nonni, zii e la compagnia briscola di gente che dà una mano nell’andare e tornare o a fare i compiti o in tutti gli annessi e connessi di attività che occupano l’intera giornata. Quando eravamo bambini non era così: non esistevano corsi opzionali, niente mensa e il doposcuola neanche, le ore erano meno, di maestre ce n’era una sola e le vacanze duravano da metà giugno al primo ottobre, San Remigio. Adesso è impegno più gravoso, ma di quella ch’è ormai diventata un’industria, la parte più importante resta cesellata a mano. Stiamo parlando delle centinaia di professoresse e professori, maestri e maestre, che intendono tutt’oggi l’educazione dei ragazzi come missione, prima che un modo onesto di guadagnarsi lo stipendio. Ne prendiamo a caso quattro, chiamandole per nome: Maria, Emanuela, Luisa, Mariella. Non indichiamo invece il paese dove insegnano: non ce n’è bisogno, nella certezza che come loro ne esistono moltissime.La storia che ora in sintesi raccontiamo potrebbe valere, con sfumature e tonalità diverse, per tutte le scuole della provincia. Mariella, Luisa, Emanuela e Maria hanno portato quest’anno a termine il ciclo delle elementari in una scuola pubblica, organizzando uno spettacolo per tutte le classi quinte. Per tre ore i bambini hanno intrattenuto la platea di un teatro. Se ne sono viste di tutti i colori, con ragazzi venuti dalla Tunisia e dal Ghana che hanno ballato sulle musiche di Michael Jackson ed altri che hanno preparato scenette in dialetto comasco. Qualcuno s’è esibito in un’appassionata ’O sole mio, il tutto farcito di diapositive per riepilogare cinque anni insieme, fianco a fianco. A un certo punto, a metà serata, tutti insieme hanno cantato l’inno di Mameli e siamo rimasti stupiti da quell’andare in coro: bambini dai colori differenti, accolti e cresciuti dalle insegnanti nello stesso modo. Ognuno sa da dove proviene, se da Trapani o Portichetto, dal caldo Senegal, dal quartiere di Sant’Agostino o dalla sponda occidentale del lago. Le radici per fortuna non sono recise di netto, ricordandoci che siamo frutto di una tradizione, di una cultura differente, che può essere d’ostacolo ma anche arricchire l’un l’altro. Su quel palco, cantando quell’inno, ognuno dichiarava un’appartenenza condivisa, senza rinnegare la propria storia, semmai dando ad essa compimento. Lo diciamo schietto: non ci siamo mai sentiti così orgogliosi come l’altra sera d’essere italiani, figli di un paese che offre una scuola e insegnanti tanto sensibili e brave da far sentire ogni bambino a casa sua. Ch’è poi la nostra.

La Provincia, 13 giugno 2010

martedì 15 giugno 2010

Festina lente


La legge dell'imbuto è implacabile: più accumulo argomenti, meno riesco a scriverne, così rimando e rimandandoli li perdo. Quattro o cinque giorni fa avrei dovuto segnalare l'importanza di fare qualche lavoretto domestico come buona pratica per coltivare la virtù della pazienza. Dovevo appendere uno specchio e contavo d'impiegarci qualche minuto, un quarto d'ora al massimo. Mezz'ora dopo ero ancora lì, affannato, contando i contrattempi avuti e riflettendo sull'equazione per cui più volevo fare in fretta più rallentavo. Ho compreso così perché molti operai zufolano: prendersela con calma è buon viatico per giungere senza troppi intoppi all'obiettivo. Mi torna in mente una frase che probabilmente in questo blog ho già scritto e che il cardinal Martini soleva dire al proprio autista: "Vai adagio, che abbiamo fretta". La lezione dello specchio evidentemente m'è servita poco, infatti ieri mentre cercavo di cambiare le pile a un marchingegno, per la premura ho fatto cadere tre volte la stessa vite che chiudeva il vano delle batterie. Poi m'è venuto un flash e, invece di arrabbiarmi, anch'io ho zufolato, cercando di ottenere una serenità d'animo di un bonzo e la vita è entrata subito, al primo colpo. Perciò lo scrivo qua, che serva a voi da consiglio e a me da ammonimento: non sempre il modo migliore per arrivare bene e svelto è quello di accelerare il battito. Spesso è meglio un buon respiro e, oltre ad entrare le viti, si stura anche il tappo dell'imbuto...

P.S. Ho dato al blog un nuovo sfondo, probabilmente non definitivo. Stasera però mi andava di cambiare e l'ho fatto, senza rimpianto.


Foto by Leonora

sabato 5 giugno 2010

Attenti a quei due


Mi sorprendo ogni giorno delle molte cose che imparo. Stefania, che abita a Napoli, mi insegna qualche parola della vera e propria lingua che hanno, che nelle case dabbene è costretta a inchinarsi all'italiano ma ch'è come musica e poesia in un solo suono. Scopro così che Quanno chiove di Pino Daniele parla di una prostituta e la canzone, già bellissima di per sé, mi pare ancora più incantevole. L'altra sera invece sono uscito a cena con Angelo, appena tornato da due mesi di corso intensivo a Harvard. Siamo andati al Merendero, dove fanno le insalate più buone di Como, e nel tavolino accanto avevamo una coppia di ventenni, lui un bel ragazzo, occhi azzurro cielo, lei una biondina carina davvero. Lo scrivo perché mi hanno fatto sorridere, dopo un'ora e mezza che eravamo lì, e io e Angelo parlavamo fitto fitto, estranei in qualche modo da tutto, e lui mi illustrava i casi che ha affrontato (il corso che ha fatto, da quanto ho capito, potrei riassumerlo con: "Prendere decisioni") e io lo incalzavo con mille domande. E' così che discutevamo della strategia usata da Kennedy per affrontare la crisi dei missili a Cuba, sfruttando gli errori che aveva fatto pochi mesi prima nell'invasione della Baia dei Porci; o dell'amministratore delegato della Ibm, che ha spiegato come s'è riconvertita quando pareva destinata a colore a picco; o del quotidiano Usa Today, che è riuscito ad evitare la crisi non tenendo separata il giornale stampato su carta da quello sul web; o delle innovazioni che porterà l'Ipad sul modo di comunicare e di passare il tempo libero... Cose così insomma, che tuttavia hanno finito per appassionare i nostri due vicini di tavolo, che non osavano interromperci, ma si capiva che erano interessatissimi. Entrambi! Non solo lui, che magari trascurava lei o viceversa: tutti e due, credo incuriositi non solo degli argomenti certo non convenzionali, ma anche dalla passione che entrambi metevamo. Quando ci siamo alzati, per farla breve, ci hanno salutato timidi, pensando probabilmente: "Chissà chi erano questi due?".

giovedì 3 giugno 2010

L'unione e la forza


Oggi è una data speciale: due anni esatti fa era il primo giorno al mio attuale posto di lavoro. Non la metto giù dura, perché poi - me lo hanno già fatto notare - ripeto sempre quanto mi sento fortunato e finisco per stancare. Dico solo due cose di cui sono grato. Primo: la possibilità di poter imparare ogni giorno cose nuove, di essere apprezzati quando si ha un'idea originale, quando si propone qualcosa e si viene ascoltati. Secondo: l'opportunità di trasformare in pratica la teoria. C'è un aspetto invece sul quale dobbiamo ancora investire, che merita un impegno condiviso: la capacità di fare gruppo. Lo scrivo conscio di avere a che fare con persone in gamba, ma un conto sono i singoli, un altro è fare squadra. Ed è per questo che quando Gisella ha appeso nel nostro settore della redazione un enorme bandiera dell'Inter, invece di farla togliere immediatamente (per me che sono bianconero fino al midollo l'Inter ha l'effetto dell'aglio sui vampiri) l'ho lasciata senza fiatare. Il motivo è proprio questo: vorrei che la cronaca di Como imparasse dall'Inter di quest'anno cosa significa fare gruppo, remare tutti nella stessa direzione, non sacrificare l'abilità del singolo, ma metterla a disposizione di un disegno affinché sia raggiunto l'obiettivo.

"E vabbé, ma tu non sei mica Mourinho..." mi faccio già l'obiezione da solo. E' proprio per questo però, perché non sono mica Mourinho e neanche Guardiola, Leonardo, Capello e neppure Oronzo Canà, che i miei colleghi devono essere ancora più bravi, per supplire alle mie mancanze, per compensare le lacune. Tra un anno vi dico se lasciare la bandiera ha funzionato...
Foto by Leonora