giovedì 27 luglio 2023

Mario Landriscina (Il non ancora sindaco)

Tutto passa, tutto se ne va. L'ho scritto allora, vale altrettanto adesso.
È passato anche lui, da sindaco di Como, ma questa è un'altra storia e forse pure lui un altro uomo rispetto a quando l'avevo intervistato.
E io, che lavorando nel frattempo a Bergamo non ho potuto seguirlo nell'esperienza amministrativa del capoluogo lariano, non saprei dire se abbia fatto bene oppure male, anche se certo la fine del suo mandato ha sancito un’abdicazione o, a leggerla con occhi altrui, un fallimento.
Come mai sia successo, cosa sia veramente accaduto, quale sia lo snodo dirimente tra amministrare bene - per giudizio quasi unanime - un'unità operativa fondamentale nel comparto pubblico ed essersi invece incartato nella gestione di giunta comunale e consiglio, non sapremmo dire.
Soltanto la storia, forse, potrà farlo, restituendo un giudizio meno miope e presbite, sia sul dritto, sia sul rovescio. Certo è che mi piacerebbe incontrarlo di nuovo e di nuovo chiacchierare con lui, senza filtri, da uomo a uomo, per sentire la sua versione della storia, prestando ascolto per una volta al lupo e non alla versione della storia narrata dal cacciatore e da Cappuccetto Rosso.

La mano sicura al volante. Brezza che sfiora il viso, fa socchiudere gli occhi e i capelli scompiglia. Liberi e leggeri. Senza paura né meta. Padroni di sé, del proprio destino, del mondo. Rombano il cuore e il motore. Una curva. Il cigolio dei freni sulla strada, le ruote che strisciano. Terrore, in un colpo. Lo schianto. Buio e silenzio.
Poi le luci, che brillano, lampeggiano, accecano. Rumori. E voci. Cento voci, confuse. Gente che urla, ordina, grida, invoca, si lamenta, piange, implora, prega, impreca.
Una vita, legata a un filo di speranza. Quel filo è in mano loro: gli uomini del 118. Mario Landriscina ne è il capo.
«Sono stato nominato da altri - dice - ma ho la convinzione di essere stato scelto da loro». I suoi ragazzi, volontari compresi. Una squadra.
È chiamata “unità operativa” e non è un caso. La coesione è palpabile. «Devo dire che siamo un buon gruppo». Famiglia, suggeriamo noi. «No, non siamo una famiglia» ribatte lesto lui. «Sarebbe un errore. Uno sbaglio che per primo ho fatto io. Quando sono arrivato avevo l'illusione che si potesse andar tutti d'amore e d'accordo, ma non è stato così. Con gli anni ho capito che è giusto rispettare le amicizie individuali e le personali antipatie. Ciò che conta è la disponibilità a lavorare insieme per un obiettivo».
Non occorrono molte domande per farlo parlare. Riflette a voce alta. Intimo e dolce, nell'istante in cui dimentica di aver accanto un interlocutore in carne ed ossa o quando intravede avanti a sé non il cronista, ma l'uomo che ascolta. In altri momenti, più lezioso. Quasi retorico. Una retorica, però, fatta di lettere minuscole. Che bandisce il motto e l'iperbole linguistica.
«Credo nell'autorevolezza che viene dall'esempio. Dobbiamo avere l'ambizione di porre l'uomo al centro dell’attenzione, affinché il singolo individuo cambi atteggiamento e il “sistema popolazione” cresca in cultura».
Cultura della vita. Un'espressione che usa sovente, associandola a un’altra: prevenzione.
«Ho girato molte scuole, con l’amico Roberto Campisi, comandante della Stradale, per sensibilizzare sull'importanza di essere prudenti, di usare il casco. Uno sforzo che comincio a pensare inutile. Lo scriva pure».
Una constatazione amara. Gli incidenti continuano ad accadere e nella quasi totalità dei casi sono gravi proprio perché non sono rispettate le norme minime di sicurezza.
Man mano che il suo discorso procede, tuttavia, si comprende che sull'altare della prevenzione Landriscina è disposto ad immolarsi ancora, continuando nella vita di tutti i giorni a professarne il verbo.
«Ho visto che è arrivato con il casco in testa, bravo. Sarei più tranquillo se usasse quello integrale».
Per quanto possa essere sprecato, ogni parola di buon senso fa valer la pena di impiegare il fiato. La sua non è una resa, bensì una provocazione.
Un modo di pungere. Proprio come fa per argomenti che conosce altrettanto da vicino. A cominciare dalla sanità.
«Sul futuro del Sant'Anna i politici non hanno progetti poiché assorti in altri pensieri e dominati da un male terribile: il pensare al quotidiano».
«Bisognerebbe avere il coraggio di interrogare i bravi medici che dai vari reparti se ne sono andati, per capire le ragioni di una scelta che, son certo, è stata sofferta».
«Dei nostri stipendi bassi non parlo, ma posso assicurare che qui nessuno si ferma per denaro. Esiste piuttosto uno sconosciuto motivo che ci tiene legati a questa struttura. Se però mi fosse chiesto in cosa questo motivo consiste, non saprei cosa rispondere».
«Sventurato è l'ospedale che non ha studenti e che non investe in ricerca».
Grande e grosso, sotto gli spessi baffi, Landriscina sa esser burbero.
«Ci sono state persone che hanno deciso che la nostra unità operativa non era il loro posto» esclama a un certo punto, non sorridendo nemmeno dell'eufemismo usato.
«Nel nostro servizio non possiamo permetterci un difetto di disciplina. Insieme stabiliamo le regole, a me spetta il compito di verificare che siano rispettate».
Severo. Persino duro, quando serve. O, meglio, rigoroso. Come suo padre.
«Sono nato poco dopo la fine della guerra. Vivevamo, a San Donnino. Mio papà era un insegnante. Fu maestro elementare, poi diventò professore alle superiori. Aveva un altissimo senso del dovere e voleva bene alla sua gente. Un tumore se l'è portato via, ma ricordo con piacere anche il tempo della sua malattia. Parlavamo a lungo».
Tutto passa, tutto se ne va. Alla precarietà Mario Landriscina è abituato. Precaria è la vita di chi viene soccorso dal 118 ogni giorno. Precaria la sua occupazione, primario non di ruolo. Precario il posto in cui lavora, una scatola prefabbricata, con pavimento che scricchiola sotto i piedi e pareti di latta che tremano quando l'elicottero, pur distante, si alza in volo. Eppure, in nessun altro luogo in cui siamo stati, abbiamo avvertito tanto nitido il senso dell'ordine e dell'efficienza. Il servizio di emergenza è un lavoro di frontiera e non ammette distrazioni o debolezze.
«Ho scelto la facoltà di medicina per una visione romantica di questo mestiere. Per quanto riguarda la specializzazione, è stata un caso. Un'amica del nostro gruppo di giovani rimase coinvolta in un incidente e io ebbi il compito di accertare come stava. Così conobbi il dottor Cesare Matteucci, il mio maestro».
Una cerchia, quella dei maestri, a cui non ci stupiremmo se venisse iscritto lo stesso Landriscina. Un ruolo che non è codificato sulla carta, bensì conquistato sul campo, mettendo in discussione sé stessi. Un titolo che appartiene a pochi: tutti coloro che hanno imparato come, nella vita, non si smetta mai di imparare.

17 settembre 2000

mercoledì 26 luglio 2023

Viviana Ballabio (L'atleta tenace)

La prima atleta che in vita mia ho intervistato, ben prima dell'incontro per questo articolo. La più "normale" tra le speciali che hanno vinto tutto. Una donna che dell'esistenza ha sperimentato il dritto e pure il rovescio. A Viviana Ballabio sono legato da più motivi e se scelgo la data odierna per ripubblicarne il suo "ritratto" è perché oggi compie gli anni, volendo così con queste parole fare un regalo, per primo a me stesso.

Per incontrarla, siamo tornati a casa. Seduti fianco a fianco, sulle tribune di un palasport che per anni abbiamo frequentato. Il tempo non si è fermato, ma basta un sorriso, una parola, uno sguardo per riattivare il circuito delle relazioni umane.
Viviana Ballabio, capitano della squadra femminile di pallacanestro del Pool Comense. Viviana Ballabio, ovvero l'elogio della normalità. Perché un talento eccelso la natura in dono non le ha portato. Niente polmoni capaci di sbuffare come caldaie o il fosforo di uno stratega geniale, né la mira infallibile di un formidabile cecchino. Di straordinario Viviana ha soltanto la forza della volontà. Ed è ciò che l'ha condotta lontano.
Nulla le è stato regalato. Quel che ha, se l'è preso sul campo. Giocando ogni partita come fosse l'ultima e terminando ogni volta fiacca e molle come un sacco svuotato. Ecco perché, a trenta tre anni compiuti, ammiriamo ancor più il suo stare al gioco. Abituata fin da ragazzina a competere con chiunque per ritagliarsi un posto in squadra, Viviana tra i due canestri non ha mai cercato il risparmio. E nemmeno riesce a farlo ora, che pure gli acciacchi e la stanchezza consiglierebbero prudenza e parsimonia. Potesse almeno imitare Mario Corso, che aveva nei piedi un tesoro e per gran parte dei novanta minuti si permetteva di cercare l'ombra in un prato dove gli alberi non crescono. Ma tirarsi indietro non può e non deve. Fosse nata uomo e avesse giocato a calcio il destino di Viviana non poteva essere che quello del mediano. Cuore grande e vita breve. Sportivamente parlando, si intende. Invece è ancora lì, ad inseguire ragazzine e a tirar manate ad un pallone. Stanca e rassegnata, ma non sconfitta.
«Con il nuovo allenatore si lavora molto e dopo ogni allenamento o partita che sia, mi accorgo di fare una gran fatica a recuperare. In più, non sto benissimo fisicamente. Mi tormentano cento fastidi, ma non mollo. Voglio riuscire a concludere la carriera in bellezza. La stagione scorsa non è stato possibile, spero avvenga quest'anno».
Stringe i denti, come sempre. Si rimbocca le maniche, abbassa la testa e pedala. Pure senza bicicletta pedala. Nei suoi occhi la luce splende ancora, anche se ormai è quella del tramonto.
«Penso sempre più spesso a cosa farò dopo, come impiegherò il mio tempo, che lavoro sceglierò. Non ho deciso ancora nulla. L'idea di rimanere nel settore, pur con un altro ruolo, non mi dispiace, ma neppure mi entusiasma. Certo alla Comense sono legata, ma non è scontato che nei piani futuri della società rientri io. Chissà, forse potrei esaudire qualche sogno. Come andare a curare le foche monache, in qualche fiordo lontano».
Mentre parla si torce i capelli. Distrattamente infila tra le ciocche e i riccioli scuri le dita. Un vezzo che ha sempre avuto. La concessione più civettuola di una ragazza poco abituata ai belletti e ai fronzoli della vanità. C'è infatti un'unica gara che vede Viviana sconfitta in partenza: la corsa all'estetista o al parrucchiere. Eppure in poche altre donne traspare una femminilità tanto intensa e vera. Una femminilità fatta di contrasti. Fragile e forte insieme. Tenera e tenace. La prima volta che l'intervistammo, dodici anni fa, scrivemmo che era dolce. Non abbiamo cambiato idea.
«Eppure cambiare idea è un segno di maturità. Io, ad esempio, quando è arrivato Aldo Corno, l'allenatore con cui abbiamo vinto tutto, ero disperata. Avevo una pessima opinione di lui e non lo sopportavo. Un'antipatia contraccambiata, tant'è vero che lui voleva cacciarmi via. Poi ci siamo conosciuti, chiariti, spiegati. È servito del tempo, molto tempo, ma alla fine ci siamo compresi a vicenda e credo che non potevo avere maestro migliore».
Guarda il campo vuoto e sorride. Ne ha viste e sentite tante il PalaSampietro, ma non ne racconta nessuna. Conserva geloso i segreti che vi sono custoditi.
Come nella favola del Re Leone, la storia di ognuno rientra nel cerchio della vita che, chiudendosi, ogni volta si rinnova.
«Quando ho iniziato a giocare non vedevo nulla oltre la pallacanestro. Respiravo, mangiavo, vivevo per il basket. Negli anni '90 è venuto il tempo della maturità. Eravamo un gruppo omogeneo, compatto e motivato. Non erano sempre rose e fiori e a volte si creavano forti antipatie, come tra Fullin e Gordon. Ognuno però voleva vincere e ciò faceva appianare qualsiasi contrasto. L'attuale gruppo è formato da giovani, che cercano di ritagliarsi con le unghie e con i denti un po' di spazio e da atlete come Zara e Paparazzo, consapevoli del loro valore e che hanno raggiunto uno standard altissimo di qualità. Infine ci sono io, che ho il futuro ormai alle spalle, ma che credo ancora di poter rendermi utile».
Beata modestia. Non finta, però. Brianzola autentica, abituata a contare le monete e a misurare le parole, Ballabio non è il tipo da portarsi appresso i numerosi trofei che ha vinto, tanto meno tutti i giorni, come fossero caricati su un carretto.
«No, non penso mai ai campionati o alle coppe che ho vinto e tanto meno al fatto che verrò ricordata in futuro».
L’ora dell’allenamento si avvicina. Dallo spogliatoio si affacciano le prime cestiste in braghette e canottiera. Dalla tribuna si sente guaire. Per tutto il tempo se n’è stato silenzioso, ma ora reclama un po’ di attenzione anche per sè. Si chiama Douce, è un barboncino. Da dieci anni la accompagna ovunque. Nessuno conosce Viviana meglio di lui, ma non può parlare. Anche stavolta ci dovremo rassegnare. Peccato capiti a noi di scrivere da cani, ma non il contrario.

22 ottobre 2000

sabato 15 luglio 2023

Padre Mario Testa (Il preside parroco)

Pure questo è uno dei molti incontri che ricordo vagamente o niente affatto. Tuttavia, nel rileggerli, comprendo di essere stato davvero ispirato, confermando la regola che più il personaggio è schivo, più occorre per chi lo intervista spirito indagatore, desiderio di cogliere l'essenza, il punto dritto ma anche il rovescio. Per questo, ne sono certo, è uno degli articoli che ad Adolfo, colui che volle fortemente questa galleria di personaggi, sarebbe piaciuto, mentre sono curioso di sapere se un briciolo di vero lo ritrovano i molti studenti del Gallio che lo hanno avuto per insegnante o preside.

A Villa Guardia, in una scuola che sormonta un prato incolto e una spianata di polvere e ghiaia, il tempo si è fermato. O forse, più semplicemente, siamo noi ad essere tornati indietro. In un fazzoletto di terra, una nuvola di ragazzini insegue un pallone. A far da arbitro, un prete. Padre Mario Testa, l'altro ieri come trent'anni fa. Cambiano gli attori e lo scenario, non il copione.
Un uomo basso, robusto, con una capoccia di dimensioni notevoli, che rende onore al cognome.
Un prete vestito da prete, un Padre che si comporta da padre. Una vita spesa nella scuola come educatore, insegnante, preside, persino rettore, ma con lo stile, la semplicità e anche la praticità di un parroco.
Un'intuizione raccolta quando ci è venuto incontro e di cui ci siamo convinti una volta accomodati nel suo studio, valutandone l'arredamento e verificando a spanne la posizione dell’ufficio.
Per mezz'ora abbiamo rinviato di approfondire l'argomento, ma prima di congedarci, con la meticolosità dell'investigatore che vuol dare fondamento a un giudizio che si è già fatto, gli abbiamo domandato: "Questo è sempre stato l'ufficio del preside oppure lo ha scelto lei"?
Di aver colto nel segno lo abbiamo compreso prima ancora che egli proferisse parola, scorgendogli agli angoli del volto un accenno di sorriso.
«No, prima che arrivassi la presidenza era sopra, accanto alla segreteria. Sono stato io a volerla spostare».
Un locale alto, al pianterreno, sistemato proprio a fianco dell'ingresso. La porta sempre aperta («Così i ragazzi spiano, entrano, curiosano, mi parlano, si sentono insomma a loro agio»). Come quella di un buon parroco, appunto.
Soltanto che i fedeli della sua parrocchia non superano mai la giovane età. Per fortuna, non per disgrazia.
Se l'avessimo conosciuto prima, potremmo precisare se in questi anni, da quando ha lasciato il Collegio Gallio di Como per assumere la direzione dell'Istituto Santa Maria Assunta di Villa Guardia, è fisicamente cambiato. A naso, giureremmo di no, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco. Azzardo che invece sottoscriveremmo se si trattasse di scommettere sul fatto che egli abbia conservato un carattere equilibrato, discreto e paziente. Qualità preziose quando si vive gomito a gomito con schiere di bambini e adolescenti.
«Io cerco di stabilire con loro un rapporto di confidenza e di fiducia. Credo di essere autorevole, ma non autoritario, puntando più sull'esempio che sulle parole».
Il pensiero di diventare sacerdote Mario Testa cominciò ad averlo cinquant'anni fa.
«I miei genitori erano operai, abitavamo a Mantegazza, vicino a Rho. Poco distante da noi sorgeva il seminario dei padri Somaschi e dopo il mio decimo compleanno chiesi a mia madre di iscrivermi. Quando tornò a casa, dicendomi che aveva fatto ciò che le avevo chiesto, per un istante mi si bloccò il cuore. Non fu un pentimento. Piuttosto mi resi conto, quasi fisicamente, che l'infanzia spensierata stava per finire. Eppure, in tanti anni non c'è mai stato un istante in cui abbia avuto un solo ripensamento su quella mia decisione».
In seminario, a Corbetta, nei pressi di Magenta. Poi a studiare a Camino Vercellese, a Genova e infine teologia a Roma. Ricevuto il sacramento dell’Ordine, il primo incarico gli viene assegnato a Milano, ma è intorno a Como che si declina la sua missione educativa.
«Al Collegio Gallio arrivai negli anni '60 e in tanti anni mi sono occupato davvero di un po’ di tutto. Nel 1976 fui scelto per succedere a padre Pigato come preside del Liceo Classico».
Non è facile sostituire un monumento. Se anche ci si abitua al piedistallo, il rischio di cadere è sempre alto. Non gli è capitato. Anzi, dicono che il meglio di sé padre Testa lo abbia dato da rettore, quando ha saputo gestire il Collegio con sapienza. La stessa accortezza che egli ha usato a Villa Guardia.
«Quando le suore del Buon Pastore si sono fatte da parte, ho seguito personalmente le trattative per subentrare e i superiori hanno poi deciso che fossi io a iniziare il cammino. Sono stato fortunato, poiché il corpo insegnanti era di spessore. Gli unici aggiustamenti li ho dovuti dare alla struttura».
Spostando il suo studio, ad esempio. Ma anche usando quello spirito di iniziativa che il Signore, evidentemente, gli ha portato in dono.
Perché padre Testa guarda al cielo, non scordando però di tenere i piedi ben saldi per terra. Continuando a cimentarsi con gli affari di questo mondo e soprattutto non scordando mai che l'educazione dei più piccoli è in cima alla sua missione.
«Le esigenze dei ragazzi sono sempre le stesse, anche se si manifestano in maniera diversa, più esuberante, più vivace. Ma ciò che li muove, ciò che cercano non è mutato: essere rispettati come persone, poter contare su tranquillità e valori su cui fondare la propria vita».
"Uscire con prudenza" recita un’iscrizione sul lato interno della colonna che sostiene i battenti del cancello dell'istituto. Dal lato opposto, chi arriva dalla strada maestra può notare una targa con un cerchio rosso sbarrato di bianco e la frase: "Divieto di accesso, proprietà privata". Cartelli qualsiasi, niente di anormale, dunque. Tuttavia non ci saremmo stupiti se lui avesse fatto stampare qualcosa di simile a "Entrate con speranza" e "Uscite con coraggio". Due motti che non avrebbero stonato. E se anche padre Testa di suo pugno non li ha scritti, è ciò che generazioni di ragazzi in quest'angolo di mondo hanno certo da lui imparato. Dio gliene renda merito, gli uomini pure.

28 maggio 2000

giovedì 13 luglio 2023

Cia Marazzi (La missionaria pungente)

Nulla. Assolutamente nulla. È ciò che mi ricordo di lei, pure se strizzo le meningi e tiro come da un argano la memoria. Eppure, a rileggerle ora, non banali sono state alcune sue riflessioni, certi suoi spunti, anche come indicazione "pastorale" sull'importanza del sentirsi "in missione", una tensione che ora più che mai manca.

Una donna tutta casa e chiesa, potremmo scrivere, se a casa non restasse così poco. A settantaquattro anni la professoressa Marazzi (per l'anagrafe Angela Maria, per tutti gli altri, semplicemente Cia) ha una vitalità inesauribile. Un fiume d'energia disperso in mille rivoli. Che confluiscono tutti nello stesso fiume: la parrocchia. O nella diocesi, che altro poi non è che una parrocchia grande.
Alla medesima stregua Cia Marazzi tratta il Vescovo: come fosse un parroco. Il parroco che monsignor Maggiolini non è mai stato. «Insomma, un conto è operare nella Chiesa locale, un altro è insegnare all'Università Cattolica, magari occupandosi del Marianum».
A questo punto una precisazione, più che opportuna, è indispensabile. Ascoltando per una manciata di minuti Cia Marazzi siam riusciti a raccogliere, riguardo al Vescovo di Como, più curiosità che in tanti anni di lettura di cronache curiali e mondane. Tanto che ci sarebbe bastato ricopiare gli appunti per occupare non soltanto lo spazio di questo articolo, ma la pagina intera. E senza timore di annoiare, perché il modo in cui Cia racconta le cose ha di per sé brio a sufficienza da tener svegli ventiquattr'ore. Tuttavia non lo facciamo. Per due semplici motivi. Innanzi tutto, troppo importante è il Vescovo e troppo maliziosi sono gli occhi che gli son puntati addosso per non rischiare di tramutare anche il più simpatico degli aneddoti in un'ombra.
Secondo, messe nero su bianco le sue parole potrebbero sembrare pettegolezzi carpiti origliando in sacrestia, mentre non sono altro che le genuine confidenze raccolte in molti mesi di frequentazione ecclesiale. Fatti e opinioni riportate con la complicità con cui i fedeli più devoti parlottano sulle soglie degli oratori o sul piazzale della chiesa. Considerazioni a volte taglienti, è vero, ma che rivelano sempre un fondo di bontà. Un calore umano capace di smorzare ogni critica con un silenziatore. Lo stesso silenziatore che abbiam voluto mettere noi a quanto ha detto. Non per evitare imbarazzi a Maggiolini, che essendo abituato ad entrare nel vivo di polemiche aspre e delicate, si sarebbe fatto certamente due risate, bensì per impedire ai maligni di veder una pagliuzza di scandalo dove invece ci sono soltanto travi di affetto.
Un affetto che non fa desistere Cia Marazzi dal criticare il suo Pastore («Non gliene faccio passare una»), ma che la induce anche a difenderlo quando tutti gli puntano il dito contro («Lui a volte è un Pizzighetti che non sta zitto, ma anche coloro che a volte attacca non sono i santi che vorrebbero apparire»).
La Chiesa di Como. Il suo mondo. L'Azione Cattolica, la catechesi, la pastorale. La sua vita. In un'ora e mezza non siam quasi riusciti a parlare d'altro. Non passa giorno che a piedi non percorra avanti e indietro due, tre, quattro volte le centinaia di metri di via Torno, dove abita, per recarsi a Sant'Agostino, in Duomo, al Centro Pastorale.
Una vocazione forte, a cui ha risposto senza alzare la voce, mettendo in moto i piedi.
«Scarpe numero trentasette» risponde a chi le chiede come riesca a far tante cose senza avere né auto né patente.
«Il futuro della Chiesa si gioca nella riscoperta del senso di missione. Oggi più che mai bisogna andare». Lei va. Nella Cooperativa di Cavallasca, nei condomini di Rovellasca, nelle sale di Como città.
Ha scritto lo storico inglese Thomas Macaulay: "La Chiesa Romana conosce alla perfezione quello che nessun'altra Chiesa ha mai saputo: cosa fare degli entusiasti". Non si era sbagliato.
Per la diocesi Cia Marazzi lavora, scrive, insegna. Un mestiere, quest'ultimo, a cui è abituata. L'ha fatto per cinquant'anni. Quarantuno al servizio dello Stato, gli ultimi nove dalle suore, a Maccio di Villaguardia.
«Fin da bambina volevo fare la maestra. Non sapevo ancora parlare, ma comandavo già» precisa sorridendo.
«Mi sono laureata in lingue straniere all'Università Cattolica, insegnando in asili e scuole elementari, commerciali, industriali, medie. Ero severa, ma non ho mai mancato di rispetto per la persona umana. A Erba, Albese, Albavilla, terra di gente generosa, ma anche dura, brianzoli con sangue spagnolo nelle vene. Anche da preside, credo di aver lasciato un buon ricordo. Quando è stato il momento di andare in pensione le suore del Buon Pastore mi chiesero di dar loro una mano. Me ne sono andata dopo aver fatto in modo che l'istituto passasse sotto l'egida dei padri del Gallio. Almeno lì non è arrivata Comunione e Liberazione».
Eccoci di nuovo. A fatica ci eravamo scostati da tonache, altari e fumo di candele e in men che in un baleno, senza neppure avere il tempo di accorgercene, siamo tornati indietro. Troppo forte la tentazione, troppo interessante il problema, identico il modo di affrontarlo: non lasciando perdere nulla, ma perdonando tutto.
«Prima le Orsoline di Como, poi quelle di Roma e il Buon Pastore di Milano. A poco a poco Comunione e Liberazione sta mettendo le mani su tutte le scuole cattoliche. Bastava essere a San Pietro, qualche giorno fa, per rendersene conto. Però bisogna ammettere che ci sanno fare. E quando siamo andati dal Papa hanno avuto almeno il buon gusto di non mettere striscioni di parte».
Cia Marazzi per scelta non si è mai sposata. «Non crediate però che sia nata a settantaquattro anni. Ho avuto anch'io le mie passioni» precisa vispa.
Attualmente gode di buone letture e di ottima salute. «L'ultima volta che ho visto il medico è stato dieci anni fa. Ero andata per misurare la pressione. Ma non la mia, quella di mia mamma, che è morta parecchio tempo dopo, mentre si stava pettinando, senza aver fatto un giorno di malattia. Aveva novantadue anni». Dio l'abbia in gloria. E si ricordi della figlia. Non dimenticandosi pure il dottore, che nel frattempo è andato in pensione.

28 novembre 1999

mercoledì 12 luglio 2023

Martino Verga (Il sussurratore ammaliante)

Debbo moltissimo ad Adolfo Caldarini, il mio direttore dei tempi del Corriere, la cui stima mi è stata da spunto, oltre che da sprone, per ciascuno degli oltre centoquaranta "ritratti" di comaschi illustri, da lui fortissimamente voluti.
Il guizzo vivace nei suoi occhi ogni volta che leggeva la bozza dell'articolo valeva assai più di qualsiasi compenso, così come il cenno di approvazione finale, spesso con qualche sottolineatura.
Un rituale con rarissime eccezioni. La più clamorosa - e dolorosa - è legata per me a Martino Verga, una tra le persone che tra l'altro ho ammirato di più, avendo la fortuna di frequentarlo anche successivamente a quel primo incontro.
L'intervista che ne uscì, infatti, non piacque per nulla a Caldarini, che da galantuomo qual era non me lo nascose, dandomi così un dispiacere e insieme una lezione. "Giorgio! - esclamò, chiamandomi nel suo ufficio - Giorgio... Sai quanto ti stimo, vero? Però sai anche perché ti stimo? Ti stimo perché mi piace come scrivi ma più ancora perché hai un dono: riesci a cogliere l'essenza delle persone e a trasmetterla in poche righe. Stavolta invece hai scritto poco o nulla di Martino e invece hai fatto un pippone su quello che fa, che dice. Ti prego, rifalla".
Così la riscrissi. Non tutta. Una parte, poiché mancava poco ad andare in stampa, aggiungendo tuttavia qualcosa che in effetti mancava.
A un quarto di secolo di distanza lo ricordo ancora e qui ne voglio segnalare pure il motivo: Martino Verga era talmente appassionato del suo lavoro, di ciò che faceva, che ha finito con il contagiare anche me, che ho quasi scordato lui, ammaliato e affascinato, quasi ipnotizzato, da quel suo modo lieve e piano di parlare, quasi sussurrando.

Il paragone, più che ardito, appare sfrontato.
L’uno “mostro gigantesco, non simile a uomo che mangia pane, ma a picco selvoso tra alte montagne”. L’altro, laureato in chimica e biologia, industriale nel settore alimentare. Il primo, prepotente e sciagurato, figlio di Poseidone. Il secondo, tranquillo e misurato, discendente da una famiglia che da quattro generazioni si occupa di impresa e affari. Quello, capace di lanciar massi grandi quanto “un cucuzzolo di un gran monte”. Questo, abile nel l’usare il cervello. Nulla sembra più distante di due siffatti opposti.
Eppure Polifemo e Martino Verga qualcosa in comune hanno. “Subito fece cagliare una metà di quel bianco latte” recita Omero, cantando del ciclope le gesta. Polifemo la sapeva lunga, per farla breve, in fatto di latte e formaggi. Proprio come Martino Verga, titolare di aziende che si occupano di biotecnologie.
Lo precede una fama ingombrante. Ci hanno detto che è intelligente. Quando ci fa accomodare nel suo ampio ufficio, che alle pareti ha appese tele che rappresentano mucche («i clienti vedono le loro bestie e sono contenti»), le aspettative nei suoi confronti sono elevate. Non ne restiamo delusi. L’aspetto cortese, quasi dimesso, non trae in inganno. Martino Verga possiede un dono raro: esser semplice, ma non banale; presentare dei fatti le conseguenze, non desistendo dal ricercarne le cause. Ciò a prescindere dall’argomento interessato, che si tratti di teorie scientifiche o della presentazione della sua principale attività.
«Il Caglificio Clerici, seleziona enzimi da impiegare nel settore lattiero caseario. La Sacco, acquistata dodici anni fa, produce fermenti lattici e microrganismi per l'industria alimentare».
Bastano poche parole per svelare l’arte del suo mestiere. Conciliare una trovata antica quanto il mondo con le esigenze e le innovazioni tecnologiche attuali.
«Dall’alba dei tempi l'uomo ha imparato a far fermentare gli alimenti per conservarli. Fino a pochi anni fa, per cagliare il latte, si immergevano pezzetti di stomaco animale che, rilasciando enzimi, consentivano la coagulazione. È evidente che ripetere pari pari quest'operazione oggi non tutelerebbe affatto l'igiene, perciò, utilizzando lo stesso principio, selezioniamo chimicamente gli enzimi per cagliare il latte. Medesimo discorso vale per la produzione di microrganismi. Un tempo, quando il contadino mungeva, nel latte cadevano anche alcuni microbi. Questa flora batterica dava un gusto particolare al formaggio. In Val d'Aosta si otteneva la fontina, in Campania la mozzarella, in Svizzera l'emmental coi buchi e così via. Nel latte cascavano anche microbi pericolosi, portatori di tubercolosi o altro. Per questo il latte deve essere pastorizzato, eliminando tutti i microrganismi. È necessario allora raccogliere tutti i microbi buoni, selezionarli, pulirli e fornirli ai caseifici per differenziare i sapori dei vari prodotti».
Un mestiere complesso, che necessità di continua ricerca. Per associazione di idee non possiamo non chiedere della collaborazione con l’università.
«All’Unione industriali si parla molto di questo rapporto aziende-università. A Como ci sono difficoltà ad instaurare un rapporto proficuo. Ritengo che dipenda dalla tipologia aziendale. Per il tessile, ad esempio, le tecnologie non sono in rapidissima evoluzione, per cui la ricerca è meno importante e collaborare non diventa una necessità. Per noi è il contrario e la risposta dell’università è indispensabile».
Avviato il discorso, non resistiamo alla tentazione di metterlo alla prova su un tema affascinante, ma che raramente si concilia con l’ambizione al profitto di un imprenditore. Ricerca può voler dire manipolazione genetica, cioè i confini etici del proprio lavoro, dove la domanda diventa un abisso.
«Di principio sono assoluta mente contrario a certe tecniche. Se però in futuro il mercato dovesse accettarle, potremo ignorarle? Almeno centodieci famiglie contano sul nostro lavoro. Sentiremmo di aver la coscienza a posto se non ci preparassimo? Certo i rischi sono notevoli. È scontato condannare la manipolazione su esseri umani, ma ci sono settori in cui la questione è più sottile ed egualmente pericolosa. Pensiamo all’inquinamento ambientale. Fino ad ora si è sempre parlato di quello chimico. Le acque sporcate delle tintostamperie, i gas di scarico delle automobili, eccetera. Meno evidente, ma altrettanto dannoso può essere l'inquinamento biologico. Se si manipolano microrganismi, piante, animali, quando questi tornano a contatto con l'ambiente, non è che muoiano e svaniscano nel nulla. A differenza delle sostanze chimiche, queste si riproducono, invadono nicchie ecologiche, distruggono, si sostituiscono facilmente ad altre specie. C'è stata un'azienda che produceva semenze in grandissima quantità e le manipolava in modo che le piante che nascevano da esse fossero resistenti agli erbicidi, prodotti dalla stessa ditta. Qualcuno aveva ipotizzato che i geni modificati sarebbero potuti trasferirsi in altre piante, ma gli scienziati negarono tutto. Così si produsse il mais resistente. Anni dopo si notò che le erbacce, di genere e specie completamente diverse, erano diventate resistenti agli erbicidi. L'evoluzione genetica non era stata controllata. Qual è la lezione? Dobbiamo forse inventare erbicidi sempre più potenti? Non è una corsa folle?».
La fama non è stata smentita. La retorica è rimasta fuori dalla porta. Lo stesso vale per il giudizio su Como.
«Considero assai triste la chiusura di tanti negozi. In centro rimangono solo quelli di abbigliamento. È innegabile una dissoluzione del tessuto sociale. Una città è viva se ci sono possibilità per tutti. Alla fine di ogni anno sul Sole 24ore compaiono alcune statistiche. Mi ha colpito il fatto che Como è in quasi tutti i settori in posizione mediocre o cattiva. Siamo invece al terzo posto come presenza di grandi centri commerciali. Primeggiare solo in questo campo evidenzia comunque uno squilibrio. Si parla di Como città turistica, ma a parte il lago e alcuni monumenti, non esistono attrazioni come in altre città lombarde. Forse solo Sondrio e Varese non ci superano. Poi c'è troppa rissosità. Mi pare che i comaschi prendano gusto a bisticciare. Appena qualcuno ha una proposta, ecco che si alza un altro per criticare. Bisogna rifuggire dal pettegolezzo e dal litigio continuo. A parte questo Como è un bel posto».
L’analisi continua, ma ci piace finire qui. Per tutto il tempo abbiamo avuto un pensiero che stentavamo a reprimere. Tanto sforzo per nulla, poiché prima di congedarci non riusciamo a trattenerci. Complimenti per le molte candidature, abbozziamo.
La sua reazione è decisa, ma bonaria. «Basta con i borsini - replica corrucciato, senza però nascondere un sorriso - a parte che vengo pure preso in giro, quello che mi scoccia è apparire come un arrivista e un intrigante. Non è così. Desidero solo dedicarmi al mio lavoro».

11 gennaio 1998

martedì 11 luglio 2023

Vittoria (Il sole che spunta)

La notte del giorno in cui sei nata una tempesta ha divelto centinaia di piante, alcune spezzandole di netto, altre addirittura sradicandole, pur se pochi o nessuno ne conserveranno memoria.
Sarà un dettaglio ormai, ad anni di distanza, quando i tuoi occhi ciechi di neonata si saranno schiusi al mondo, limpidi e profondi - ne sono certo - quali quelli di tua mamma.
Ti hanno chiamato Vittoria e lo sei per noi, prima della nuova stirpe, continuatrice di una tradizione antica e, grazie a te, sempre nuova.
Altro non ho da aggiungere, oltre a dirti che davvero sei stata tanto attesa e voluta, ma ti vorremmo ugualmente bene se fossi semplicemente capitata, che figli e figlie sono doni pure quando hanno forma di progetto di vita.

P.S. Devi sapere anche questo, che siamo cerchi, anelli di catena, ciascuno perfetto in sé eppure parte di una linea infinita.
Impressa nella tua carne è l’impronta di una schiera infinita, un filamento di molecole della stessa sostanza delle stelle, il vero e unico miracolo rinnovato della natura.
Perciò ogni volta che ti guarderò vedrò in te decine di volti e centinaia di storie che ti hanno preceduta.
E mi perdoneranno i molti che ometto di citare in prima persona se pongo due donne in cima alla lista: le tue bisnonne in linea paterna. Avevano nome simile - Adele, Adelrosa - e destini diversi, una portata via assai giovane, passati da poco i cinquant’anni, l’altra pochi mesi fa, sull'uscio dei novanta. È a loro che mentalmente ti affido, pur se Michela e Matteo saranno bravissimi a crescerti. Intanto ti hanno chiamato Vittoria ed è giusto così, per ricordarci che sarai sempre una gioia, mai una sconfitta, e che dopo ogni notte di tempesta c'è un'alba, con il sole che spunta.

lunedì 10 luglio 2023

Giovanni Lo Gatto (Il magistrato serafico)

Lo ricordo oggi, nel giorno in cui se n'è andato un suo successore, quel Giacomo Bodero Maccabeo che ha rappresentato - tra i Procuratori della Repubblica in servizio a Como - senza dubbio una punta di diamante.
Giocatore di tennis entusiasta ed affabulatore convinto, Giacomo si distingueva da Giovanni, pur essendo della stessa pasta, nel senso che al rispetto sacro per il proprio ruolo univa uno spessore umano non comune, oltre a un rigore che sta ai magistrati come la curiosità ai giornalisti.
In più a Lo Gatto sono grato perché ha dato i natali a un'amica, Luisa, che stimo altrettanto e con la quale ho un debito di riconoscenza per aver testimoniato che chi giudica è - e deve rimanere - innanzi tutto una persona. Se poi è donna e ha sensibilità femminile, tanto meglio.

Come i soldi per un avaro. Come l'acqua per un abitante del deserto. Giovanni Lo Gatto usa le parole con parsimonia estrema. È arduo che una sua frase contenga più vocaboli di quanti se ne possano contare sulle dita di una mano. I termini egli non solo li centellina. Usa anche squadrarli, pesarli e misurarli ad uno ad uno. Con accortezza e rigore.
Non è unicamente una questione di numeri, ma anche di toni.
Giovanni è Lo Gatto non soltanto di cognome. Il felino domestico è felpato nel passo, lui nel modo di parlare.
In un aula di tribunale ammettiamo di non averlo mai visto dibattere, ma scommettiamo che neppure lì abbia mai alzato la voce.
Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Como da oltre tre decenni, Lo Gatto è un uomo di legge tutto d’un pezzo. Nel corso della sua carriera ha sostenuto l'accusa, come pubblico ministero, in migliaia di processi, ma non ce lo immaginiamo affatto accanirsi pervicacemente nei confronti di una persona, fosse anche un incallito criminale. Con una faccia come la sua, non se lo potrebbe permettere. È vero che le caratteristiche somatiche non hanno relazione con il carattere di una persona, eppure certe persone hanno nel volto alcuni tratti sottili e taglienti che rimandano ad una pignoleria e ad una inflessibilità che sovente si imparenta con il fanatismo. Non è il suo caso.
Al contrario, i suoi occhi sottolineano una certa vocazione alla bonarietà.
Lo Gatto ha il suo ufficio, al quinto piano del Palazzo di Giustizia. Un ampio e luminoso locale, in perfetta sintonia con la sobrietà dell'uomo e la dignità del personaggio.
Come mai scelse la magistratura?
«A me non dispiaceva medicina, ma la prima volta che visitai un laboratorio di patologia stetti piuttosto male e scartai l'ipotesi di diventare medico».
Non si è pentito?
«Mai. Anche se durante il primo incarico di pretore venni spesso delegato per le indagini autoptiche e dovetti fare l'abitudine a veder sezionare i cadaveri. Il destino sa essere beffardo».
Dopo essere stato a Brescia, Castiglione delle Stiviere e Intra, nel 1964 arrivò a Como. Cosa trovò?
«Tranquillità. Il reato più frequente era il contrabbando. Per rompere la monotonia ci contendevamo in Corte d’Assise qualche omicidio».
Ora invece?
«La situazione si è deteriorata. Droga, terrorismo, reati contro la pubblica amministrazione, tangenti. La condizione lariana si è omologata a quella nazionale».
Con gli abitanti di Como ha legato subito?
«C’è voluto del tempo, poi ho coltivato numerose amicizie. I comaschi sono meno esuberanti dei meridionali».
In principio parla dei comaschi alla terza persona plurale, ma l’impressione è che a Lo Gatto scappi da un momento all'altro un “noi”. Infatti accade. «Noi siamo meno estroversi - confida il procuratore - un po' più diffidenti nei confronti di chi viene da fuori, ma una volta che l'amicizia si è cementata sappiamo essere generosi». Il pronome personale non è di maniera, sottolinea un'appartenenza. Giovanni Lo Gatto è nato sessantotto anni fa a Napoli, ma della sua terra ha conservato l’accento e poco altro. Se per comasco si intende un modo di vita senza clamori, discreto, riservato, Lo Gatto comasco lo è a tutto tondo.
Oggi molte polemiche coinvolgono la magistratura. Che ne pensa?
«In sintesi, sono d'accordo con la posizione della procura di Milano».
Ma le loro toghe non sono rosse?
«Voler dare una coloritura politica al pool di “mani pulite” porta completamente fuori strada. Il pool è composto da uomini di diverse tendenze».
Certe voci fanno allora parte di un piano per screditare la magistratura?
«Ai complotti e ai disegni credo poco. Avverto piuttosto un certo risentimento, una certa insofferenza nei confronti dei magistrati da parte di coloro che, per motivi vari, erano abituati ad essere esenti da ogni controllo».
Si riferisce alle persone coinvolte in Tangentopoli?
«Soprattutto a loro. All'inizio degli anni ’90, per una serie di circostanze, si creò un clima favorevole che fece scattare un meccanismo di segnalazione delle illegalità».
E i magistrati?
«Quando si sente il sostegno dell'opinione pubblica si diventa più forti. Il contesto in cui si lavora è importante».
Quel clima favorevole esiste ancora?
«Indubbiamente si sta registrando un raffreddamento».
Scusi l'insistenza. Per parlare il vostro stesso linguaggio, questo calo di tensione può essere dimostrato attraverso dei fatti, delle prove oppure ci sono solo degli indizi?
«Lo si evince dagli atteggiamenti dei politici. Gruppi che prima sostenevano l'operazione “mani pulite”, ora hanno perlomeno affievolito il loro impegno».
C’è una via d'uscita?
«L’auspicio è che i poteri di controllo all'interno della pubblica amministrazione diventino sempre più efficaci ed effettivi, in modo che la nostra sia un'azione residuale».
In questo modo diminuirebbero i carichi di lavoro, rendendo la giustizia più rapida?
«Certamente. E qualcosa si potrebbe fare anche livello legislativo. Inasprire le sanzioni serve a poco. Il problema è la loro effettività. Occorre la certezza della pena. In Italia è questo che manca. La sentenza definitiva arriva con anni di ritardo. Nel penale almeno la sentenza di secondo grado dovrebbe essere esecutiva. E poi l'azione della Cassazione dovrebbe essere limitata ai motivi di legittimità».
Mentre parla Lo Gatto tiene in mano l’inseparabile pipa.
«È una compagna fedele da circa vent'anni. Le sigarette le fumavo anche mentre lavoravo, con la pipa non è possibile, la accendo solo nei momenti di relax».
Che altre passioni ha?
«La storia. A partire dalla Rivoluzione francese in poi».
C’è qualche personaggio che più l'ha affascinata.
«Ce ne sono parecchi, ma non faccio nomi poiché non vorrei fare un torto agli altri».
Fare torti può capitare ad un magistrato. La sua è una professione che comporta problemi di coscienza.
«Il nostro è un lavoro angoscioso. Più grave è il reato, maggiore è la perplessità nel decidere».
Ha sempre dormito la notte?
«Se non l’ho fatto era per il dubbio di una scelta, mai perché non mi sentissi in pace con la mia coscienza».

19 aprile 1998

domenica 9 luglio 2023

Eli Riva (Lo scultore ritorto)

Ci sono intervistati che non ricordo affatto e altri che mi si sono impressi a fuoco, più di un tatuaggio. L'incontro con Eli Riva è stato senz'altro questo: una rivelazione, la sensazione precisa di avere di fronte un gigante, anche se ritorto come le sue sculture di quel periodo, quasi in perenna lotta con il mondo reale, in cui l'arte non era rifugio, bensì specchio.
In più, rammento con esattezza altri dettagli: che era la vigilia di Natale, che la temperatura del suo studio ricavato in un garage era gelida, che le sue mani - al momento di stringerle - si chiusero sulle mie, come un guscio, un lenzuolo.
Anche per questo a Eli e alla sua famiglia sono sempre rimasto affezionato.

Ecce homo. Ecco l'uomo. Un Cristo nudo, spoglio, ligneo come la croce che lo ha condannato e redento. Opera fondamentale, per ammissione del suo stesso autore.
Eli Riva conserva questa sua scultura in quello che chiama studio, ma che assomiglia più ad una bottega artigiana.
Forse perché da artigiano ha cominciato e artista è diventato. Poiché se l'arte, usando le parole di Dante, è "attività da cui nascono prodotti culturali", Eli Riva è artista per eccellenza.
Colto, mai banale, pronto ad immergersi nella riflessione ad ogni spunto o provocazione, a volte perso nei propri pensieri come nella materia che plasma e modella. Eli Riva non è persona tormentata, ma assai complessa. Come se un fuoco gli ardesse dentro, spingendolo inesorabilmente a conoscere e creare, senza però togliergli armonia e serenità.
Lo raggiungiamo per un'intervista, ne ricaviamo una lezione sull'arte e sulla vita, che in lui coincidono e che si rendono manifeste in molteplici forme.
«Avevo dodici anni quando vidi un ostensorio realizzato da un cesellatore. Ne fui ammirato e il parroco mi trovò un lavoro nel laboratorio di colui che aveva realizzato quella che ai miei occhi di fanciullo era una meraviglia. Mi dissero: diventerai un abile cesellatore quando riuscirai a fare la zampina alle mosche, cioè a far risaltare nel metallo un ricciolo piccolo piccolo. Ci riuscii e capii che quella era la mia strada. Da Como passai a Milano, ottimamente retribuito, tanto che mia madre, quando portai a casa il primo stipendio, mi disse: "Non l'avrai mica rubato?". Successivamente cominciai a scolpire il marmo. Sapevo fare il piano, il tondo. Affittai uno studiolo, che chiamavo "busecca", perché era lungo e stretto. Imparai rapidamente a tagliare la pietra, perché le mie mani sono comasche, dentro di me c'è la storia dei Benedetto Antelami, dei Magistri Cumacini, dei Rodari. Guardi che mani ho - e ce le mostra di sfuggita, senza ostentazione, due mani lisce e rosse - trentatré anni di marmo e neanche un difetto.
Quindici anni fa, iniziai a cimentarmi col legno. Successe in modo strano. Un mattino d'inverno, arrivando presto coi miei cani al parco di Villa Olmo, vidi che la grande magnolia a monte, che sicuramente avevano piantato i signori Cantoni quando costruirono la villa, era caduta. Assicurai l'amministrazione comunale che se me l'avessero assegnata non ne avrei fatto legna da ardere. Ho lavorato dieci anni. Il legno della magnolia è una cosa, una cosa da... paradiso terrestre».
Di legno è anche il tavolo sul quale siamo seduti. Anch'esso cela un segreto, che solo l'occhio dell'artista e l'animo del poeta possono distinguere.
Infatti lo ignoriamo. Riva ci fa accucciare, ci invita a squadrarne i supporti, ma la nostra mente rimane vuota e la bocca muta. «Sto tentando di insegnarle a leggere. Lei sta bevendo acqua sorgiva» aggiunge bonario. «Il pianale del tavolo poggia non su gambe, ma su due sculture» "fionde" le chiama lui. «La mia scultura è entrata nell'oggetto come elemento attivo. Questo tavolo porta la mia firma, ha diritto di esistere. Ogni tanto vengono nel mio studio dei ragazzi e ne approfitto per chiedere cosa vedono nelle mie sculture i loro occhi senza vizi. Ho settantasette anni e faccio queste sculture per voi, dico. Capiscono che è un dono che viene fatto loro. Un dono. La scultura è per l'uomo, per la sua celebrazione. In questo senso mi ritengo un umanista, che usa l'arte per rivelare a se stesso e agli altri un'immagine mai rivelata. Il problema terribile dell'arte moderna».
Osservandoci in difficoltà, viene ancora una
volta in nostro soccorso. «Questa è una mia opera del 1948. Se la ruoto - e comincia a farla girare - questa donna seduta è sempre lei. Se faccio lo stesso con una struttura astratta, ogni volta che ruota dimentico quello che ho visto un attimo prima. La prima esprime un immagine esistente, la seconda esprime soltanto se stessa. Questa è l'arte moderna. Kandinskij, Mondrian, anche Picasso, per un certo periodo. Ho impiegato parecchio tempo per creare una scultura multipla-spaziale, che non abbia più una base, un fianco, un sopra, un sotto. E' l'ultima mia fase creativa». E ci mostra una mezza dozzina di sculture in bronzo, alte non più di un paio di palmi. «Tutta la scuola comasca è diventata astratta dalla sera alla mattina. Io ho pagato di persona, passando dalla figurazione alla astrazione. Queste sculture non riuscivo ad assestarle. Io per lavorare devo capire. Se non capisco, tremo. Penso di non essere preparato abbastanza. Per questa ragione lascio alcune opere incompiute. Solo quando l'immagine, il bozzetto non suscita più problemi in me allora mi sento soddisfatto».
Poco lontano ci sono una decina di disegni raffiguranti il frontone di una chiesa. Una delle ultime commissioni.
«Intendo rappacificare architetti e scultori - ci spiega - facendo capire ai primi che hanno tradito la scultura, perché pensano di essere loro i demiurghi, i creativi. E invece sono in fondo dei baggiani, come scriveva il Manzoni». E giù una risata. Una delle tante, che accompagnano astuzie e facezie. Una risata che esplode improvvisa e sonora, smorzandosi raucamente per il fumo di troppe sigarette.
Riva a Como ha realizzato la scultura di Papa Odescalchi.
«Da ragazzo, con altri aspiranti artisti, facemmo un patto strano. Nessuno avrebbe mai dovuto fare un monumento al centro di una piazza. Per la statua di papa Innocenzo c'erano una dozzina di proposte. Tutti gli altri lo volevano al centro, su un acropodio. Io pensai: guarda un po', l'amministrazione ha speso un miliardo per ristrutturare San Pietro in Atrio e io vado lì ad occupare subito questo stanzino? Non mi sembrava giusto. Il mio maestro è stato, in questo caso, Donatello, con la sua edicola angolare sul Duomo di Prato. Recentemente un amico toscano mi ha informato che per salvare quel podio di magnifica bellezza lo hanno messo in un museo, esponendo sul luogo originario una copia perfetta. Lo stessa cosa proposi insistentemente per il Duomo di Como, non venendo ascoltato, ma rimanendo della mia opinione.
Non dico queste cose perché sono bravo, ma perché sono attento. Como non è una città attenta. Non lo è per niente. Potrei farle un elenco dei delitti pesanti che ha subito l'arte a Como, ma è un periodo di festività natalizie e non voglio essere cattivo».
La poco attenta Como è almeno una città di cultura?
«Faccio una distinzione. L'informazione è una cosa, ce l'ha anche chi possiede grande memoria e ricorda molte cose. L'informazione diventa cultura solo quando determina un prodotto. Cultura e prodotto, un binomio inscindibile. Altrimenti non è cultura, è informazione e basta. E allora, al circolo culturale, preferisco la biblioteca, che è più precisa. A Como può esserci informazione, ma non colgo cultura».
Se le chiedessimo a che tipo di pietra sente di assomigliare, cosa risponderebbe?
«Ad un mattone di pietra di Moltrasio. Si dice che l'architetto Mustio, quando i Plinio l'hanno portato da Roma per costruire la villa a centro lago, rimase sconvolto nel trovare le case già costruite in pietra. A Roma erano tutte di legno. Qui le maestranze erano esse stesse architetti. Questi sono i valori semantici della nostra città. Ma a Como chi li conosce? In pochissimi».

28 dicembre 1997

sabato 8 luglio 2023

Giulio Reiner (L'aviatore leggendario)

Lo ammetto. Non ne ricordavo l'esistenza, né l'incontro che avemmo per l'intervista. E nemmeno adesso, rileggendola, ottengo memoria di allora, mentre l'orgoglio per averlo incontrato aumenta, considerato il personaggio assolutamente fuori dal comune, colui che - con un filo di retorica - potremmo definire "leggenda".

La speranza a volte è legata alle piccole cose.
«La mia vita dipende da una macchina» dice Giulio Reiner, indicando un angolo del locale illuminato dal sole di mezzogiorno. Sul tavolo, sopra tre volumi appoggiati in piano, due scatole per scarpe a mo' di leggio e quattro mollette per stendere i panni che fissano ad un cartone ingiallito un foglio scritto fitto fitto. Macchina, chiama lui questo marchingegno.
Poco più in là, un paio di occhiali con sormontata sul vetro una lente spessa come un chicco d'uva.
«Purtroppo la vista mi ha abbandonato, sono quasi cieco. Non è colpa degli occhi, è il cervello che non fa giudizio». La malattia, la sua ultima battaglia.
Giulio Reiner, ottantacinque anni compiuti l'altro ieri, è una leggenda che cammina, dopo una vita trascorsa in volo.
«Alla scuola, da ragazzo, preferivo i giochi e lo sport all'aria aperta. Nonostante la statura non eccelsa, ero capitano della squadra lariana di pallacanestro. La nostra era una famiglia di modesta condizione. Mio padre, che pure aveva studiato, aveva un negozio di abbigliamento e confezionava abiti su misura a Como. Quando sul lago vedevo alzarsi gli idrovolanti, rimanevo affascinato. Così decisi che un giorno ci sarei salito anch'io. Non avendo i soldi per farlo, impegnai al Monte di Pietà le uniche due cose di un qualche valore che avevo: l'orologio e la scatola dei compassi. Il resto me lo procurai con gli spiccioli recuperati esibendomi come saltimbanco alla fiera delle giostre che ogni anno si fermava in città per alcune settimane».
Il brevetto lo ottenne pochi anni dopo, il 7 marzo 1934, a bordo di un Breda 15 Idro. Da poco era cominciata l’avventura in aeronautica.
Una carriera salita gradino per gradino, senza sconti o scorciatoie.
«Quando fui ammesso all'Accademia ero sicuro di non riuscire a concluderla. Per recuperare il tempo perduto mi chiudevo in bagno a studiare. Per tre anni rifiutai la maggior parte delle libere uscite. Ricordo che per superare l'esame di lingua serbo-croata imparai a memoria un brano lungo due pagine. Prima che il docente incaricato potesse aprire bocca io iniziai a ripetere il tutto, parola per parola. E quando fui giunto alla fine ricominciai da capo come se nulla fosse».
Un sogno, quello di pilotare i Caccia, a cui Reiner è restato aggrappato con le unghie e con i denti, facendo leva sulla forza di volontà, ma anche sul valore del talento.
Su un divano, una dozzina di fotografie. Nella prima, a colori, il comandante delle Frecce Tricolori, gli consegna un premio, con una dedica: “A un nostro maestro”. Nella seconda, in bianco e nero, egli pare un astronauta. Un giovanotto in una tuta candida, i capelli ondulati e pettinati all'indietro, lo stemma di un cavallino rampante sul petto.
«È il simbolo del IV Stormo Caccia, 73esima Squadriglia».
Pretendere da Reiner di spiegare in pochi minuti il suo curriculum è come chiedere a Leonardo di fare il ritratto in cinque minuti della Monna Lisa. In due ore siamo riusciti appena ad iniziare.
Il resto lo abbiamo appreso dai documenti che ci ha lasciato in dote, anche se cento pagine dattiloscritte non possono ricostruire una storia. Sapere che egli ha all'attivo quasi quattromila ore di volo, che in tempo di guerra ha abbattuto oltre sessanta aerei nemici, partecipando a trecentocinquanta azioni militari e collezionando almeno quindici benemerenze, non basta per dare l'idea di chi egli in realtà sia stato.
In vita sua, l'aviatore Giulio Reiner ha compiuto imprese che la maggior parte di noi non può nemmeno immaginare.
Atterrare su un molo del porto di Genova; entrare radente al suolo dal portone di un hangar ed uscirne, sempre in volo, dalla parte opposta; esser sparato con la dinamite per salire verso il cielo con un aereo partendo da una nave.
Episodi entrati a pieno titolo nell'epica dell'aeronautica, ma che il protagonista fatica ad ostentare. Quando lo fa, per un istante la pacatezza senile viene scalzata dallo slancio e dall'irruenza di un tempo. D'improvviso Reiner lascia la sedia e scatta in piedi, mimando ogni azione mulinando le mani e alzando di tono in tono la voce fino a gridare come se tenesse un comizio. «Quella volta, a Taranto, era presente tutto il vertice della Marina, insieme ad almeno diecimila soldati e alla città intera, con sindaco e vescovo in testa, per assistere al collaudo di un aereo scagliato in volo dal ponte di una nave. Il lancio, però, fu troppo debole. Una tragedia. Io ero seduto al posto di comando, su quel trabiccolo che non ne voleva sapere di puntare il naso verso il cielo e pian piano planava verso il mare. Cento, duecento, trecento metri. Niente. Giù, sempre più giù. Ero affranto, avvilito, impaurito, disperato. Stringevo le mani sui comandi e non vedevo ormai nulla, se non schiuma e onde. Ad un tratto sentii una bava di vento sfiorare la pancia dell'aeroplano. “Dai, dai” pensai. Per un lungo istante non successe nulla, poi le ali si stabilizzarono e via, l’impennata, verso l'alto e poi in picchiata, una piroetta, una giravolta e quattro, cinque acrobazie tra lo stupore generale. Ebbene, per un mese non potei girare Taranto a piedi, tanto era l'entusiasmo della gente nei miei confronti».
Anche dopo aver lasciato l'apparato militare ed aver trovato un posto di ingegnere alla filiale della Fiat a Varese, il pericolo è stato più del suo mestiere.
In battaglia, per diciotto volte lo hanno impallinato. In cielo, in mille occasioni ha rischiato la pelle, tornando sempre sano e salvo. Per bravura, ma anche per miracolo.
«La mia fortuna è stata di poter contare su un alleato formidabile: il Padreterno. Quando ripenso a quante ne ho combinate, stento anch'io a credere di essere ancora su questa Terra».
Su questa Terra c'è ancora. Con la testa per aria, però. Tra quelle nuvole che non riesce quasi più a vedere, ma che non ha mai smesso di ammirare.

16 aprile 2000

venerdì 7 luglio 2023

Tre destini (Un incrocio)

Se ne avessimo steso la sceneggiatura per assicurarci un andamento perfetto, con lieto fine incluso nel prezzo, non saremmo stati così bravi da immaginare un giorno qual è stato.
Un matrimonio da favola sarebbe scorretto definirlo. È stato molto di più: un matrimonio vero, a immagine e somiglianza della persone che siete, della coppia che non per caso ha dato origine e compimento a tutto.
Tralascio i dettagli, che per quelli i ricordi a voce e le fotografie sapranno raccontare ogni cosa secondo il merito.
Mi limito piuttosto a questo, alla constatazione che la fortuna conta, è vero, ma altrettanto vale l’impegno messo, affinché il giorno in cui siete diventati sposi fosse in sintonia con quanto da fidanzati avete sempre dimostrato: la ricerca della convivialità, il piacere dell’incontro, la generosità nell’amicizia.
A testimonianza che “insieme” non è soltanto una parola, bensì uno stile di vita che avete fatto vostro, condividendolo pienamente con le molte persone a cui volete bene e che anche per questo bene vi vogliono.

P.S. Che nessuna sceneggiatura possa competere con la realtà lo dimostra il destino capitato in sorte alla nostra famiglia, che nello stesso giorno ha visto coincidere la gioia di un’unione, il dolore per una morte e le ultime ore d’attesa per una nuova vita.
Di voi ho detto, di Michela e Matteo e della loro bimba scriverò a breve, appena nascerà, mi perdonerete perciò, Giulia e Filippo, se in un giorno di festa, qual è questo, abbino il ricordo di una persona che della discrezione e del profilo basso ha fatto la sua cifra, nei sessantaquattro anni precisi in cui è rimasta a questo mondo.
Rita se n’è andata oggi, nel giorno del suo compleanno (altro ricciolo del destino), dopo una malattia che se l’è portata via inesorabile, pezzetto per pezzetto.
Di lei, cugina di primo grado, non voglio ricordare nulla che sia privo di senso, intendendo con “senso” quello “religioso”, che le ha fatto sempre da bussola, anche se non era tipo da voler convertire gli altri ad ogni costo, preferendo alla seduzione delle prediche, la testimonianza dell’esempio.
Il dono più bello che ci lascia è proprio questo, le figlie Ilaria e Serena ed il marito Gabriele, che fino all’ultimo le è stato accanto, uomo di poche parole e di fatti concreti.
Anche lui, per noi, un esempio.

giovedì 6 luglio 2023

Giulio Pelandini (L'imprenditore schivo)

Un terremoto. Era un vero terremoto e vi eravamo immersi, tanto da percepirne ogni giorno una scossa, un crollo, una crepa, incapaci tuttavia di avere visione di come sarebbe andata a finire, di quale quadro sarebbe emerso dalla crisi epocale del tessile, l'architrave dell'economia comasca negli ultimi due secoli.
Ed ora che ne siamo fuori, che la grande falce ha mietuto lasciando sul campo infinite perdite e uno sparuto drappello di sopravvissuti, ci manca la lucidità, la profondità di analisi, l'intelligenza e l'ostinazione nel dedicarvi tempo per comprendere cosa ha fatto la differenza tra chi ha resistito e chi invece ha alzato bandiera bianca. Se dunque siano stati i più scaltri, i più spregiudicati o i più sagaci, i più agili o ancora i più prudenti, i più forti, coloro che potevano contare su spalle robuste, non sappiamo dire.
Certo ci piacerebbe discuterne, confrontarci magari attorno a un tavolo, nella convivialità del dialogo schietto, senza preclusione alcuna. E a quella mensa, se potessimo scegliere - e la sorte non ci avesse preceduto, portandoselo via - vorremmo sedesse Giulio Pelandini. Per almeno due motivi. Tre, anzi. Il primo è l'acutezza di pensiero, il secondo l'abilità di sintesi, il terzo - il più venale - è che sarebbe certo uno dei pochi che baderebbe al contenuto del problema, senza avventarsi sul buffet.

Scusate il ritardo. Un anno, sette mesi e un giorno, ad esser precisi. Il tempo che abbiamo impiegato per incontrarlo.
Lunedì 3 novembre 1997. Tarda sera. Sede del “Corriere” di Como. Convocazione per l’assegnazione di un ciclo di interviste da pubblicare la domenica. Palpitazioni. Impercettibile dilatazione delle pupille.
“Noi dobbiamo volare alto” erompe il direttore, che ci fissa negli occhi, ma guarda oltre. “Distinguere e delineare i tratti di questa nostra Como non basta. Dobbiamo comprendere qual è la sua anima. Dobbiamo dare voce ai personaggi che danno vita alla nostra provincia. Noi di questa gente abbiamo bisogno. Di persone speciali, di nomi illustri, di uomini dello stampo di un...di un...di un Giulio Pelandini!”
Pausa. Silenzio. Deglutizione. Lieve sentore di smarrimento. Il vuoto.
Non che ci aspettassimo nomi altisonanti di re o di regine.
Non che avanzassimo pregiudizi o riserve nei confronti di alcuno. Ma lì per lì, su due piedi, ci saremmo aspettati l'indicazione di un Botta, di un Maggiolini o di un rampollo delle varie covate di Ratti, Mantero e Spallino, che con Como han cucito il loro nome a doppio filo.
Sbagliavamo. Il midollo di una città può esser colto nella storia, nel volto, nelle parole di “un Giulio Pelandini” e neppure ce n'eravamo accorti. Peggio. Non soltanto non avevamo la benché minima idea di chi fosse, ma ignoravamo persino con quante “l” si scrivesse quel cognome.
Per giorni, settimane, mesi l'abbiamo cercato. A volte giungendo fino a un passo, quasi a scorgerlo, sentirlo, toccarlo. Niente. Al lavoro, in ufficio, a casa. Nulla. “Non è ancora arrivato”. “È appena partito”. “Oggi non torna”. “Domani forse rientra”. Alle nove: “È un po' presto”. Alle dieci: “È troppo tardi”. A Camerlata: “È partito per la Francia”. A Parigi: “È occupato in Germania”.
Per oltre un anno e mezzo, la medesima musica. Non abbiamo desistito. Per due motivi: la curiosità di riuscire almeno una volta a parlare con lui e il timore di dover dar risposta ai posteri per aver tralasciato addirittura “un Pelandini”.
Il miracolo è avvenuto ieri l'altro. Per la prima volta, dall'opposto capo del telefono un suono, una voce, una melodia. Un anno, sette mesi e un giorno. Una lunga attesa. Ne valeva la pena.
Per capirlo è bastato un secondo. Il tempo di stringergli la mano e di guardarlo negli occhi.
Giulio Pelandini è una persona cortese, ma schietta. Quando finalmente l’abbiamo contattato, dopo aver acconsentito a rilasciarci un’intervista, ha detto: «Se mi avessero precisato che si trattava di un giornalista, non avrei risposto al telefono». Gli crediamo. Senza prendercela, però. Il suo atteggiamento non ha nulla da spartire con l'alterigia o la supponenza. Semplicemente, si tratta di discrezione e riservatezza, due comportamenti poco di moda ai nostri giorni, ma che nella considerazione dei savi vengono ancora annoverati tra le virtù.
Cinquantaquattro anni, industriale tessile, titolare della Stamperia di Camerlata. Un’azienda gloriosa e una feconda fucina per decine di imprenditori. Una storia che si ripete. Suo padre Giovanni apprese l'arte in Pessina, prima di cominciare a camminare con le proprie gambe.
Alla prematura scomparsa del fondatore toccò a Giulio e agli altri familiari reggere il timone per portare avanti l'impresa. Ci son riusciti bene ed ora è già il tempo della terza generazione. Un momento di passaggio meno brusco, rispetto al precedente, ma ugualmente delicato. Colpa della congiuntura. Parola complicata, sinonimo di crisi.
«Il comparto tessile sta vivendo un cambiamento epocale e strutturale che non ha paragoni recenti. In Europa, a ben guardare, qualcosa di simile è accaduto solo nella seconda metà del secolo scorso, quando all'espansione dei mercati, registrata dopo il 1850, fece seguito un reflusso drammatico. Oggi la crisi di numerosi mercati mondiali, dal Sud Est asiatico all'America latina, ha drasticamente diminuito le vendite. Perciò il settore tessile, che è il più globalizzato, si trova a dovere fare i conti con un vero e proprio terremoto».
Sarà più facile salvarsi per le industrie grandi e per quelle piccole?
«Premesso che ciò che chiamiamo industria tessile, in verità è un grande artigianato, poiché vengono prodotti quasi esclusivamente prototipi ed è altissima la componente creativa: le dimensioni contano poco. In questi frangenti, ciò che importa per le aziende è una buona capitalizzazione, cioè una robusta capacità finanziaria».
Le banche aiutano o affondano?
«Senza dubbio paghiamo il fatto che non ci sia una banca locale. La politica attuale degli istituti di credito è di agire in maniera equiparata, prescindendo dal settore. Soltanto una banca con radici ben piantate nel nostro territorio potrebbe comprendere il periodo che questo distretto sta attraversando, avendo la lungimiranza di premiare progetti industriali a lungo termine».
Poche parole, misurate. Frutto di buone letture. Giulio Pelandini non si accontenta di leggere libri. Conserva pure l'ambizione di poter trarne una lezione.
«Dedicarsi all'azienda di famiglia è stato naturale. Per i giovani d’oggi, invece, la possibilità di optare per numerose soluzioni rende praticamente impossibile scegliere. Questa è la difficoltà di chi ha dai venti ai quarant'anni. La così detta “generazione invisibile”, come ho trovato scritto in un bel saggio».
Lucido nell'analisi, pacato nella riflessione, Giulio Pelandini non frequenta gli estremi. Per lui, il massimo dell'esaltazione è una scintilla negli occhi. E quando qualcosa lo preoccupa, riesce a far sentire tutto il peso di una responsabilità, senza lambire il baratro della disperazione.
«Ho sempre lavorato con piacere. Rispetto ad ieri, è lacerante il dover fare ogni giorno scelte senza ritorno, cioè con la consapevolezza di non poter sbagliare due volte. L’Europa Occidentale si trova ad un bivio: o smantella la propria industria manifatturiera o garantisce un rapido abbattimento del costo del lavoro e una forte mobilità. Non c'è scampo. Più tempo la popolazione impiegherà a comprenderlo, più alto sarà il prezzo da pagare e il numero delle vittime».

6 giugno 1999

mercoledì 5 luglio 2023

Paolo Maggi (Il latinista vivace)

Una delle espressioni che uso di più l'ho appresa in un assolato mattino di dicembre di oltre venticinque anni or sono. Ursus spelaeus. Orso delle spelonche, delle caverne. L'ho udito per la prima volta da lui, l'ho replicato mille volte riguardo a me stesso. Esagerava lui, che in verità era una persona amabile, ben disposto verso le relazioni umane; esagero pure io, che a volte sì, amo star solo, possibilmente al chiuso, con un libro in mano, ma senza compagnia mi esaurirei presto, quale stoppino senza ossigeno.
Per il resto, Paolo Maggi mi ricorda un dialogo avuto ieri sera, su ciò che distingue l'uomo colto davvero. La curiosità, è stata la risposta. Il vorace, appassionante desiderio di conoscere, sapere, imparare. La differenza sta tutta lì. È sul come trasmetterla, piuttosto, quella smania, che resto sgomento, incapace di dare una risposta piena di senso. Mi limito perciò ad un'altra frase che cito spesso, di Antoine de Saint-Exupery: «Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave».

Vivace. Paolo Maggi è un uomo vivace. Lo si capisce da come batte le mani sul tavolo, mentre parla, quasi a scandire il ritmo di pensieri e parole.
Lo s'intuisce da come si muove, alzandosi spessissimo per consultare un libro o recuperare un oggetto da mostrare all'interlocutore, per dare testimonianza di ciò che sta affermando.
Il professor Maggi è capace di utilizzare strumenti comunicativi diversi, non limitati alla parola. Egli possiede, per farla breve, un'autentica abilità multimediale. Forse l'intervistato non approverà questo neologismo, ma siamo certi che non lo avrà nemmeno in orrore. E' vero che multimediale - parola sconosciuta fino a qualche anno fa ed ora usata e abusata in tema di computer, informatica, elaboratori elettronici - ha attinenza con qualcosa che gli è completamente estraneo («la tecnologia è una diavoleria, anche se spesso le diavolerie sono utili»), ma è altrettanto vero che si tratta di un termine squisitamente italiano («troppo spesso i giornalisti infarciscono le frasi di vocaboli stranieri, senza sforzarsi di trovare un termine corrispondente nella nostra lingua»).
Non basta. Multimediale è una tra le tante espressioni che il mondo contemporaneo, a qualsiasi latitudine e longitudine, ha preso a prestito gratuito dal latino, quel beneamato latino che per un'intera vita lo ha affascinato e per cinquant'anni ha insegnato.
Il professor Paolo Maggi abita in Via Porro.
Quando Gianni Clerici indicò in Londra la città estera che più gli ricordava Como, l'accostamento ci parve tanto ardito da non meritare pubblica menzione. Lo scrittore gira molto, pure troppo, pensammo. Clerici conoscerà Londra, ma non sa più com'è fatta Como. Dobbiamo chiedergli scusa. A non conoscer Como siamo noi. Via Porro sembra uscire dalle pagine di Arthur Conan Doyle. Un angolo verde e felicemente ignorato dal traffico («Per anni e anni, quando a scuola mancava l'insegnante, gli studenti del Volta venivano qui a giocare al football»).
Gli chiediamo cosa stia leggendo in questi giorni. Lui si irrigidisce, poi si alza, scruta lo scaffale, esce dalla stanza, rientra, finalmente lo trova e ce lo passa. "Ginèstar" di Virginia Bernasconi Botta. «Lo leggo per adempiere ad un impegno» aggiunge.
Legge molto? Scuote più volte il capo e, ripromettendosi di calibrare bene le parole, precisa: «Leggo poco. Alla mia età il campo degli interessi va riducendosi. Per i miei gusti i giornali sono troppo voluminosi. Indubbiamente ci saranno scritte tante cose interessanti, ma la loro lettura mi affatica. Una volta i giornali contavano solo quattro pagine, ma avevano più sostanza e più nerbo. Parole, parole, parole. E di molti argomenti non vale la pena leggere».
Oscar Wilde sentenziava che "il giornalismo è illeggibile, la letteratura non è letta".
«Se lo diceva lui» ammicca il professore, che non vuole infierire e, a proposito di libri, aggiunge: «Un pasticciere non si abbuffa di dolci. Io ho vissuto una vita tra i libri. Leggo quando la necessità o l'occasione me lo impone oppure per qualche sghiribizzo particolare. In questi giorni ad esempio - e intanto torna ad alzarsi per rovistare tra le carte depositate su una madia e mostrarci il bozzetto di una scultura - sto studiando l'iscrizione latina posta sul palchetto marmoreo sulla facciata del Duomo che ospita la statua di Plinio il giovane. Niente a che fare con cose complesse e gravi, bensì piccole ricerche su punti interessanti».
Lo studio delle iscrizioni non è una passione senile.
«Sostenni la tesi di laurea sull'iscrizione del vaso di Duenos. Più tardi mi appassionai anche di archeologia. Accadde un fatto straordinario. Un amico, durante gli scavi per costruire la casa in Via Varesina, scoprì alcuni reperti risalenti ad un periodo anteriore di circa 500 anni la nascita di Cristo».
Si interrompe e ci abbandona senza dare spiegazioni. Dopo un minuto torna e espone tre piccoli oggetti sul tavolo. «Questo è ciò che quell'amico mi ha lasciato in dono. Un piccolo vaso in terracotta, con delle curiose striature ottenute lisciando alcune parti prima della cottura; una fibula, usata probabilmente per raccogliere i capelli; una decorazione che costituiva verosimilmente un ornamento della fibula. L'archeologia, come il greco o il latino, è interessante perché ci aiuta a capire da dove veniamo e chi siamo».
Chi siamo, appunto. Lino Gelpi, che il professor Maggi conosce bene, sostiene che anche a Como mancano uomini validi.
«Non sono d'accordo. A Como non possiamo lamentarci. C'è gente seria. Forse sono un po' circoscritti, ma è gente solida, che si impegna. Non vedo, non registro uno scadimento rispetto al passato. E' vero che conosco un numero limitato di persone e su 10, 15 casi non è possibile fondare una teoria, ma di persone valide Como è indubbiamente ricca. Penso agli insegnanti. Ce n'è qualcuno mediocre, molti apprezzabili e qualche altro di valore eccezionale. Penso a Federico Roncoroni o al suo quasi omonimo Angelo Roncoroni, ma potrei continuare.»
Se dovesse consigliare ai suoi concittadini la lettura di qualche autore classico chi suggerirebbe? «Virgilio» sussurra. E anticipando la nostra curiosità, conclude: «Lo ha scelto anche Dante. Virgilio è la premessa ad uno sviluppo di pensiero moderno. Senza badare se a parlare è la ragione o la passione direi anche Orazio oppure Lucrezio, ma Virgilio è senza dubbio il più moderno tra gli antichi». Antico e, al tempo stesso, moderno. Proprio come Maggi, la cui vivacità si distingue negli occhi. Occhi che scrutano, indagano, interrogano. Occhi che qualche volta si velano. Non vere e proprie lacrime. Un luccichio tenue e triste.
Ha nostalgia per il tempo trascorso?
«No. Mi mancano solo le tante persone care che non tornano più».
Da insegnante, dovendo giudicare un alunno, non ha mai ricordato di essere stato lei stesso un allievo, con ansie, paure, preoccupazioni?
«Quando si è professori bisogna un po' essere come il chirurgo, il quale sa che facendo un certo taglio fa del male, ma sa anche che così facendo porta un bene maggiore. Ci sono delle partecipazioni che a volte è necessario mettere da parte».
In questi giorni sono frequenti le "occupazioni" delle scuole, cosa ne pensa?
«Non posso giudicare. Non conosco più i giovani. Gli unici alunni che ho sono quelli amabili dell'università della terza età e loro non protestano, al massimo si addormentano».
Como a parte, in quale città le sarebbe piaciuto vivere?
«In nessun altro posto. In questo senso sono un vero "ursus spelaeus", un orso delle spelonche».

21 dicembre 1997

martedì 4 luglio 2023

Emilio Gelpi (Il sindaco ostinato)

Due fratelli, intervistati a un anno e mezzo di distanza l'uno dall'altro.
Li metto in fila qua, non per caso.
Insieme testimoniano ciò che delle memoria ho scritto ieri: è un setaccio in cui scorre tutto e trattiene pochissimo, raramente a comando.
Di Emilio Gelpi, ad esempio, non ricordo nulla, tanto che rileggendo l'intervista di allora ho lo stupore che spesso provo per parole che sono uscite dalla mia testa ma che paiono scritte da qualcun altro. O meglio, riconosco lo stile, se me le porgessero su un foglio bianco, senza firma, le riconoscerei, ma per istinto, non tramite ragionamento.
E pensare che molto ci sarebbe da rammentare, di quell'incontro. A cominciare dai sentimenti umani che una persona - pur posata, pacata, estremamente razionale - prova, senza infingimento. Siamo fatti di carne e sangue, non soltanto di cervello. Ci scaldiamo, appassioniamo, animiamo, non riusciamo a trattenere i moti dell'istinto, così dopo cinquantadue anni (mezzo secolo!) di sindaco, invece di passare con signorilità la mano, ci si impunta, ci si picca, si sente - "sentire" è il verbo adatto - di aver subito un torto.
Ecco, Emilio Gelpi ora che lo guardiamo da qua, da lontano, ci è più simpatico e un posto nel pantheon dei "memorabili" se lo è ritagliato, imperituro monito alla constatazione che "più si ha, più si vorrebbe", più si avvicina il passaggio del testimone, più a quel testimone noi esseri umani ci aggrappiamo.

In un foglio bianco, trenta righe d'inchiostro hanno chiuso le imposte su cinquantadue anni di storia.
«Sto scrivendo le dimissioni» ci aveva risposto ieri l'altro, l’avvocato Emilio Gelpi nel giorno del primo consiglio comunale dalla fine della guerra che, in qualità di sindaco di Castiglione Intelvi, non avrebbe presieduto.
Lo immaginavamo stanco, disilluso, rassegnato. Pensavamo a due frasi di circostanza, ad un commiato breve e formale di chi non ha nulla da rimproverarsi, ma neppure altro da dire.
Sbagliavamo.
Di primo acchito, vedendolo canuto ed esitante nel passo, avevamo creduto che al massimo dalle scarpe si sarebbe tolto qualche sassolino, non una carriola intera di massi.
«Con la presente comunico le mie irrevocabili dimissioni da Consigliere, non ritenendo di poter condividere il risultato delle elezioni perché - lungi dall'essere la normale espressione di una leale e corretta consultazione democratica - appare frutto fin troppo evidente di una ben preordinata manovra chiaramente diretta a proteggere interessi privati e non il bene pubblico e poggiata su smodate ambizioni di potere e di comando di chi poi non si accorgerà nemmeno di non gestirle autonomamente».
Parole forti. Non le sole.
«Sono spiacente e rammaricato di dover compiere questo gesto nei confronti del mio paese, al quale ho dedicato disinteressatamente tutta una vita, con passione e volontà di farlo progredire sotto ogni aspetto, nonché riguardo ai numerosi elettori che, anche in questa tornata, hanno avuto fiducia in me e nei componenti la lista a me collegata: li ringrazio cordialmente con grande riconoscenza ed altrettanto faccio nei confronti dei miei compagni di lista e di tutti coloro che hanno attivamente collaborato per un esito positivo che purtroppo è mancato in conseguenza della anormalità ed antidemocraticità con cui appare essere stata pilotata la recente consultazione elettorale, anche con inqualificabili insinuazioni su fatti e situazioni personali. E così vedo chiudersi, con grande amarezza, i miei rapporti con l'amato paese di Castiglione, non tanto per il responso contrario uscito maggioritario dalle urne, ma per il modo con cui è stato raggiunto tale responso, che ritengo conseguente soltanto al comportamento scorretto e sleale di pochi che hanno purtroppo coinvolto tanti elettori, se pur inconsapevoli di compiere un gesto gravemente offensivo nei miei confronti».
Un’offesa. Come tale ha interpretato la sconfitta e in quanto tale ha replicato. Usando l'unica cartuccia che gli sia rimasta in canna: lo sdegno. Un sentimento che impugnato da un giovane non meriterebbe altro che di esser censurato, ma in mano a questo ottantacinquenne indomito, che in vita sua ha sostenuto migliaia di cause, predisponendo personalmente solo il pagamento di tre o quattro parcelle, suscita invece rispetto e commozione.
Passano i tempi.
È passato anche il suo.
Un dato di fatto che ha dovuto subire, senza però inchinarvisi.
Vestito e curato di tutto punto, seduto dietro una spoglia scrivania in un troppo ampio e luminoso ufficio in via Grassi a Como, l'avvocato Gelpi ci porge la lettera di dimissioni con la gravità delle consegne scottanti.
«È il paese in cui sono nato, ma non vi metterò più piede» ribadisce duro e amareggiato.
La prima volta che diventò sindaco, i cannoni della seconda guerra mondiale avevano smesso di tuonare da pochi mesi. Il giovane Emilio, laureato da un lustro, cominciava a muovere i primi passi nella professione che già suo padre Nicola, scomparso prematuramente e la cui stinta immagine in tenuta militare campeggia tuttora alle spalle del figlio, aveva esercitato proprio a Castiglione. Fu eletto democraticamente e ricevette la nomina a primo cittadino dalle mani dei rappresentanti locali del Comitato di Liberazione Nazionale. Era il 1947. Cinquantadue anni dopo, a malincuore, quel posto l’ha dovuto lasciare.
«Hanno detto persino che ho favorito i miei interessi, quando io in paese non ho neppure una casa, né un centimetro quadrato di terra. Mi spiace di non aver potuto concludere personalmente l’ultimo grande progetto che avevamo iniziato: la caserma dei carabinieri. A Castiglione ho dedicato ore e ore del mio tempo e adesso che è finita non mi sento sollevato, ma solo deluso».
La lingua batte dove il dente duole. Dieci volte abbiamo tentato di distoglierlo dalle vicende amministrative ed in altrettante occasioni egli, con ostinazione, vi è ritornato. Soltanto quando abbiamo cominciato a chiedergli della famiglia, l'avvocato Gelpi ha allentato la tensione e si è lasciato trasportare dagli affetti.
«Io e mia moglie Giovanna abbiamo cinque figli. L'unica femmina è Maria Vittoria. Poi ci sono quattro maschi: Francesco, Enrico, Paolo e Carlo».
Una nutrita schiera. Enrico, oltre ad esser un avvocato affermato, a Como è noto come presidente del’'Automobil Club Italiano.
«Ah, quello è nato corridore. Le macchine son sempre state la sua passione. Ricordo che, quand’era piccolissimo, già faceva il matto per salire sulle mie ginocchia per guidare la nostra 1400 Fiat. Ora è lui che, aiutato da mia nuora, manda avanti lo studio legale».
La giurisprudenza i Gelpi devono averla nel sangue. A cominciare dal capostipite Nicola e dai suoi figli Lino, ex sindaco di Como ed Emilio, appunto. Per non tacere dei nipoti, Enrico, ma anche Carlo. Quest'ultimo, infatti, si è dedicato agli studi di legge, optando però per il ramo notarile.
Chi invece di norme, regole e pandette non ne ha voluto sapere è Francesco, il quale si è laureato in sociologia e da ormai alcuni anni amministra in territorio svizzero una comunità per il recupero dei disabili, mentre Paolo ricalca sì le orme del padre, ma non in ambito professionale, bensì seguendolo nei passatempi.
«Il mio hobby è sempre stato il “fai da te”. Nella casa che abbiamo a Casasco ho allestito un autentico laboratorio, con tanto di banco di lavoro, smorza, attrezzi e saldatrice per lavorare il ferro. Nei fine settimana mi dedico alle riparazioni a tempo pieno. Con somma mia gioia personale e disappunto di mia moglie che è solita dire: “tieni queste pentole da aggiustare, così le rompi del tutto”».

lunedì 3 luglio 2023

Lino Gelpi (Il sindaco memorabile)

La memoria umana è un setaccio fine e curioso: filtra tutto, scorda molto, conserva pochissimo, senza criterio logico, a dimostrazione che non siamo processori elettronici, bensì un tiro di dadi sul tappeto verde dell'esistenza.
Capita così che a distanza di anni ricordi come fulgido un dettaglio a cui - tra parentesi - lì per lì non avevo dato peso, tanto da ometterlo nel resoconto comparso sul giornale.
Se chiudo gli occhi di Lino Gelpi rammento infatti che leggeva soltanto le tragedie greche, perché «in esse è già stato scritto tutto, ciò che nella vita dell'essere umano conta davvero».
Memorabile è anche il titolo che l'allora esimio direttore, Adolfo Caldarini, scelse per l'intervista: "Prima che arrivassero le volpi".
Le "volpi" erano gli amministratori degli anni Settanta, quando la classe dirigente forgiata dalla guerra e scelta in base a un merito acclarato, fu sostituita da politici di carriera, avvezzi ai corridoi e alle anticamere, assai diversi da chi si era messo "al servizio" anni prima.
Una classe dirigente di piccolo cabotaggio che ora qualcuno rimpiange, con nostalgia della prima Repubblica, ma chi ha abbastanza anni e memoria per averli conosciuti non può non ritenerli la causa di molti mali. Licaoni, più che volpi, al cui cospetto Lino Gelpi come un vecchio leone spiccava, confermando la regola aurea secondo cui "in tempi grami nascono e crescono uomini e donne forti, donne e uomini forti favoriscono tempi floridi, in tempi floridi si svezzano uomini e donne deboli, donne e uomini deboli causano tempi grami".

Auto, semaforo, colonna; scorciatoia, ingorgo, sosta. Accelerare, frenare, sterzare; parcheggiare, scendere, camminare. Suonare, salire, bussare; salutare, ascoltare, telefonare. Impaziente attesa. Minuti. Veloci, preziosi, irrinunciabili.
Avevamo un appuntamento, ma non lo ricordava affatto. Comprendiamo più tardi che non si è trattato di sbadataggine, né di senile smemoratezza. Semplicemente un metro diverso di ponderare gli eventi, di dare importanza alle cose.
Il mondo fuori corre, ma Lino Gelpi, otto fratelli e otto figli, ottantacinque anni, avvocato, primo cittadino della città di Como dal '56 al '70, ha smesso di rincorrerlo da un pezzo.
Non già perché dell'esistenza umana ha trovato tutte le risposte. Semmai, nello sguardo incantato e nelle lunghe pause prima di udirlo proferir parola, c'è sembrato di intuire la consapevolezza delle troppe domande ancora aperte, che non permettono illusioni al tramonto di una vita.
Perseguitati dalla nostra occasionale premura, lo distogliamo per qualche minuto dal lavoro. Ancor oggi, che potrebbe farne a meno, dedica cinque o sei ore al giorno a fascicoli e documenti che tiene ordinati su una scrivania sobria, nel suo minuto studio. Il resto della giornata lo trascorre in famiglia, abbandonandosi sovente alla lettura dei testi biblici sapienziali («i salmi sono un fonte inesauribile di pensiero, di bellezza e di poesia»).
Enzo Biagi ha scritto: "È stato subito domani, è passato tutto molto in fretta".
«Com'è vero. È trascorso quasi un secolo e non me ne sono nemmeno accorto».
Cosa ricorda dei quasi quindici anni di amministrazione comunale?
«Rammento con piacere tutti gli anni della mia amministrazione e qualcuna delle maggiori opere realizzate in quel periodo. Il trasferimento dello scalo merci delle ferrovie, il forno di incenerimento, la copertura del Cosia. E così pure le scuole, gli asili, i giardini pubblici, la strada a lago».
Eppure non fu tutto rose e fiori. Proprio per la strada a lago le polemiche furono asprissime.
«Non in consiglio comunale. Al tempo in cui ero sindaco, anche decisioni difficili erano solitamente prese all'unanimità. Non mancavano le discussioni, anche aspre, ma rimanendo su un piano squisitamente amministrativo, fuori da ogni ideologia politica. Se l'opposizione, a proposito di un determinato progetto, riteneva di apportare qualche sensata modifica, si accettava il parere diverso. Ad osteggiare la strada a lago furono i fondisti, tutti i proprietari dei terreni che arrivavano fino a riva. Non fu cosa da poco. La loro protesta sfociò anche in cause civili, che però mi onoro di aver composto amichevolmente e con soddisfazione reciproca. Li convinsi facendo loro comprendere che l'interesse per la città andava tutelato maggiormente del loro interesse particolare di avere uno sbocco privato che portasse al lago».
È ancora oggi il tempo del coraggio nelle scelte amministrative?
«Non seguo più attentamente la vita amministrativa per rispondere seriamente. Quando sono uscito dal comune ho tirato giù la saracinesca e il mio punto di osservazione è quello di un qualsiasi semplice cittadino. Comunque non vedo scelte coraggiose. Mi pare un periodo negativo per tutto il paese. Como non si distingue, né in meglio, né in peggio. Manca il senso civico e il senso della collettività, per dirla in due parole. Ognuno guarda ai propri interessi. Ed è questo che mi ha spinto, qualche tempo or sono, dopo un lungo silenzio, a lanciare un allarme».
Secondo l'opinione di alcuni, un tempo il consiglio comunale era composto dal meglio delle famiglie comasche. Questa presenza è andata via via estinguendosi, fino ad arrivare al pallore attuale. È d'accordo?
«Posso confermare che, in ognuno dei tre consigli da me guidati, potevo contare su persone eccezionali, che ricordo con simpatia, senza differenze tra maggioranza e minoranza. L'impressione di un graduale, ma irrefrenabile allontanamento di persone particolarmente significative è anche mia. Non ho una ragione per spiegarne il perché. Costato una disaffezione alla politica e all'amministrazione locale. Siamo troppo in mano ai professionisti».
C'è qualche opera importante per la città di Como che ha il cruccio di aver dovuto lasciare nel cassetto?
«La cittadella della cultura, che volevo realizzare nel quartiere dov'era e dov'è attualmente l'Intendenza di Finanza. Avevo già concordato questo progetto, che avrebbe dovuto iniziare con l'insediamento della biblioteca, con l'allora responsabile dell'Intendenza e con il ministero, ma non ebbi il tempo di rendere realmente concreti gli accordi con atti amministrativi e con il mio abbandono l'intero progetto finì nel nulla più assoluto. Mi è altrettanto spiaciuto non aver portato a termine la tangenziale sud, di cui tuttora si parla e che, tra il '65 e il '70, auspice l'allora assessore ai lavori pubblici Spallino, era stata progettata, finanziata e il cui mutuo era già stato contratto. Poi arrivò il centro sinistra e non se ne fece nulla. Personalmente, ebbi la fortuna di andarmene prima, quando i partiti non avevano ancora cominciato a far sentire il loro fiato sul collo. Politicamente, con l'avvento dei Fanfani e dei Moro non mi sentii più a posto. Non ho mai avuto la tessera di un partito. Ero stato indicato dall'Azione Cattolica e alla politica mi sono sempre sentito prestato».
Don Ferdinando Citterio, docente di morale a Venegono, sostiene che la responsabilità di tutti i mali non è da imputare soltanto ai politicanti invadenti, ma anche a coloro che vent'anni fa trattavano con orrore la politica (Azione Cattolica compresa) e lasciavano campo libero agli altri. I cattolici hanno fatto ciò che era possibile o qualcosa meno?
«Forse potevamo fare di più. Nella Democrazia Cristiana hanno assunto sempre più potere le volpi, che guardavano prima al loro interesse di bottega piuttosto che al bene comune e i principi dell'Azione Cattolica, cui ho avuto l'onere di aderire, quella dei Luigi Gedda e dei Piergiorgio Frassati, furono completamente dimenticati».
Cosa manca a Como?
«Se mi è consentita una critica molto sommessa, vi è una carenza di uomini validi.
La preparazione professionale non basta, occorre una maggiore formazione umana».

14 dicembre 1997