Adelrosa ha chiuso gli occhi, non s'è spento il sorriso. Resta impresso come una sindone in chi le è stato accanto non soltanto all'ultimo, anche prima, nell'impegno del prendersi cura, nella sofferenza della malattia accompagnata da un dono: il chiudersi esatto di un cerchio, il tornare in qualche modo bambino, una parabola di vita in cui inizio e fine si somigliano tantissimo.
E poi, oltre al sorriso, se devo scegliere un dettaglio che nei figli, nei nipoti, sono sicuro rimarrà indelebile, indicherei un punto esatto del corpo: il dorso delle mani. Quel lembo di pelle morbido e diafano che comunica tutta l'essenza della donna e dell'uomo, quand'è anziano. Quei pochi centimetri quadrati che pallidamente celano vene e tendini, racchiudendo e trasmettendo fragilità e resistenza, accoglienza e affidamento, ispirando carezze senza invadenza e un'affinità del cuore, una simpatia naturale per ciò che in noi c'è di più tenero, umano, e che muta con il tempo, in meglio.
P.S. Quando si termina la propria vita in abbondanza di anni, a contrappeso della tristezza dei famigliari c'è sempre un sollievo. A volte si ha pudore ad ammetterlo, anzi, quando si è diretti interessati, si è talmente immersi nel lutto che anche se si prova è raro darvi nome o contorno. Tuttavia se ritorno alla mia di esperienza, con il senno del poi, riconosco che l'ultimo passo finalmente compiuto, la cessazione dell'incertezza e la consapevolezza che la sofferenza della persona amata fosse conclusa, sono state impareggiabile conforto. C'è invece qualcuno a cui questo ristoro non giunge o, se lo fa, è talmente flebile da essere ricacciata in gola, come un rigurgito. Penso a Bruno, il "signor Bruno", il marito, compagna di Adelrosa per decenni, tanto da diventare con lei, con il passare degli anni, un tutt'uno.
È a lui, sono onesto, che va il mio pensiero, poiché a dispetto di tutte le parole e frasi di circostanza, se il dramma della morte è un "restare soli", lui solo lo è rimasto davvero.
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