sabato 19 aprile 2014

La sosta nel fiume (e auguri di buona Pasqua)

Foto by Leonora
La Pasqua è passaggio e nel fluire della vita siamo immersi, chi stando a galla, chi annaspando, chi sfruttando la corrente e godendosi il buono e il gramo che il viaggio comporta.
Mi piacciono le feste, le ritualità, i punti fissi nel calendario che sono come appigli per evitare che tutto scivoli via. Mi piacciono specie quelle che hanno radice antica, quando il denaro e il consumo erano una parte e non il tutto. Mi piace ricordarmi in questi giorni degli amici, quelli che vedo spesso e coloro di cui ho perso traccia, ma so che ci sono e li ricordo volentieri, sperando che stiano bene, confidando che perdonino la mia latitanza nella consapevolezza che la mia porta è sempre aperta.
In questi giorni, in queste settimane anzi, sono più orso del solito, come una locomotiva non conosco che un binario, quello tra casa e lavoro, avanti indietro, indietro avanti, con poche stazioni intermedie e mai un cambio di corsia. Ripeto a me stesso che non è giusto, che rischio di inaridirmi e restare senza benzina, ma le incombenze alla fine hanno il sopravvento e procedo dritto, a testa bassa.
Ecco perché apprezzo questi tre giorni, la Pasqua: mi costringe alla sosta, ricordandomi che nel passaggio su questa terra esiste qualcosa che va oltre, al di là della ragione, dentro il nostro cuore e sopra la testa.
P.S. Auguri a tutti, che siano giorni sereni, di festa genuina, vera.

giovedì 10 aprile 2014

Il mio paese (piazze e parcheggio)

Foto by Leonora
Sono stato in dubbio fino all’ultimo, poi ho detto sì, ammettendo che avrebbe fatto bene a candidarsi al consiglio comunale. Così ho aggiunto il mio al parere già favorevole dei nostri figli (espresso senza primarie, in un dopo cena rapido rapido, mentre lei sparecchiava e io cercavo di non farmi portare via forchetta e coltello) e Isabella ha sciolto gli ultimi dubbi: per la prima volta si cimenterà in una campagna elettorale, superando l’imbarazzo di metterci la faccia e anche il timore di non essere all’altezza, sapendo che noi siamo con lei, anche se poi dovrà cavarsela da sola.
Da parte mia metà sono contento, perché conosco l’onestà di fondo e la genuinità che la muove, mentre per l’altra metà sono preoccupato, volendo proteggerla da invidie, piccole gelosie e la naturale contrapposizione che in queste situazioni si crea. Ma non è questo il punto o almeno non il motivo per cui scrivo queste cose, oggi. Semmai mi importa condividere il motivo per cui alla fine ho ritenuto giusto che qualcuno della mia famiglia si impegnasse, dicesse sì, non mostrasse indifferenza.
La causa principale direi che è la frustrazione nel vedere un paese spaccato, una comunità che si divide su tutto, trovando a fatica i punti di incontro. Mi piacerebbe che Isabella, che è al di fuori delle logiche di appartenenza o partito, sapesse portare quello sguardo distaccato, sereno, difendendo le proprie opinioni ma anche comprendendo le ragioni dell’altro.
Sarei disonesto tuttavia se non ammettessi che nei giorni scorsi c’è stata una goccia che ha fatto traboccare il vaso dell'indecisione. Un fatto apparentemente da nulla, come l’inaugurazione di "piazza Italia", proprio a Lurate Caccivio. Il giorno successivo, mentre ci passavo davanti, guardando il cartello e ricordando l’articolo in pompa magna sul giornale, mi sono detto: “Ma com’è possibile chiamare “piazza” un “parcheggio”?”. Capisco le ragioni elettorali e anche l’amore per il proprio territorio, che come tra fidanzati e fidanzate fa sembrare principe azzurro persino un pupazzo di pezza, ma non chiamare più le cose con il nome esatto è il principio della decadenza. Perché se chiamiamo “piazza” un “parcheggio” allora anche il “giusto” può diventare “sbagliato”, il “bene comune” confuso con “l’interesse privato” e invece della “faccia” possiamo dire che è il “c…ollo” (scusatemi, so che c’era un’espressione più efficace ma non voglio esser volgare).
Con tutto il rispetto per il primo cittadino uscente, trovo l’enfasi e la retorica usata in questi anni fuori luogo per il posto dove abito, a cominciare da quell’ostinazione nel chiamarla “città”, pur giustificata dalla facoltà che la legge concede a chi supera anche di poco i diecimila abitanti.
Città di qua, città di là, città di sopra, di sotto e anche di lato, ma per me Lurate Caccivio resta un paese, il paese in cui – a differenza della città – ci si dovrebbe conoscere tutti, dove le distanze tra persone e non soltanto tra luoghi sono ravvicinate e il senso di comunità prevale sull'ampiezza. Per me infatti non è grande ciò che è vasto, bensì quello che vale molto, proprio come il paese in cui abito fin da neonato, dove ha costruito casa mio padre, in cui ho intenzione di vivere e un giorno anche di essere sepolto, prima o poi (speriamo più poi che prima).

venerdì 4 aprile 2014

A Silvia (ed Emilio, pace all'anima sua)

Foto by Leonora
"Ciao". Con gli occhi sgranati, sgomenti come colui che si affaccia sull'abisso dell'incomprensibile, ha speso l'ultimo barlume di lucidità e quel poco di fiato che gli restava per salutare mia madre, sua nipote. Emilio, l'ultimo dei Balzaretti, s'è congedato così, sulla soglia dei novant'anni, dopo una vita in principio grama ma poi tutto sommato serena. Gli ultimi giorni sono stati un calvario senza stazioni, con il letto unica fermata, consumandosi poco per volta, ritirandosi in un bozzolo di pelle secca e magra carne attaccata alle ossa. Conciato così non lo era stato neppure all'arrivo dei soldati americani alle porte del campo di lavoro dove si trovava prigioniero dei nazisti, settant'anni fa, in Germania. Allora erano i patimenti di un corpo assetato di vita, ora quella stessa vita che un pezzetto alla volta si staccava, i rari granelli di sabbia rimasti ancora nella clessidra.
Domani, sabato, accompagneremo Emilio nell'ultimo viaggio su questa terra, ma non è un pensiero triste quello che mi ronza nella testa. Se oltre non esiste nulla ha finito almeno di patire, mentre se la morte è un misterioso seme di rinascita sono contento perché finalmente è tornato a sorridere, come ormai più non riusciva. A parte questo e mille altre ricordi che mi legano a lui, voglio appuntare qui traccia del regalo più bello che mi ha lasciato in questi giorni, per interposta persona.
Si chiama Silvia, fa l'infermiera, abita nello stesso paese dello zio e in queste settimane, in questi mesi, gli è stata vicina, prendendosene cura, alleviando il fastidio e il dolore delle piaghe piccole e grandi, facendo medicazioni, quando serviva, sia a lui sia a sua moglie Angelina, oppure scambiando qualche semplice parola. E fin qui non c'è nulla di strano, se non fosse per il compenso che ogni volta chiedeva: nulla. Niente, zero, non un euro, al massimo un "grazie" e anche quello bisognava pronunciarlo sottovoce, perché Silvia è buona quanto timida e farla diventare rossa è un attimo, mettendola in un imbarazzo che non merita. Ieri, mentre gli fasciava le gambe insanguinate, sono rimasto esterefatto dalla sapienza e dall'amore di quel gesto, da quella gratuità assoluta, dal donare tempo e competenza senza volere in cambio nulla, trovando gratificazione - credo - semplicemente nel fare una cosa buona, giusta. "Vorrei che i miei figli crescessero così" ho pensato, trovando in lei un modello raro quanto prezioso, mentre tutto attorno il denaro, il compenso materiale è diventato misura e metro in ogni cosa. Perché in ogni ambito, compresi quelli che dovrebbero essere intimamente lontani dalla logica dello scambio economico (penso all'assistenza sociale, alla medicina, ma anche all'istruzione, alla politica...) il parametro sono i soldi? Come è possibile che essi si siano presi platealmente la scena, oscurando e addirittura cancellando altre monete che invece hanno valore proprio perché non conoscono prezzo, come la reciprocità, la stima, l'ammirazione, il buon nome, la gratitudine, la riconoscenza, l'amicizia?
Sono mesi che ci rifletto e ringrazio Silvia e indirettamente Emilio per avermi dato un esempio e insieme una risposta concreta: la testimonianza che si può fare, che qualcuno, magari molti lo fanno già, senza clamore, senza appuntarsi medaglie al petto, senza bisogno di liturgie o riti benedicenti, bensì rimboccandosi le maniche, dimostrando una generosità fattiva. E per ringraziare Silvia, visto che non ha mai voluto né vorrà un euro, cerco di imitarla: lei medicando, io scrivendo, lei curando le piaghe di Emilio, io ringraziando suo padre e sua madre che l'hanno cresciuta così e facendo di questa sua virtù buona memoria.