domenica 26 luglio 2020

Sant’Anna (Pace tra generazioni)

Crediamo sia una linea dritta, invece ruota, fino a diventare cerchio, la testa che acchiappa la coda, il vecchio che ridiventa bimbo, tutto scorre e alla fine torna.
La vita a volte somiglia al tuo nome: palindromo. 
Anna. Due sillabe e due lettere soltanto, che si possono leggere avanti indietro, da sinistra a destra e viceversa.
Mi sei madre e appartieni a quel mondo di mezzo che ci ha fatto da culla e ora si estingue, come fa il giorno quando viene sera.
Non è vero che ci state consegnando una terra peggiore di come l'avete trovata, pure se a volte è un'impressione che calza.
Avete dovuto combattere la fame, la povertà, gli stenti, l'indigenza, non eravate educati alla sensibilità, al rispetto delle differenze, dell’ambiente, la maggior parte di voi non è vissuta abbastanza per aggiustare i danni collaterali di una lotta in buona fede, all'arma bianca.
La stessa sfida attende noi ora, con nuove incombenze, altre priorità, un diverso ordine di importanza.
Saper leggere i segni dei tempi, comprendere cosa lasciare in eredità a quanti ci succederanno, creare un patto tra generazioni che si susseguono: sono gli impegni che dobbiamo prenderci, per essere degni di quanto avete dato, per ricambiare i sacrifici sostenuti, riscattare gli errori commessi, celebrare degnamente la vostra memoria.
Te lo scrivo adesso, con riconoscenza, che per fortuna sei ancora viva (e il non detto tra le persone - me lo hai insegnato tu - è l'unica ferita che non si rimargina).

P.S. Ottant'anni. Una cifra ampia, oltre che tonda. Li hai compiuti sette giorni fa, non li dimostri neppure ora. In molti ti hanno fatto gli auguri, il regalo più bello però - ne sono certo - l'hai ricevuto senza consapevolezza dai tuoi nipoti, i figli dei figli tuoi e di tuo fratello, le fronde di una radice profonda, otto ragazzi in tutto, dai dodici ai ventiquattro anni, che in autonomia hanno deciso di trovarsi, a cena, una sera a metà della settimana appena passata, dimostrando di aver compreso la lezione più grande lasciata da te e da chi ti è vissuto accanto, in prima linea: il significato, il piacere e il valore di essere una famiglia.


mercoledì 15 luglio 2020

Le bionde trecce (Ciao Laura)

Nelle fotografie sbiadite in bianco e nero il biondo non si vede, ma si intuisce. Ti si distingueva così, anche da lontano, quando avevi vent'anni e giocavi uno sport che non era ancora lavoro, che non lo sarebbe mai stato, perfino nelle stagioni in cui i soldi per giocare te li davano davvero.
Tu appartenevi alla generazione precedente, quella degli allenamenti in palestre spesso diverse, prese in prestito, alle otto di sera, per consentire a tutte, commesse e impiegate, di arrivare in tempo.
Sei sempre stata così, in bilico. Tra un ruolo e un altro, tra un'epoca e l'altra, nella vita, come nella pallacanestro.
Quando ieri l'altro ho letto che te ne sei andata, oltre al dolore, allo sgomento, ho pensato che questo è proprio un anno strano, in cui tutti abbiamo avuto il timore di morire e debbo salutare persone mai godute appieno, eppure apprezzate, che hanno lasciato qualcosa di indelebile, nel tempo.
Ricordo gli infiniti momenti insieme, prima che la Comense diventasse il colosso che è stato e che poi crollasse, in uno schianto che non cancella le imprese sul campo.
In quella squadra tu sei stata l'anello di congiunzione, riuscendo a esserci sia quando si lottava per non retrocedere, sia nel momento in cui si puntava a coppe e scudetto: una giocatrice di sostanza, più di volontà che di talento, messa alla prova dalle fuoriclasse che all'inizio degli anni Novanta arrivavano, capaci tra mille distanze di fare gruppo e lasciare qualcosa di buono.
Eri bionda, ma non dentro. Per entrare in confidenza ci ho messo parecchio, nonostante ti vedessi praticamente ogni giorno e non ci fosse una gran differenza di età. Avevi parole misurate, spesso la durezza del volto, che si illuminava soltanto a tratti e in quel caso era come uno sciogliersi, un commuoverti pure quando ridevi, di gusto.
Ti ricorderò sempre così, Laura, con la tuta da basket o in piedi, al chiosco di Viale Varese e poi di Brunate. Come l'ultima volta che ti ho incontrato e non hai voluto lasciarmi andare prima di aver chiacchierato, prima di avermi parlato di Alice, di avermi offerto la colazione e ricordato qualcosa di buffo.
L'ultimo "terzo tempo" l'hai concluso con un'uscita di scena senza palleggio, lasciando tutti noi con il naso all'insù, a guardare la retina vuota del canestro, con però nel cuore l'esempio della lottatrice che sei stata e che dobbiamo essere anche noi, per andare avanti quando invece la tentazione sarebbe di fermarsi, guardando soltanto indietro. 


domenica 12 luglio 2020

Diventare grandi (Il cuore oltre la culla)

Sei stato a lungo il mio "figlio piccolo preferito", negli ultimi anni eri il mio "figlio preferito" e basta, ora puoi essere "mio figlio" e punto, senza ulteriori specifiche, perché oramai sei cresciuto e credo tu abbia capito che per un padre e una madre non esistono classifiche: i figli sono tutti differenti, ma perfettamente identici nell'intensità dell'amore che per ciascuno si prova.
Per anni, fin da quando eri un bimbo che camminava appena e non parlava ancora, ho dovuto fare i conti con il tuo essere terzogenito, con quel tuo bisogno "di luce" - di spazio, di visibilità, di riconoscibilità - per distinguerti dai fratelli che ti avevano preceduto e che rischiavano di rubarti la scena.
Non era un vezzo e ho avuto la fortuna di intuirlo presto, constatando come il terzo figlio occupi in effetti una posizione scomoda (scomoda in molti sensi: a chi mi chiedeva come fosse avere tre figli piccoli, ho sempre risposto che in effetti il terzo mette in crisi poiché, banalmente, non sai dove metterlo, avendo l'adulto soltanto due braccia).
In realtà - te ne accorgerai se avrai nel destino di essere padre a tua volta - vale la medesima regola dell'amore di cui ho scritto prima: ogni figlio affronta problemi diversi, ma la somma totale per ciascuno non cambia e il segreto è vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, prendendo il buono che c'è, sfruttando le difficoltà come trampolino, come allenamento per reggere meglio l'urto della vita.
È vero che tu hai incontrato genitori non più in ansia, meno preoccupati di non essere bravi a sufficienza e dunque forse meno premurosi, tuttavia questa apparente "distrazione" ti ha permesso di crescere più libero, meno inchiodato alla responsabilità di dover corrispondere tanta premura, di doverti sentire "all'altezza" (chiedi pure a Giacomo e Giorgia, credo ne sappiano qualcosa).
Non si tratta di una scoperta originale, somiglia piuttosto all'acqua calda, è l'eterna ruota che gira, il perenne percepire dei figli, che suona strano soltanto a chi non si mette mai nei panni dell'altro e non fa tesoro dell'esperienza.
Io, figlio unico, l'ho appreso per interposta persona, avendo in dono la frequentazione di amici con famiglie numerose, in cui ciascuno lamentava distinzioni che a guardarle a tessuto rovesciato erano nel contempo vincolo e fortuna.
Così come vincolo e fortuna è per me avere voi, tutti, una famiglia numerosa a mia volta.
E per famiglia non intendo soltanto io e te e tua madre e i tuoi fratelli, ma anche zii, cugini, nipoti, nonna, amici, comunità intera, dove siete cresciuti, dove vivete, dove costruite relazioni e vi mettete alla prova.
Perché questo ho imparato dei figli: non siete "nostri", siete affidati a noi, per un pezzo di strada e l'unico possesso che è concesso è al plurale, quello in cui ognuno vive in relazione con gli altri, trovando di volta in volta il proprio posto sul palco, da protagonista.

P.S. Ho scritto che sei cresciuto non per arbitrio, bensì per una constatazione, una consapevolezza precisa, giunta al termine della serata finale dell'oratorio estivo, quando ho letto - commosso - queste tue parole postate su Instagram.
"Tristezza, emozione, ma tanta felicità.
Questi i sentimenti provati ieri sera e durante queste tre settimane molto intense.
Tristezza perché è un capitolo della vita che si chiude, perché che piaccia o no, una fine arriva sempre. Tristezza perché guardandomi intorno non vedevo più le stesse persone che mi hanno accompagnato fino all'anno scorso e capivo che ormai il mio tempo qui era finito.
Tristezza perché non sono più quel ragazzo quattordicenne che si apprestava ad iniziare il suo cammino come animatore, ma sono quel ragazzo diciottenne ormai alla fine di un'avventura.
Emozione perché vedere nei volti degli animatori più piccoli degli occhi pieni di voglia di fare e mettersi in gioco mi faceva trepidare.
Emozione perché trascorrere ancora un Grest con gli amici con cui ho iniziato è stato stupendo.
Emozione per tutti i complimenti ricevuti, per tutte le persone con cui ho condiviso questo percorso.
E infine tanta felicità.
Tanta felicità perché sono riuscito a mantenere all'oratorio la promessa che gli avevo preannunciato, cioè dare ciò che lui ha dato a me.
Eh già... questo percorso mi ha dato tanto.
Grazie all'oratorio ho scoperto i miei pregi e anche i miei difetti più grandi.
Grazie all'oratorio ho scoperto la bellezza dello spettacolo, dell'intrattenimento, la mia passione.
E io nel mio piccolo sono riuscito a ricambiare tutto ciò che mi è stato donato, impegnandomi e dando tutto me stesso per far sì che quest'ultimo oratorio feriale venisse bene.
Tanta felicità anche perché credo che il mio continuo "mettermi in gioco", proseguendo a sbagliare e a correggere i miei errori, ha fatto sì che io lasciassi un'impronta di me stesso, di Gio nell'oratorio.
Concludendo posso dire soltanto un enorme GRAZIE all'oratorio, al gruppo fantastico che siamo.
Gio ❤️"

sabato 11 luglio 2020

Fa la cosa giusta (L'impronta della sposa)

Ho poco o nulla da insegnarti e niente da tramandare che non siano gli infiniti errori e debolezze e inciampi della vita.
Però oggi ti sposi ed è una giornata memorabile e hai l'età dei miei figli e - a te e a loro - vorrei scrivere ciò che raramente esce dalla bocca, per pudore, pavidità, ritrosia.
Cominciando da questo: dimentica le favole che Disney e Hollywood hanno ciclostilato in abbondanza, tinteggiando tutto di rosa, facendo sentire "sbagliato" chi da quel modello si discosta.
L'equazione algebrica "conosco qualcuno, mi innamoro, si innamora di me, ci sposiamo, ci ameremo così da innamorati tutta la vita" fa più danni della pandemia.
Siamo prima di tutto, prima di qualsiasi costruzione culturale, figli e figlie della razza umana, che da milioni di anni ha un unico obiettivo: la riproduzione, la sopravvivenza.
Abbiamo istinti, desideri, aspirazioni che si possono conciliare con la vita di coppia, ma anche no, e quest'ultima ipotesi è assai più probabile della prima.
Per questo "Finché morte non vi separi" è prescrizione vana.
A separarci badiamo assai di frequente e prima noi.
Senza briglie, senza buona volontà, senza reciproco rispetto, senza capacità di accettarsi, senza tentare e ottenere di riallacciare quotidianamente un dialogo, senza un dirsi le cose in faccia, sapersi perdonare (sapersi perdonare, sopra ogni cosa), le divisioni non risultano un'eventualità, bensì la certezza.
Lo dico allora senza giri di parole, piatto piatto, come l'abito più prezioso che abbia scovato nel guardaroba dell'esperienza: non ci si sposa perché ci si ama, ci si sposa perché si sceglie di amarsi ogni giorno, ogni sera, ogni notte, ogni mattina.
Il mio augurio allora è questo: possiate camminare insieme, prendendo anche sentieri diversi, senza però mai perdervi di vista e con l'ostinazione di serrare i ranghi quando sentirete la distanza eccessiva, andando uno incontro all'altra, qualsiasi cosa accada.

P.S. L'ho messa giù dura perché, come ho avvertito in principio, l'occasione era ghiotta e scrivere a te e ai miei figli mi pareva la stessa cosa.
Una parola però la meriti per te, per la persona che sei, Letizia, per la stima che provo, per le capacità e la perseveranza che hai, per quel candore e quell'esuberanza che sempre ti distinguono, abbinate a sensibilità, profondità, solerzia. Sei davvero una persona speciale e fortunato chi ti sposa, come del resto certo fortunata sei tu, se lo hai scelto, se hai deciso di farne il tuo compagno di vita.
Tra i molti episodi che potrei citare, scelgo quello in cui tu hai deciso di segnalare i sospetti che riguardavano una ragazza, sul dubbio che venisse maltrattata. Ricordo il giorno in cui ti sei dovuta presentare dai Carabinieri per raccontare ciò che sapevi. Ricordo l'apprensione, l'angoscia, ma pure la determinazione nel fare - a qualunque costo - la cosa giusta.
Lì una lezione me l'hai data tu. Una lezione che è come l'impronta di ciò che sei. Da oggi anche una sposa.

mercoledì 8 luglio 2020

Lo stile fatto persona (Buon viaggio Alberto)

Silenzio. Paralisi e silenzio per quest'ingiustizia che ti è capitata, il tuo lasciarci qui, senza parole da dirci, a ciglio asciutto, con il pudore delle lacrime trattenute (che di versarle hanno diritto le persone che ti sei scelto e che ti sono state accanto, prima, dopo e durante la malattia).
Oggi resto così, oggi riesco a dire nulla, oggi non posso neppure immaginare il dolore di Filippo, Arianna, Enrico, di Rossana. Un terremoto che sconquassa, un cielo nero che ammanta ogni cosa, un lama affilata che incide il petto e resta conficcata.
Non ti sono mai stato così intimo, né voglio sembrarlo ora, però ti conoscevo, soprattutto provavo per te affetto, simpatia, persino un po' di invidia, anche se l'invidia è il peccato che mi appartiene meno e sarebbe più corretto definirla ammirazione, stima.
Per venticinque anni - da che ci siamo incontrati la prima volta - ho considerato la tua famiglia "gemella" alla mia, per il tipo di coppia, per i figli avuti quasi in sincronia, anche se nelle fotografie voi siete sempre venuti meglio, un quadro che era per me una meraviglia e mi ha sempre fatto sentire un po' "sgaruppato", come se tra le doti tu avessi in più lo stile, l'eleganza.
Lo stile. Per me lo stile è e rimarrà sempre la tua cifra. Per le montature degli occhiali, per il modo di vestirti, per la postura del corpo, per il garbo con cui glissavi le cattiverie, per la dignità con cui affrontavi il male, la sfortuna.
Un'unica consolazione mi rimane: quella di ricordarti per sempre così, giovane, unita alla certezza che i tuoi figli porteranno fieri il testimone della tua presenza sulla terra.
Buon viaggio Alberto e scusa se ho avuto il coraggio di dirti il buono che pensavo di te soltanto quando ormai si intuiva "oltre il fumo umido del nebbione che ci avvolge, rosso, il disco della tua stazione".


martedì 7 luglio 2020

La stagione della farfalla (Attesa e pazienza)

Abbiamo smarrito la virtù della pazienza. Ed è un paradosso, nell'era in cui l’essere umano può vivere mediamente più a lungo di quanto sia mai riuscito. 
Ci manca pazienza con i figli, che desideriamo già grandi subito.
Ci manca pazienza con le verdure dell’orto, che vorremmo mature presto, comprandole anche fuori stagione al supermercato.
Ci manca pazienza nel lavoro, dove pretendiamo risultati immediati e ragionare in termini di lustri o decenni sembra un abominio.
Ci manca la pazienza di piantare alberi, di costruire cattedrali, di immaginare una società che abbia fiato lungo e prosperi per le generazioni che seguiranno.
Ci manca la pazienza di attendere il perdono, di accettare il mistero, di mettersi di impegno per sanare un torto.
Ci manca la pazienza del corteggiamento, dell’attesa di un bacio, dell’intimità di un rapporto.
Ci manca la pazienza di tollerare gli errori, di comprendere le ragioni, di convincere l’altro o di farci convincere, nel caso.
Ci manca la pazienza di arrivare in fondo a un libro, a un post, a un articolo.
Ci manca la pazienza un po' su tutto.
Viviamo la stagione breve della farfalla, senza la sua leggerezza.
Abbiamo più tempo, ci sembra sempre meno.
Ignoriamo la meta e nel mentre non ci gustiamo neppure il viaggio.
La buona notizia è che la pazienza non è un dono riservato a pochi: si può trovare, coltivare, costruire, pian piano. Con pazienza appunto.

P.S. Questo, come gli altri, è un post scritto innanzi tutto per me stesso, che sono il primo a non avere pazienza, a pretendere tutto e subito. Le lezioni migliori le prendo dai miei figli, che premiamo le attese concesse loro e puniscono le impazienze che ho avuto. Così guardo con orgoglio Giacomo che mangia le zucchine, Giovanni che apprezza la pallacanestro, Giorgia che si interessa di politica, Kadir che guarda film in inglese, mentre ancora aspetto il giorno in cui mi chiederanno di tornare in un museo, dopo che quando erano piccoli li ho tenuti per sei ore agli Uffizi di Firenze, sperando di infondere precocemente l'amore per l'arte e ottenendo invece una noia mortale, da cui non si devono essere ancora ripresi del tutto.

giovedì 2 luglio 2020

I calzini di Godot (Mezzo milione e un grazie)

C'è sempre un calzino che avanza ed è forse questo il bello della vita.
Li guardo così, impilati uno sopra l'altro, sulla mensola dell'angolo lavanderia, orfani colorati in attesa di un ricongiungimento che non arriva.
Saranno una dozzina e nei giorni in cui mi sento riflessivo provo a ipotizzare dove diavolo siano finiti gli altri: dimenticati in un borsone sportivo, imboscati nell'anfratto di un armadio, abbinati erroneamente ad altre paia, bloccati nel cestello o nella guarnizione circolare dello sportello della lavatrice.
Lì, ogni tanto, guardo. Borsoni o armadio non immagino neppure di ispezionarli, mentre la lavatrice stuzzica l'investigatore che c'è in me: prima controllo sommariamente, tasto con la mano, poi, non contento, mi metto in ginocchio e infilo la testa, più puntiglioso di un fiscalista.
Generalmente è in quel momento, quando realizzo di aver scovato nulla e di trovarmi in una posizione imbarazzante, che realizzo l'effimera inutilità di tanta parte delle azioni quotidiane e nel contempo l'ammirabile ostinazione con cui ogni santo giorno usciamo dal letto e ci mettiamo in pista.

P.S. Questo post non volevo scriverlo. Per molti motivi. Il principale è che in questo tempo sento forte la banalità di ciò che mi passa per la testa e tutto mi pare già stato detto, per cui nulla vale la pena, meglio rinunciare, attendendo - se mai arriverà - l'illuminazione lampante, definitiva.
Come ogni Godot che si aspetta, alla fine però mai arriva. Esattamente come i calzini spaiati di cui sopra.
La differenza allora (nella scrittura come nell'esistenza umana) non la fa il genio, il talento, bensì la cocciutaggine, la perseveranza, l'obbligo del fissarsi una meta e raggiungerla, costi quel che costi, senza troppi scrupoli, facendo leva sulla stessa irrilevanza che prima paralizzava. È così che da oltre dodici anni questo blog tira avanti, riportando nulla di fondamentale, se non appunti di viaggio che - come conferma il totalizzatore qui a fianco - hanno superato il mezzo milione di visualizzazioni. Saranno anche effimere, ma sono comunque un pezzetto di vita.