giovedì 22 aprile 2021

Prendersi cura (Aggiustare il mondo)

Ti sono grato, per ogni singola oncia che ti sei caricato sulle spalle, ogni callo sulle mani, ogni ruga del viso.
Non sei mai stato ricco, hai sempre guadagnato quanto un operaio ben retribuito, mi hai lasciato più del necessario, dimostrando quanto un uomo semplice può costruire partendo dal niente, contento di non accontentarti, di non sederti sul comodo, di piegare i sacrifici ad un'aspirazione, un "sogno", come li chiamavi tu, piccoli atti di costruzione del mondo.
Lo hai fatto con gli strumenti che ti sei trovato attorno, pienamente figlio della tua epoca, con i pregi e i difetti dei giorni in cui sei vissuto, ritirando dalle fabbriche e dai privati gli scarti di metallo, carta, plastica e portandoli dove li avrebbero riutilizzati.
Un lavoro sporco, nel senso letterale del termine, che ci si sporcava nel farlo e insieme costringeva alla fatica del corpo, all'esaurimento delle forze fisiche ad ogni tramonto, ma che anticipava una sensibilità al riciclaggio ora scontata, un dato di fatto.
Eri un precursore, senza saperlo, e come tutti gli antesignani, non avendo piena consapevolezza delle tue azioni, è facile ora leggerne gli errori: guardarli con sufficienza, giudicarli con severità o distacco - lo scrivo per i miei figli, i tuoi nipoti - applicando ad essi le coordinate della sensibilità attuale e le ascisse di quel tempo sarebbe irriconoscente, oltre che sbagliato. 
Hai realizzato ciò che hai potuto, ricercando il meglio, indicandomi con l'esempio che il medesimo percorso devo farlo anch'io, non banalmente replicando, bensì aggiungendo ai tuoi valori quelli che io stesso - grazie a te, ma diversamente da te - ho maturato.
È proprio pensando a queste cose che, giorni fa, passando di fronte al vecchio deposito del camion, ho preso la decisione di non lasciarlo abbandonato, di evitare che crolli, costituendo un pericolo e soprattutto la prova evidente di un decadimento, di un non prendersi cura del testimone ricevuto.
Sono pochi metri quadri, che esistono da un tempo immemore e che tu hai messo in regola decenni fa, spendendo quella che allora era una piccola fortuna in oneri e sanatorie, pur di coricarti la sera e alzarti il giorno dopo tranquillo. 
Per questo - quando accadrà - vorrei che per sistemare quel luogo del cuore fosse impiegato tutto il sapere ecologico attuale, l'attenzione per la sostenibilità, l'ambiente, lo sviluppo, ma pure per il bello, il buono.
Soltanto così infatti sentirò di aver dato continuità ad un cammino, prendendo il meglio che mi hai insegnato e ponendo a mia volta mano per riparare le ferite di quanto abbiamo capito fosse sbagliato. A cominciare dalle coperture di eternit che ancora resistono, causa principale del male che ti ho portato via, tredici anni fa, senza scampo.

Eccoti, qui, tu,
lì, di spalle,
come fosse ora,
come ti ricordo

P.S. Per la manutenzione straordinaria di cui necessita la struttura ho presentato domanda, affinché tutto sia regolare e insieme trasparente, limpido (un grazie all'amico Roberto, per l'interessamento paziente). 
Io però, lo ammetto, vorrei di più.
Vorrei che l'iniziativa personale diventasse un volano, affinché molti si prendano cura dell'esistente, specialmente di quello fatiscente, trascurato. Soltanto così, soltanto investendo risorse ciascuno per la propria parte nel ristrutturare eviteremo di usare il poco verde rimasto (e che va tutelato, ad ogni costo), risolvendo uno dei mali del nostro paese, di ampie porzioni del territorio: la prevalenza del brutto, la sciatteria, lo spreco.



venerdì 16 aprile 2021

Niente panico (La fragilità distratta)

Scialletto sulle spalle, seduta ai margini del letto, ansimi e singhiozzi come una bambina, a dispetto dei tuoi ottant'anni e della grinta che nel restante novantanove per cento dei giorni e delle notti ti rende tuttora una colonna.
La tua fragilità è proiezione della mia.
Forse per questo la contengo, esorcizzando la paura con apparente cinismo, quel prenderti palesemente in giro, non per mancanza di sensibilità, semmai per istinto di sopravvivenza.
Gli attacchi di panico sono una bestia grama, visibile e tangibile soltanto per chi la ospita.
Per questo ho imparato che l'unica cura, il solo gesto di sostegno è distrarti, eludendo lo sguardo dalla sua tana, focalizzando la tua attenzione su altro, sia esso il contatto delle mani che ti accarezzano la schiena o la parola intesa più come tono suadente di voce che come argomento o contenuto di sapienza.
Ho scoperto poi un trucco, per farti staccare la spina dalla corrente continua della tua angoscia: costringo a concentrarti su altro, a cercare qualcosa.
"Dimmi cinque cose colorate di rosso che vedi in questa stanza".
"Quante ante d'armadio e cassetti ci sono".
"La data di nascita dei tuoi nipoti, compresi quelli alla lontana".
Espedienti. Piccole scappatoie per non appoggiare tutta la soluzione sulle gocce o pastiglie di farmacia.
Anche se il conforto più grande, per me, come in passato ho già scritto, è l'acquisita consapevolezza che di un momento si tratta, che ti passerà, che la bestia è sì feroce, ma alla fine della lotta - perché di una lotta si tratta - non ne resterà traccia, a patto di saperla chiamare per nome e affrontarla, insieme, ogni volta.

P.S. "Comunque sta tutto nel capire di che cosa la persona di fronte ha bisogno: alcune volte si tratta di farla pensare, altre volte di farla sfogare e basta, altre volte di offrire una spalla, in dolcezza". Vale sempre. Con tutti. Non soltanto per gli attacchi di panico o quando l'ansia preme come un macigno tra petto e gola.

domenica 4 aprile 2021

Coltivare (Il silenzio)

Un rumore di fondo, indistinto. Un precipitare di parole continuo, incalzante, un frastuono, un ronzio.
Per toglierlo dalle orecchie, che non hanno tappo, devo chiudere gli occhi, concentrarmi su altro, cercare nuove frequenze, una sintonia che riduca il baccano.

Chiudo gli occhi davanti alla tv dei “talk show”, del reiterato teatrino recitato a soggetto; chiudo gli occhi nei discorsi di chi parla più di un minuto; chiudo gli occhi persino in chiesa, dove mi pare si moltiplichino le parole per colmare il vuoto di un’istituzione che fatica a leggere i segni del tempo.

La faccio breve, per non esagerare anch'io: il luogo in cui mi trovo meglio, in questi mesi, non per caso è il giardino. Che ha due meriti: allena al silenzio e mi ammaestra alla pazienza, a una crescita non percepibile con lo sguardo.


P.S. In giardino gli occhi occorre tenerli aperti per la causa (gli atti di cura dell’uomo, il coltivare), non per l’effetto, il mutare della natura, che ha un altro passo, inarrestabile e inafferrabile, così lento che i nostri sensi non riescono a coglierne il mentre, il presente, ma soltanto un prima e il dopo, il non ancora avvenuto e il già successo.