Visualizzazione post con etichetta anniversario. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta anniversario. Mostra tutti i post

lunedì 8 gennaio 2024

Un terno all'otto (Il giorno non qualunque)

Me ne sono ricordato all'ultimo, al termine di una telefonata in coda alla serata, quando il campanile di sant'Agata batteva le undici e già stavo per salutare spiccio mia mamma, curioso di vedere l'ultima bozza della prima pagina.
"Hai cominciato nel giorno del papà" mi ha detto, incrinando d'un tratto la voce, come chi d'improvviso si rattrista.
Il giorno del papà. Lo avevo completamente scordato, non soltanto oggi, che pur ho qualche giustificazione, essendo entrato in un frullatore d'informazioni, nomi, volti, ma altresì in ciascun iniziato degli ultimi due mesi, da che ho saputo che a Brescia avrei iniziato il nuovo lavoro proprio l'8 di gennaio.
Quindici anni fa, una notte di queste fu un'alba d'agonia. Se ne andava colui che più ha inciso nella mia vita, generandomi non soltanto biologicamente e donandomi quella libertà - di essere chi sono, di non adeguarmi a un modello costituito - che considero il vero privilegio tuttora.
Così sono i casi della vita, le coincidenze che sorprendono, dimostrando che la realtà è sempre più creativa della fantasia (perciò aveva ragione Buzzati, che sulla sua macchina per scrivere aveva appiccicato un bigliettino con scritto: "Racconta, non fare il furbo").

P.S. È stato un giorno denso e lieve insieme, una sensazione d'immersione, a metà tra il mare agitato e Gardaland. Qualche breve dettaglio in cronaca: sono arrivato in treno (ecologicamente corretto), ho sorriso molto e cercato di fare un'impressione buona (speriamo), ho voluto esserci all'apertura e restare fino alla chiusura (una sorta di rito di ringraziamento, di iniziazione auto imposta), mangiato da McDonald's (scorrettissimo, eticamente e dieteticamente), chiamato eccezionalmente mia mamma al telefono per rassicurarla che tutto è andato bene (ed è lì che è uscita la vera notizia, anche se poi la data dell'8 ha confuso entrambi, poiché quella esatta sarebbe stata il 10 di gennaio. Però, come pare abbia risposto a un collega scettico l'allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro, riguardo una notizia riportata dal suo giornale in prima: "È talmente bella, vuoi anche che sia vera?")


 

lunedì 16 gennaio 2023

Il disegno (Una matassa di fili senza bandolo)

Ci giro in giro a lungo, sperando di passarci attraverso semplicemente lasciando scorrere il tempo, spostando ogni giorno la pietra d’inciampo più in là, tendendo i fili delle relazioni umane lo stretto necessario, rispondendo a chi bussa alla porta senza cercare per primo nessuno.
È una bolla, una risacca, un mulinello di sentimenti quello in cui sono finito, senza che i più lontani se ne accorgano, perché per notare certi stati d’animo occorre tenere il palmo della mano sulla guancia dell’altro, con in più la fortuna di cogliere il momento esatto del fremito, quell’istante in cui il disagio emerge, nitido, a dispetto della copertura di normalità spalmata sul resto.
È trascorso un anno esatto da quando te ne sei andato e - vengo al punto - non riesco ancora a guardare dritto nel vuoto che hai lasciato, allo sgomento che provo tuttora, quel misto di indifferenza e cinismo necessario per andare oltre, avanti almeno un passo. Quella forra di senso la sfioro, la accarezzo, la sondo, la assaggio, ma dentro non ci butto gli occhi mai, tenendo al riparo pure il cuore, come dietro un recinto.
È trascorso un anno esatto e proprio in corrispondenza di questo anniversario mi trovo aggrovigliato in una matassa di fili senza bandolo, conscio di essere così poco lucido da girare spesso a vuoto, incapace di comprendere ciò che io per primo voglio.
Aveva ragione la Deledda: siamo “canne al vento”. Chi più, chi meno, ci passiamo tutti, così come ciascuno di noi prima o poi deve affrontare il dilemma di Primo Levi: perché lui, perché lei e non io? Cosa ho fatto per meritarmi la fortuna di sopravvivere e cosa faccio per esser degno di essere sopravvissuto, per non sprecare o sciupare il dono ricevuto?
Domande a cui non trovo risposta, limitandomi a mettere un piede dopo l’altro, avanzando, confidando che alla fine, a distanza di mesi o di anni, guardando indietro, unendo i puntini, il cammino appaia tanto chiaro da prendere la forma di un contorno, l’immagine di qualcosa di buono, forse pure di bello.

P.S. Annoto qui una sensazione - poiché di ciò si tratta: un sentire, un sentore, un intuire, non un sapere, non un averne piena certezza, che è come il sogno, che sfugge quando nel dormiveglia si pensa di averlo acciuffato del tutto - che traspare con maggior lucidità proprio nel tempo più opaco. È la percezione esatta, lucida, che esista proprio un “disegno”, che capitino eventi, occasioni (qualcuno li chiama Provvidenza, altri destino, altri ancora semplicemente colpi di c… fortuna), come la sceneggiatura di un romanzo, come se qualcuno stesse tramando per noi, tessendo fili a prima vista invisibili ma che uniti danno sostanza a un tessuto, a qualcosa che ci comprende, quasi che tutto l’universo si pieghi per scrivere una storia in cui noi, ciascuno di noi, è al centro, protagonista in assolo di un’orchestra in cui siamo contemporaneamente musica e spartito, uditore e strumento.

sabato 1 ottobre 2022

Campata lunga (Il bello dell'impastare)

La campata è stata lunga, un mese e oltre senza traccia, qui, metà accidente e metà scelta, in settimane in cui non sono mancate giornate straordinariamente belle, così come alcune grame, senza però tragicità o colpi mortali al petto.
In generale, visto da qui, è anche questo un tempo sospeso, di poca lucidità mentale, in cui la quotidianità fa premio su una visione più ampia.
Archivio velocemente le premesse, nel giorno esatto del quindicesimo compleanno di questo blog, per venire al punto: la volontà di ripetere pure quest'anno lo sforzo degli anni scorsi, non lasciando alcun giorno del mese d'ottobre senza un piccolo scritto, una briciola di Pollicino. Facendo leva sul mestiere più che sull'urgenza di esprimere qualcosa, lo ammetto, convinto tuttora - come sempre - che nulla di nuovo scriviamo: semmai, possiamo essere bravi a impastare con mani diverse farina vecchia, concedendole utilità, oltre che gusto.

P.S. Ho scritto di momenti belli e altri meno. Tra i primi, senza dubbio i giorni a Lampedusa. Non tanto per la vita sull'isola, che mi ha un po' deluso per un eccesso di attenzione al turismo, che si traduce come uno spremere, tutto. Piuttosto per la meraviglia naturale di certi scorci, che restano incantevoli, nonostante lo stupro dell'essere umano.

venerdì 1 ottobre 2021

Vivo e vegeto (Quattordici anni)

Se fossi umano saresti un adolescente.
Ti do del tu, anche se sarebbe più corretto l’io.
E scrivo “umano”, non “vivo”, poiché vivo lo sei e parli, comunichi, mio prolungamento e nel contempo essere a sé stante, autonomo: durerai più a lungo di quanto farà il sottoscritto, dirai di me anche quando avrò chiuso gli occhi e il labbro resterà freddo, muto.
Quattordici anni.
Era il primo ottobre del 2007, la mattina in cui ho scelto per te forma e titolo, scrivendo le prime venti delle migliaia e migliaia di righe che ti costituiscono.
Appartieni a una specie che s’é fatta rara e ha un nome buffo, quattro lettere in tutto, che paiono un rigurgito: blog.
Hai passato momenti d’oro, mietiture abbondanti, seguite da stagioni asciutte, semi sparsi sul terreno duro.
Sei stato a tratti nutrito, irrorato, posto sotto la luce, coccolato, a tratti invece trascurato, lasciato in ombra, messo a digiuno.
Mai però s’è spezzata quella fibra che ti mantiene vegeto, quel filo che ancor oggi, quattordici anni dopo, cuce e ricama “pensieri e parole, in libertà”, come quel primo giorno.

P.S. A proposito di spezzarsi e mantenersi vegeto. Annoto qui la resistenza del ramo d’olivo, un grosso ramo, che il peso della neve lo scorso inverno aveva lacerato, strappandone le fibre, tanto che dei sette o otto centimetri di diametro, attaccati al tronco non ne restavano che un paio.
“Seccherà”, ho pensato.
“Seccherà e in primavera lo taglierò”.
Per tagliarlo, l’ho tagliato, ma secco non era affatto.
Da quei due centimetri la linfa è continuata a scorrere, mantenendo il legno verde, vivo.
E l’immagine di quel ramo, divelto e insieme resistente, sopravvissuto, mi si è stampata in mente come un monito, a ricordarmi che per quanto la vita possa piegarti, troncarti, lacerarti, basta poco per restare attaccati ad essa e mettere di nuovo germogli, fiori, frutto.

domenica 10 gennaio 2021

Un medico, un uomo (I dottori sono bravi se indovinano)

Un salto in lungo, a scavallare l'anno, dalla vigilia di Natale fino ad oggi, che è un giorno speciale, quello in cui tredici anni fa se ne andava mio padre, anche se "andarsene" non è verbo adatto, poiché lo sento accanto a me, ogni momento.
Per uno dei riccioli che ricamano le coincidenze trasformandole in destino, poche ore fa, ieri, è morto Giovanni Sassi, che di mio padre era coetaneo, oltre che medico.
I dottori, si sa, sono bravi se indovinano, e lui con mio padre aveva azzeccato tutto: la prima diagnosi della malattia, l'aspettativa rassicurante di vita dopo il primo tumore, la preoccupazione per il secondo, risultato fatale cinque anni dopo.
Ecco perché alla simpatia personale aggiungo la stima per il professionista che è stato, con i pazienti di poche parole e ieratico, salvo rivelarsi colto, curioso e addirittura civettuolo per certe sue passioni, conosciute soltanto dai famigliari e dagli amici più intimi, con i quali restava asciutto, ma altrettanto sagace, pronto di spirito.
Figlio a sua volta del medico condotto (Roberto) e fratello di un altro storico dottore di famiglia (Ulisse), "Giannetto" ha vissuto l'epopea dei miracoli della tecnica, con l'evoluzione vertiginosa della scienza applicata al campo sanitario, senza però abbandonare il fondamento filosofico e quelle pratiche millenarie che hanno permesso agli uomini di prendersi cura dei loro simili, ascoltando, auscultando, tastando, osservando.
Fino a quando è andato in pensione sono stato suo paziente io stesso e non dimenticherò mai l'odore del suo studio, la concisione garbata delle sue visite, la disponibilità ventiquattr'ore su ventiquattro.
Avevo immaginato per lui una vecchiaia serena, nella sua bella casa in stile inglese al centro del paese, seduto su una sedia a dondolo, sotto un albero, in giardino.
Il destino ha voluto diversamente e voglio ostinarmi a pensare che sia giusto così, anche se per chi gli voleva bene è impossibile crederlo, desiderando di averlo accanto ancora un ventennio. Il Covid ha accelerato tutto, rendendo abisso il solco che un male peggiore aveva già scavato e che lo avrebbe fatto deragliare pian piano, impedendogli di continuare il mestiere che non ha mai smesso e di essere ciò che è sempre stato: un medico, un uomo.

P.S. Al figlio Riccardo, di cui sono amico, ma anche agli altri figli, Maria e Roberto, così come ai molti nipoti e soprattutto alla moglie Camilla va il mio abbraccio. Immagino quanto sarà arduo questo tempo, però so che anche loro, come capita a me con mio padre, passato il turbine del dolore lo sentiranno ancora accanto, ogni momento. 

giovedì 1 ottobre 2020

Un ponte (Tra noi)

Ho fatto tredici e non ho vinto nulla. O forse è proprio il contrario: il valore più concreto di questi ultimi anni consiste nella leggerezza delle parole, il filo ininterrotto che attraverso questo blog unisce noi, oltre la persona che ero con quella che nel frattempo sono diventato.
Quattromilasettecentoquarantasette giorni, mille post, un milione di parole almeno.
Il resoconto spiccio di un panorama ampio.
Era il primo ottobre del 2007 quando ho iniziato, con determinazione, cercando di non dare peso alla volubilità che mi accompagna spesso, confidando nella caparbietà del seminatore che nei geni evidentemente in dote porto.
È stato proprio così, non ho mai ceduto.
Sono stato talvolta in letargo, altri mesi ho scritto con regolarità, l'anno scorso - per il dodicesimo anniversario - ho fatto in modo che ogni giorno di ottobre avesse una traccia qui, un pensiero.
Un ponte, tra noi.
Un post al giorno per tutto il mese, il proposito che mi piacerebbe rinnovare quest'anno.
Un impegno che prendo, innanzi tutto con me stesso e per chi mi segue con stima, oltre che con affetto.
Il medesimo affetto e l'identica stima che provo io per tutti voi, che passate di qui e da tredici anni mi fate da finestra e da specchio.

venerdì 10 gennaio 2020

Dodici anni (Compleanno e anniversario, intrecciato)


Sei arrivato tre giorni prima che lui se ne andasse, anche se io non lo sapevo.
Il destino incrocia a suo modo i giunchi che raccogliamo lungo il cammino e mentre tu certo piangevi e cercavi il seno materno, mio padre si spegneva pian piano, andandosene la notte tra il nove e il dieci gennaio di dodici anni fa, chiamando nell'agonia due persone, me e suo nonno, cioè chi gli aveva fatto da padre e il figlio.
Le lacrime di entrambi si sono asciugate. Le mie, perché la morte ha rappresentato anche una liberazione dalla malattia e quelle che avevo pianto erano già numerose, come le gocce di pioggia a marzo. Le tue, poiché sei diventato grande e hai altri strumenti per esprimere bisogni e desideri, compresa quella capacità di parlare di te stesso, di esplicitare quanto ti manda in subbuglio, che unita all'empatia e al potere di "aggiustare" ciò che negli altri è rotto credo sia il tuo dono più evidente, prezioso.
Qualche volta ti viene tuttora il magone, è vero, soprattutto pensando al tuo di un padre, che non sappiamo bene dove sia e che tu non sai se ti abbia nel cuore o no, se ti è accanto almeno con lo spirito oppure è una traccia biologica nel tavolozza infinita del creato.
E' successo anche ieri l'altro, quando ti sei seduto a gambe incrociate sul letto, e hai cominciato a raccontare cosa sogni la notte, ciò che ti fa paura e cosa invece ti lascia contento. A un certo punto, mentre parlavi, hai portato le nocche delle mani agli occhi e ti sei fermato di colpo. Ho compreso che piangevi dal singhiozzo e m'è venuto da proteggerti, cingendoti in un abbraccio, piccolo come sei, nonostante abbia ormai un anno in più e sia un ragazzo fatto e finito.
Buon dodicesimo compleanno allora e grazie, perché come al solito il regalo lo hai fatto tu a noi, semplicemente essendoci, ma in quel modo originale, diretto, unico, che anche senza volerlo, ci mette in scacco.

martedì 29 ottobre 2019

RisorTweet (Dodici anni social)


C'è stato un tempo in cui questo blog era esclusivamente un estensione del lavoro, uno luogo di sperimentazione e di narrazione di ciò che si sarebbe rivelata l'alba di una nuova era, quella digitale, con i social che facevano capolino già facendo intuire le potenzialità che avevano, che tuttora hanno.
Lo scrivo oggi poiché è l'ottavo anniversario della mia iscrizione a Twitter, un social media che qualche hanno fa ho abiurato, dandolo per spacciato. Mi sbagliavo. Non che adesso sia convinto del contrario, tuttavia ammetto che sopravvive florido, avendo rinunciato ad essere di massa e ritagliandosi il ruolo che un tempo era delle agenzie di stampa, dando megafono a chi voce ha già e non più bisogno di giornali, tv, radio.
Da quel tempo, dodici anni fa, è rimasto vivo e vegeto soltanto Facebook, anche se settimana scorsa ho sentito dire da un collega che entro due anni chiuderà: non ne sono convinto. Instagram invece è fenomeno più recente e veleggia florido, mentre molti altri hanno vissuto il tempo di una stagione, piegandosi a una selezione naturale che riguarda tutti gli ecosistemi, non soltanto quelli biologici.
Intanto, proprio per ricordare quei tempi, metto il link al post intitolato "Un mese da orso", pubblicato esattamente dodici anni fa, in cui raccontavo l'approccio a quel nuovo mondo digital e social, account Twitter compreso.

venerdì 11 gennaio 2019

Fabrizio e l'Orso (Scriviamoci più spesso)


"Le parole che avrebbe potuto ancora dirci".
Ne ha nostalgia, David, che mi ricorda i vent'anni dall'addio di De André, e provo desiderio di ascoltarle pure io.
Non soltanto di De Andrè, anche delle molte persone che ho conosciuto e che tuttora incontro, riproponendomi e scordandomi ogni volta, inevitabilmente, di fissarle negli occhi, di guardarvi con attenzione dentro.
Corro veloce, anche sui volti e sulle storie di chi mi è sovente accanto, così come di coloro contro cui incoccio, per caso. Perciò, ad inizio anno, mi sono ripromesso di fermarmi più spesso, ritagliandomi del tempo per scrivere lettere, per avviare una corrispondenza meno banale del semplice saluto.
Una forma, quella epistolare, che a ben guardare utilizzo sempre più frequentemente in questo blog, rispondendo all'esigenza di evitare il monologo e avviare il dialogo.


P.S. Oggi è nato il figlio di Luca "il Drugo", collega e amico, che ha scelto per il bimbo un nome spiccio quanto impegnativo: Orso. A lui dedico questo puzzle di frasi delle canzoni di De Andrè, che proprio David mi ha "regalato" (poiché anche io e David un po' "Orso" lo siamo).
"Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. Io nel vedere quest’uomo che muore madre io provo dolore: nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore. E se questo vuol dire rubare questo filo di pane tra miseria e fortuna, alla specchio di questa kampina ai miei occhi limpidi come un addio, lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di dio. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo. Vanno, vengono, per una vera mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore “tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”. Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso, il lampo in un orecchio e nell’altro il paradiso. Dio di misericordia il tuo bel paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Tu che mi ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria. Mia madre mi disse non devi giocare con gli zingari nel bosco. E scappò via con la paura di arrugginire, il giornale di ieri lo dà morto arrugginito, i becchini ne raccolgono spesso tra la gente che si lascia piovere addosso. E tu piano posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte. Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso. Ma a cuiuassi no riscisini l’aina e l’omu, che da li documenti escisini fratili in primu. Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte. E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà. E un giudice, un giudice con la faccia da uomo, mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione. Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore. Passerà anche questa stazione senza far male, passerà questa pioggia sottile come passa il dolore. Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati. Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti".

sabato 15 dicembre 2018

Trent'anni (Il sorriso sempre uguale di Stefano)


https://www.flickr.com/photos/lyonora/36308250791/in/album-72157687348976625/
Oggi sono trent'anni che ti abbiamo accompagnato al cimitero. L'avevo scordato e me ne sento in imbarazzo, pur se a date e ricorrenze concedo poco peso.
Sono già passati trent'anni e ti debbo molto, compreso il mestiere che faccio e dunque l'uomo che sono diventato, mentre tu sei rimasto un ragazzo e quando chiudo gli occhi non hai una ruga, né un increspatura del volto, un capello bianco e ridi, di quel sorriso limpido che ti ha sempre distinto.
Siamo stati compagni di classe al liceo, amici tra i banchi, nei pomeriggi dopo la scuola, in redazioni grandi tre metri per due, in cui mancava tutto tranne il desiderio e la passione di inventarci un lavoro.
Sono passati trent'anni, che tu non hai vissuto, se non accanto a chi ti voleva bene, mentre noi - i “rimasti” - sovente abbiamo dato nessuna rilevanza al dono ricevuto, correndo senza riflettere, respirando in automatico, dando quasi tutto per scontato e lamentandoci persino, dei piccoli inconvenienti o grandi inciampi trovati lungo il cammino.
Sono passati trent'anni e oggi mi fermo, per dire grazie a te e a Simona, che me lo ha ricordato, ma anche ad Elena, che in questi giorni sta accompagnando la mamma nel reparto di oncologia e "spia con rispetto negli sguardi altrui, cogliendo tutte le paure e le speranze identiche alle sue, sentendo il vibrare della rassegnazione e il tentativo di farsi forza, nonostante tutto".
"Ho immaginato che tu avresti saputo scrivere un post bellissimo - mi ha detto - perché le emozioni le sai raccontare". Eppure è lei che questa volta l'ha fatto, come non avrei saputo fare meglio io.
Lo appunto qui, per espiare un poco della pigrizia, dell'indolenza, dell'assenza di disciplina e perseveranza che mi inducono spesso a privilegiare la comodità all'impegno, alla messa a frutto di un talento.
Oggi sono trent'anni che ti abbiamo salutato, Stefano. Poteva capitare a chiunque di non esserci più, di abbandonare per primo il palcoscenico, è accaduto a te: perdonami se ti ho ricordato così poco.

martedì 6 novembre 2018

Nonni e nipoti (La bussola avuta in dono)


"Gli hai fatto gli auguri?". Me l'ha detto in dialetto, quasi a tempo scaduto, e ho risposto a mia madre di sì, aspettando che gli occhi le diventassero lucidi, come puntualmente è avvenuto.
Ho scritto qui del compleanno di Giovanni un giorno prima e di quello di mio padre uno dopo, oggi, volendo fare da cornice al capriccio del destino che li aveva accomunati nella data di nascita, uno a distanza sessantacinque anni dall'altro.
Il nipote è diventato un virgulto d'uomo, alto quasi quanto me e con gli stessi scatti di carattere, talvolta non mitigati ancora dalle buone maniere che impongono contegno, almeno in pubblico.
Il nonno ci ha lasciati dieci anni fa, ma non se n'è mai andato, essendo vivo tuttora in me, che nei tratti e in alcune espressioni gli sto somigliando come mai avrei creduto.
Molte sono le eredità che ho ricevuto, tanto che ad elencarle tutte impiegherei un pomeriggio.
Ne ritaglio una, che mi pare più attuale di altre e mi fa da stella polare in questo tempo di bussole apparentemente senza magnete: ho imparato da lui ad avere fiducia nel futuro, a considerare i cambiamenti non come accidenti o, peggio, sciagure, bensì come opportunità per fare meglio.
Non che fosse esente dalle seduzioni nostalgiche che sovente riserva il passato, aveva però un approccio sempre pragmatico, positivo, che ai miei occhi lo rendeva giovane pure quando stava diventando vecchio. Perciò lo ricordo non soltanto con amore, ma con rispetto.

lunedì 1 ottobre 2018

In Media stat virtus (Due punti e una retta tendente all'infinito)


Ho memoria intermittente: ricordo particolari apparentemente insignificanti e per lo più inutili, scordo le date, i compleanni, gli anniversari.
Mi spiace, poiché tutte le ricorrenze sono occasioni buone per rompere l'indifferenza, uscire dalla pigrizia, mandare un cenno, compiere un gesto.
Oggi, ad esempio, scopro che è un giorno speciale, legando a filo doppio due eventi che riguardano un inizio.
Undici anni fa inauguravo questo blog, valvola di sfogo per il professionista che cercava un orizzonte nuovo e diventato man mano un compagno fedele di viaggio, "ciò che più somiglia all'uomo che vorrei essere e che sono stato, la parte migliore di me, l'eredità più bella che lascio".
Oggi, a Brescia, ha preso il via il secondo Media Center, gemello di quello creato un anno fa a Bergamo e anch'esso dedicato all'informazione e alla formazione dei ragazzi, affinché acquisiscano quelle "competenze trasversali" che saranno utili loro per vivere un mondo migliore e non soltanto trovarsi un lavoro.
Per me, che credo convintamente nel destino, sono due punti cardinali attraverso i quali passa una retta tendente all'infinito e devo fare i complimenti a Paolo Ferrari e a quanti lo hanno immaginato, a coloro che lo ha creato, a chi ci ha creduto per primo.
Me lo appunto qui, senza enfasi né retorica, confidando che metterlo per iscritto metta al riparo dalla memoria corta e dalla disattenzione cronica da cui sono afflitto.

P.S. Lo so, vi ho fatto ridere e in qualche caso anche scuotere il capo, sgomenti per l'ignoranza dimostrata dal sottoscritto, quando ho scritto di Mc Donald's e della App che tutti mostrano sul telefonino, per ottenere panini e patatine a prezzo scontato. Per voi, velisti del futuro, ho una nuova, prodigiosa scoperta, che per i quattro gatti vetusti quanto me condivido: la Lista Broadcast di WhatsApp, cioè il modo di mandare lo stesso identico messaggio ma senza farlo sapere anche agli altri, come invece avviene allorché si crea un "Gruppo". E sì, anche questo me l'ha insegnato Giorgia, di cui mai scorderò lo sguardo quando l'ho guardata e mostrando autentica sorpresa ho commentato: "Ma dai! E' strabello!" (anche se dentro me mi sentivo più "Get Down", come Epifanio).

mercoledì 10 gennaio 2018

L'anniversario (Dieci anni con te accanto)


Foto by Leonora

Dieci anni oggi, io che con le date non ci azzecco proprio e spesso sbaglio persino questa, che pure mi ha marchiato a fuoco.
Dieci anni con te in un altro modo, perché se scrivessi “senza te” non sarebbe giusto, non corrisponderebbe al vero.
Dieci anni dal giorno in cui hai tenuto chiusi gli occhi più a lungo e sei morto.
Sì, sei morto. Non mi piacciono i giri di parole, le perifrasi, i modi attenuati per dire cos’è successo.
È possibile che tu sia “salito alla casa del Padre”, non è vero invece che ti sia semplicemente “addormentato”, n’è tanto meno che ci abbia “lasciato”.
No, tu non ci hai lasciato. In me, in noi, nelle persone che ti hanno conosciuto vivi sempre e sempre vivrai, finché noi a nostra volta chiuderemo gli occhi per non riaprirli più, portando con noi ogni ricordo.
In tutti questi anni mi sei stato accanto. Rare quanto preziose le occasioni in cui mi sei apparso nitido, infinite invece quelle in cui ti ho nominato, spesso aggiungendo a mente ciò che già ti dicevo in vita, ringraziandoti per avermi insegnato la volontà e il piacere del dialogo, per l’essere stato un esempio, non soltanto nelle cose buone, anche nelle debolezze, nelle fragilità.
Tu non mi hai mai schiacciato, mostrandomi di ogni cosa dritto e rovescio, pure di te stesso.
Persino nella morte, nel modo in cui lo hai fatto, senza nascondere la paura ma neppure ostentandola, affrontandola con dignità, con quella serenità che accetta l’ineluttabile, quasi a proteggere me e le persone più care.
Se ripenso a quelle ore di passaggio mi viene in mente proprio questo: la dignità, la compostezza unita allo sgomento, come chi si arrende a un avversario che non può battere, piegandosi alla forza degli eventi, lasciando la vita senza rinnegarla, accettando il destino, cercando la pace nel sonno.
Dieci anni oggi, papà, un nome che ripeto spesso, con naturalezza, a testimonianza di quanto tu rimanga vivo, avendomi insegnato quasi tutto non di quello che so, ma di ciò che importa davvero.

P.S. Non era una storia triste allora, non lo è nemmeno oggi. Debbo a te pure questo, per avermi permesso di superare la paura del distacco, facendomi diventare uomo senza smarrire il sorriso.

sabato 23 dicembre 2017

Venti righe, dieci anni


Eppur mi sono scordato di te.
Eppure c'eri quando ho cambiato lavoro, quando i miei figli hanno fatto festa, mio padre è morto, tiravo una linea e facevo i conti, davo la caccia alle talpe, mi sono sentito solo, condividevo ciò che provavo, ero arrabbiato, ero contento, salutavo un amico, chiedevo scusa, ero in vacanza, seminavo l'orto, conducevo il telegiornale, leggevo un libro, visitavo le città, festeggiavo Natale, cresime, comunioni, compleanni, capodanno...
Ci sei stato sempre, anche quando ho scelto il silenzio.
Dieci, dieci anni insieme. Esattamente il primo di ottobre, anche se in quella stessa data nemmeno ci ho pensato (ecco perché l'incipit di oggi è "Eppur mi sono scordato di te"), accorgendomi soltanto ieri l'altro che era passato tutto questo tempo e con esso la bellezza di un numero tondo.
Dieci anni. Dieci anni di pensieri, parole, opere e omissioni. Dieci anni come compagno di viaggio, a volte petulante e insistente, altre discreto e scostante.
Spesso ti ho trascurato, è vero, ma mai abbandonato. Sei ciò che più somiglia all'uomo che vorrei essere e che sono stato, la parte migliore di me, l'eredità più bella che lascio.
Ti ho chiamato "Venti righe" e ne ho scritte migliaia, come si va in montagna, passo dopo passo, guardando il sentiero, di rado la vetta. Ed è così che farò in futuro, ricordando una delle molte cose che mi hai insegnato: il senso sta nel cammino, mai nel traguardo.

P.S. "Venti righe", due numeri. I post ad oggi sono 882 e oltre 392.000 le pagine visualizzate. Quello più letto (33.644) ha per titolo "Anche meno". Non mi pare un caso.

giovedì 28 maggio 2015

I bambini non deludono mai

Foto by Leonora
L'ho chiamata verso mezzogiorno, perché alle otto mi sembrava presto. Erano due giorni fa, il 26 maggio, ed esattamente cinquant'anni prima lei e mio padre si sposavano.
Di quel giorno, oltre ai ricordi e all'album di grandi fotografie in bianco e nero, resta lei e per gemmazione io, nato un anno e mezzo dopo e che senza quella data sarei un nulla assoluto.
Ho telefonato a mia madre perché sapevo che non l'avrebbe fatto nessun altro. Nemmeno mio padre, se fosse ancora vivo, avendo moltissimi pregi, non la sensibilità del romanticismo.
Il 26 maggio, ho appreso alla radio, è anche la data in cui si ricorda la Madonna di Caravaggio, al cui santuario è legato il ricordo più triste che ho da bambino.
Frequentavo la seconda elementare e in gita ci portarono alla Minitalia e a Caravaggio appunto. Fu lì che pranzammo e accanto ad una stele del colonnato dimenticai la "gavetta".
Ora, della gavetta non c'è più traccia, ma a quel tempo era uno dei rari oggetti indispensabili nella vita di un operaio. Si trattava di un contenitore di alluminio o acciaio cromato dove si riponeva il cibo, che poteva essere anche scaldato a bagnomaria, immergendolo in acqua calda.
Dopo pranzo, intento a giocare a perdifiato con i compagni di classe, dimenticai di avere con me lo zaino e salii sul pullman senza portarlo con me, accorgendomi appena partiti ma senza avere il coraggio di proferir parola, tanto meno per fermare l'intera comitiva. A quel tempo ero davvero timidissimo e avevo sempre timore di disturbare, per cui tacqui, covando in principio il dispiacere e man mano che i chilometri passavano la preoccupazione di dover tornare e spiegare tutto ai miei genitori.
Fu mio padre ad arrabbiarsi di più, con quella stizza che anch'io ogni tanto manifesto. Piansi a lungo, affranto. Ricordo mia madre seduta sul divano e io che mi nascondevo dietro lei, singhiozzando fino a mancarmi il fiato, disperato come forse non lo sono mai stato.
La gavetta non la trovammo più e nemmeno la cercammo. Tutto era diverso allora, a casa non avevamo il telefono, non c'era Internet per trovare il recapito del santuario e anche se l'avessimo individuato il viaggio fino a Caravaggio era considerato un'impresa, oltre che costare almeno una mezza giornata di lavoro. Sta di fatto che io piansi un fiume di lacrime ma finii con il sopravvivere, limitando i danni al costo della gavetta e alle cicatrici del ricordo.
A quella gavetta penso spesso, specialmente in questi mesi, che ogni paio di giorni passo di fronte all'ex Minitalia. Adesso sono certo che quel pianto a dirotto non era per la gavetta né per la rabbia di mio padre, bensì per la sensazione di averlo deluso. Oggi, che sono padre anch'io, so benissimo che non è così, ma allora vedevo tutto ad altezza e profondità di bambino, quando persino uno stagno assomiglia al mare aperto. Anche per questo, pur non comportandomi con i miei figli da genitore modello, ripeto loro spesso che non mi deludono. Mai. Neppure quando sbagliano.

martedì 13 gennaio 2015

Ottocento (e dimenticarseli quasi tutti)

Foto by Leonora
Ottocento. Anche se visibile ce n'è qualcuno meno. Con questo sono ottocento i post che ho scritto, dal primo ottobre del 2007 ad oggi, quasi duemila giorni, una media di un post ogni due giorni e mezzo, sedicimila righe in tutto se avessi tenuto fede al titolo del blog, in realtà molte di più, poiché non di rado tradisco il motto iniziale e vado lungo.
Tantissimo, visto da quassù, una pigna di parole da far spavento, anche se mica mi sono accorto di avere prodotto tanto e mi stupisco ogni volta che incappo in ciò che avevo messo nero su bianco tre o quattro anni fa o anche il mese scorso.
"Ma è possibile che l'abbia scritto io?". Una sensazione da straniero a casa propria che dà la misura di un esperimento riguardante la memoria umana e la percezione del cambiamento.
E' raro, per non dire impossibile che rinneghi qualcosa, anzi, in tutti i passaggi noto un'impronta digitale unica, personalissima, mia, eppure al contempo, scopro un tratto di me diverso, che avevo dimenticato. Credo che tutto ciò abbia a che fare con l'originalità dell'atto creativo ma è un'intuizione che andrebbe sviluppata e mi porterebbe lontano, mentre io vorrei fermarmi qui, adesso.
Ottocento post. Un blog cominciato per il desiderio di cambiare, di stare al passo con i tempi, di migliorare nel mio mestiere, pian piano trasformandosi in una sorta di diario, di taccuino per gli appunti, a futura memoria dei pochi intimi interessati alla mia persona e a un punto di osservazione da questo angolo di mondo.
Se mi ostino a continuarlo è per almeno tre ragioni. La prima è il bisogno quasi fisico di un filo d'Arianna che sappia cucire le varie esperienze di vita e lavorative che mi riguardano. La seconda è il piacere di condividere qualcosa di personale, un sorta di anelito alla socialità dell'orso. La terza consiste nell'opportunità di smentire un fatto altrimenti acclarato, cioè il mio essere assai scostante, essendo questa la prova provata che in un aspetto almeno sono capace di tenere duro, maratoneta della memoria, seppur in formato Lilliput.
P.S. I post non sono visibili sono una dozzina. Alcuni tra questi - ad esempio quelli riguardanti la solitudine, le incertezze dei momenti bui, la vicinanza di certi amici - diventeranno pubblici tra qualche tempo, quando gli anni saranno barriera sufficiente per non mettermi in imbarazzo. Altri invece non li pubblicherò mai, poiché li ho buttati giù di getto, come sfogo, per un torto subito, e anche tra dieci o vent'anni metterebbero in imbarazzo le persone di cui ho scritto. Incapace di covare rancore, sono orgoglioso di riuscire tuttora a provare pudore.
P.P.S. Questo è il post in assoluto più letto.

sabato 11 gennaio 2014

Sei anni ieri

Foto by Leonora
Sei anni. Il 10 gennaio del 2008 ti spegnevi e io ero lì, che ti tenevo la mano, era da poco diventata mattina, i bambini uscivano di casa per andare a scuola e tu respiravi sempre più piano, finché il respiro non s'è sentito del tutto. Avevamo spento da poco la musica che nella notte d'agonia era stata di compagnia, la musica di Tchaikovsky che non avevi mai ascoltato ma ero certo ti sarebbe piaciuta e soprattutto mi sembrava adatta a quel momento, a un passaggio che da sempre fa spavento, anche ad affrontarlo così, dileguandosi la vita poco a poco, senza urto né strappo.
E' strano come la morte a volte sia un sollievo, cento notti avevo pianto, quando ti eri ammalato, quando eri stato operato, quando eri in terapia, quando tornavi da una visita, quando ti osservavo di sottecchi per controllare quanto peso avevi perso, se mangiavi, se gli occhi attorno alle pupille erano ancora bianchi, se respiravi bene o in affanno. Le ultime lacrime per te sono scese in quei giorni e qualcuna mi riga il volto ancora adesso, senza preavviso, nei momenti più disparati, senza un legame apparente, per un'improvvisa nostalgia, specie quando sono solo e guido la macchina o leggo un libro che mi ricorda il legame speciale che avevamo. Però nessuna di quelle lacrime porta a galla l'angoscia che ha preceduto il tuo congedo, come se a spaventarmi di più fosse la salita per arrivare allo scollinamento e non il burrone d'ignoto in cui si precipita dopo.
Sei anni. La mamma non c'è giorno che non ti ricordi, mentre io sono più spiccio e correndo è raro che mi fermi a guardare indietro. Credo capiti lo stesso ai tuoi nipoti, pur se a volte mi inteneriscono per il ricordo lucido che hanno di te (ecco che ora mi sale un groppo alla gola e mi commuovo di nuovo, si vede che sto diventando vecchio), così come Laura e i tuoi amici di un tempo, nelle cui rughe e grinze rivedo le tue.
Sei anni e un giorno, questo, un sabato con il cielo grigio e una pace infinita tutto attorno, a perdita d'occhio, seduto nella casa che tu hai costruito e che è stata per te meta e fondamento. Ciao papà, sei ancora qui, nel sangue che mi scorre dentro, nei geni da cui provengo e più importante ancora negli infiniti momenti con te che tuttora mi accompagnano e mi aiutano a ricordarti, sorridendo.

domenica 11 novembre 2012

Casa Bardaglio

Foto by Leonora
Quarant'anni, un giorno. Era l'11 novembre 1972 e (come ho già raccontato cinque anni fa, in questo post) ci trasferimmo nella casa dove tuttora abito e che è sempre stata la mia, anche nei dieci anni in cui - appena sposato - abitai in via Varesina, a quella giusta distanza che secondo i vecchi occorre mettere tra nuora e suocera, "non troppo lontano, non troppo vicino, abbastanza per vedere il fumo dell'altrui camino".
Le mura sono le stesse di allora ma molto è cambiato, interpretando i tempi e marcando le differenze con il mondo rurale in cui i miei genitori sono cresciuti e che è scomparso da un pezzo. Mio padre poi non c'è più e con lui, oltre alle braccia che l'avevano creata, se n'è andato lo spirito autentico, quel bisogno di avere un posto tutto per sé, dove se vuoi mettere un chiodo nella parete nessuno può impedirtelo. Un orgoglio che io mantengo, perché l'ho vissuto sulla mia pelle, che mi ha marchiato a fuoco, ma capisco di essere comunque anni luci distante dall'ostinazione, dalla caparbietà che aveva lui, uomo di un'altra stoffa e di un altro tempo. Una determinazione che i miei figli - lo so - avranno ancor più diluita e i figli dei miei figli probabilmente neppure avvertiranno ed è per questo che due giorni prima di morire, in uno di quei dialoghi che abbiamo avuto la fortuna di avere e in cui ci siamo detti tutto l'essenziale che c'era da dirsi, con lui sono stato onesto: "Papà, lo sai che ti ho visto tirar su questa casa, conosco i sacrifici che hai fatto e quanto ci tieni anche se adesso non sembra importarti di nulla perché tutto sembra perso, ma voglio prometterti lo stesso che finché ci sarò io farò di tutto per tenerla, perché non sia sciupato ciò che hai fatto. Ed è una cosa che cercherò di far capire anche a Giacomo, Giorgia, Giovanni, anche se, lo sai, non posso assicurarti che lo faranno, e poi accada quel che accada, perché tanto in eterno non dura nessuno". Lui sorrise. Non un sorriso amaro, un sorriso disteso. "Và ben". Va bene, disse, in dialetto. Lo considerai un testamento.
Tra le molte cose di cui mi sono pentito, invece, c'è la pigrizia con cui me ne occupai quando lui era in vita. Ero più giovane, pensavo ad altro e soprattutto pagai il carattere tendente al rimando. Quante volte, in questi cinque anni, ho sistemato qualcosa (il tetto del garage, la recinzione, l'aggiunta di un nuovo pezzo di prato, il cancello elettrico...) rimpiangendo di non averlo fatto prima, quando lui ancora c'era e avrebbe potuto vedere, sapere che anche senza di lui ce la saremmo cavata, avremmo migliorato le cose e non fatto andare in malora tutto. La cosa di cui andrebbe più fiero sono le tredici tessere di ceramica con altrettante lettere dell'alfabeto che abbiamo incollato all'entrata, accanto al cancello. C'è scritto "Casa Bardaglio" e in due parole è detto tutto.