mercoledì 23 gennaio 2019

Il tratto distintivo (Mettersi nei panni dell'altro)


La mamma è diventata più brava di me pure con le parole e ti ha scritto un messaggio bellissimo ("Vivi sempre il domani con gli occhi di oggi, con il tuo altruismo e la tua serietà, con la tua sensibilità e la tua empatia, con il tuo essere unico e speciale"), a cui non posso aggiungere altro, avendo colto perfettamente l'essenziale di ciò che sei, i tratti che ti distinguono.
Non mi resta allora che abbracciarti, salendo sulle punte e appoggiando per un istante il capo sul tuo torace da sportivo, solido quanto il faggio di casa piantato in mezzo al giardino.
Qualche giorno fa è ricomparso sul computer un filmato di te piccino, che aspettavi Babbo Natale e scartavi i regali a casa del nonno. Avevi uno sguardo colmo di stupore e un'agitazione che cercavi di contenere, invano. Mi sono intenerito, ricordando il bambino che eri e che per me rimani tuttora, nonostante l'altezza e la tempra da adulto.
Ti osservo tuttora con attenzione ma da lontano, senza avvicinarmi troppo, evitando di essere invadente e fidandomi di te, ciecamente, che "ciecamente" è l'unico modo in cui riesco a farlo (da un lato perché non esiste fiducia a raggio limitato e dall'altro poiché un padre non riesce mai ad essere obiettivo nei confronti del figlio).
Siamo esseri unici, differenti l'uno dall'altro, mai completamente d'un colore, portando in dote diversi talenti e coltivando svariate virtù o vizi, a seconda del caso, che nessuno è mai perfetto e se lo fosse sarebbe una tragedia, oltre che noioso, un sacco.
Buon compleanno allora, senza squilli di tromba, in compagnia delle persone a cui vuoi bene e che bene ti vogliono. In fatto di regali, lo sai, sono una frana, ma conto sul tuo buon cuore per strapparti un sorriso lo stesso.

P.S. Siamo tutti diversi, pur essendo padre e figlio o tra fratelli, è vero, e non bisogna essere dei geni per comprenderlo. Tuttavia un tratto in comune nella nostra famiglia credo esista davvero e si riassume in una parola che tua madre non a caso ha citato: "empatia". Empatia, la capacità di mettersi nei panni dell'altro, di provare sulla propria pelle i suoi stessi sentimenti. Qualcosa che abbiamo nel sangue, qualcosa che a volte comporta un peso, ma di cui andare sempre fiero, perché ti fa essere pienamente umano.

venerdì 11 gennaio 2019

Fabrizio e l'Orso (Scriviamoci più spesso)


"Le parole che avrebbe potuto ancora dirci".
Ne ha nostalgia, David, che mi ricorda i vent'anni dall'addio di De André, e provo desiderio di ascoltarle pure io.
Non soltanto di De Andrè, anche delle molte persone che ho conosciuto e che tuttora incontro, riproponendomi e scordandomi ogni volta, inevitabilmente, di fissarle negli occhi, di guardarvi con attenzione dentro.
Corro veloce, anche sui volti e sulle storie di chi mi è sovente accanto, così come di coloro contro cui incoccio, per caso. Perciò, ad inizio anno, mi sono ripromesso di fermarmi più spesso, ritagliandomi del tempo per scrivere lettere, per avviare una corrispondenza meno banale del semplice saluto.
Una forma, quella epistolare, che a ben guardare utilizzo sempre più frequentemente in questo blog, rispondendo all'esigenza di evitare il monologo e avviare il dialogo.


P.S. Oggi è nato il figlio di Luca "il Drugo", collega e amico, che ha scelto per il bimbo un nome spiccio quanto impegnativo: Orso. A lui dedico questo puzzle di frasi delle canzoni di De Andrè, che proprio David mi ha "regalato" (poiché anche io e David un po' "Orso" lo siamo).
"Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. Io nel vedere quest’uomo che muore madre io provo dolore: nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore. E se questo vuol dire rubare questo filo di pane tra miseria e fortuna, alla specchio di questa kampina ai miei occhi limpidi come un addio, lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di dio. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo. Vanno, vengono, per una vera mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore “tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”. Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso, il lampo in un orecchio e nell’altro il paradiso. Dio di misericordia il tuo bel paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Tu che mi ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria. Mia madre mi disse non devi giocare con gli zingari nel bosco. E scappò via con la paura di arrugginire, il giornale di ieri lo dà morto arrugginito, i becchini ne raccolgono spesso tra la gente che si lascia piovere addosso. E tu piano posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte. Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso. Ma a cuiuassi no riscisini l’aina e l’omu, che da li documenti escisini fratili in primu. Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte. E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà. E un giudice, un giudice con la faccia da uomo, mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione. Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore. Passerà anche questa stazione senza far male, passerà questa pioggia sottile come passa il dolore. Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati. Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti".

lunedì 7 gennaio 2019

Dieci più uno (Un compleanno col trucco)


Sono in tutto undici, con noi è stato il primo.
Un compleanno lungo, durato due giorni, dalla festa con i tuoi amici di ieri pomeriggio al momento insieme stasera, quello che tu hai definito "con i tuoi parenti", che poi sono i miei e in effetti anche i tuoi, ora, che pur conservando la tua originalità fai parte della nostra famiglia al cento per cento.
Ti ho visto contento, spensierato: è stato il più bel regalo. Lo sei spesso in questi giorni e mi si allarga il cuore ogni volta che ti metti a ridere a perdifiato e sembri immemore di ciò che è brutto, come se non ci facessi caso. So che non è sempre così, che quando vai a letto, la sera, e metti la testa sotto il lenzuolo e stai per addormentarti i cattivi pensieri a volte ti accompagnano. Lo intuisco da certi sospiri o forse sono io a dare forma al silenzio, mettendomi nei tuoi panni, ponendo in fila tutti gli inciampi di cui la vita ti ha presentato così presto il conto. Non conosco cosa alberga a tratti nel tuo stomaco, posso immaginarlo, tuttavia so pure che la vita è maggiore di qualsiasi ostacolo, così come la voglia di cielo limpido spazza via le nubi più scure e ti fa crescere sereno.
In più hai un candore, una purezza ch'è uno spettacolo. La si notava quando ti si illuminavano gli occhi - come ormai da noi si illuminano a nessuno - mentre scartavi i pacchetti: una felpa, una camicia, dei calzoni, le carte dei Pokemon, le figurine dei calciatori, il videogioco di Spiderman (quello che Gesù Bambino a Natale "si era sbagliato"), la scatola con i giochi di prestigio.
Per dieci minuti, al centro della sala, ti sei trasformato proprio in un mago, mostrandoci quanto imparato al volo.
E' stata l'unica volta in cui, di fronte a certi trucchi, non ho desiderato di scomparire io.

P.S. Tenerezza infinita ho provato anche in un altro momento: quando tua mamma ti ha chiamato e sei rimasto a parlare con lei un sacco e a un certo punto le hai domandato di tuo padre, di quanto in realtà è alto. "Perché?" ti deve aver chiesto lei e tu, impettito, le hai risposto: "Perché voglio sapere quando diventerò alto io".
Non so quanto diventerai alto, non lo sa nessuno, ma grande lo sei già, adesso.

martedì 1 gennaio 2019

Se apro gli occhi (L’importanza del primo passo)

https://www.flickr.com/photos/lyonora/3174658316/
Se apro gli occhi e guardo avanti vedo una distesa piana, liscia, che è quasi un peccato muoversi e calpestare e viene la tentazione di non muovere un passo.
Se apro gli occhi e ci penso, un istante, quel passo lo compio, perché mi è stato insegnato che muoversi è un obbligo e il bello alla fine, il buono, lo disegneranno proprio le impronte lasciate giorno per giorno, nel bianco.
Se apro gli occhi invece di vederlo, a tratti, mi pare di toccarlo il futuro, sentendo sotto le dita i volti delle persone che non ho ancora conosciuto e di quelle che invece mi sono accanto, fin da quando ero bambino, oppure ho incontrato per strada, via via, fino alle ultime, che qualche settimana fa neppure immaginavo esistessero. E con ciascuna gusto un punto particolare di contatto, chi appena sfioro, con una carezza che insieme è un bentrovato e un addio, chi all’opposto tasto nel profondo, in un’intimità di spirito e di sensi che confonde i confini tra il tu e l'io, il mio e il tuo, fino a volte diventare di due uno.
Se apro gli occhi e metto una mano sul cuore provo l’emozione della vita che palpita e pure apprensione, spavento, poiché l’avvenire è incerto, perché “nel passato siamo nati tutti e tutti è nel futuro che moriremo”. Positivo come sono sempre stato, come cerco di essere, di nuovo, scaccio i timori peggiori e indosso la corazza di ogni essere umano, la cui opera più grande è vincere quotidianamente la disperazione della propria finitudine armandosi di fede, di speranza o semplicemente di indifferenza, di oblio.
Se apro gli occhi la cosa più bella è che non mi ritrovo solo e mi sento tenuto, per mano, da chi troverò sul cammino e da quanti mi hanno preceduto, pronti ad addentrarsi nella distesa bianca dei giorni che verranno, senza troppi preamboli, consapevoli che il modo migliore per arrivare da qualche parte, l’unico possibile anzi, è un passo dopo l’altro. Cominciando dal primo.