domenica 31 dicembre 2023

Il seme del bene (Più prezioso Dell'Oro)

Una miriade di semi di bene, quelli che scopro qua e là, grazie alle molte persone che in questo tempo - complice l'imminente partenza da Bergamo - mi dimostrano vicinanza, riconoscenza, affetto.
Una bontà che mi avvolge e a cui spesso replico con imbarazzo, come quei bimbi che diventano rossi e non sanno dove posare lo sguardo. Messaggi inaspettati, parole sussurrate in ascensore, persino abbracci nei corridoi e una festa a sorpresa con pranzo frugale, filmato commemorativo e addirittura un murales composto dalle centinaia di foto polaroid scattate a ciascuno degli ospiti di "Via Novelli", il tutto organizzato dai ragazzi e dalle ragazze di Edoomark. Una grandezza, la loro, che mi fa sentire ancora più piccolo, certo di avere molto dato, non lo nego, ma altresì di aver assai più ricevuto.

P.S. Un altro anno se ne va, pagine spicce consegnate all’archivio, storie a lettere minuscole che interessano una cerchia ristretta, allargata alle persone che negli ultimi dodici mesi ho conosciuto e a coloro che non ci sono più.
L'ultimo - in ordine di tempo - è  un collega che ho stimato. Si chiamava Marco Dell'Oro e, conoscendolo, so che non apprezzerebbe se mi dilungassi o ne tessessi l'elogio. Perciò lo ricordo attraverso uno degli ultimi messaggi che mi ha mandato, prima che d'improvviso, nel maggio scorso, mentre era al lavoro, in una sera simile a tante altre la vita gli scivolasse via, come uno strappo.
"Commosso, ringrazio" mi aveva scritto per ringraziarmi di un saggio di Chesterton, che gli avevo regalato con questa dedica: "Grazie per ciò che fai, quasi sempre sottovoce o addirittura in silenzio...".
Ed è proprio così che se n'é andato, in silenzio, senza alzare la voce, in punta di piedi, come ha sempre vissuto.

sabato 25 novembre 2023

Un fiume più in là (Liscio come l'Oglio)

"Salendo le scale non perdo mai di vista chi le scende, ricordando che potrei essere io".
L'ho scritto dodici anni fa, sempre nel mese di novembre, e lo copio e incollo tale e quale ora, visto che identico è il monito e pure la circostanza di un cambio di lavoro.
Allora lasciavo le sponde del Lario per "sciacquare i panni" in Lambro, attraversando tre anni più tardi la linea dell'Adda, mentre a breve mi spingerò un poco più in là, ancora verso oriente, superando pure il corso dell'Oglio.
Tradotto in spiccioli: dopo esser stato capo redattore ad Espansione Tv, capo cronista a La Provincia di Como, direttore de Il Cittadino di Monza e Brianza, responsabile a Bergamo Tv, dal prossimo gennaio sarò vice direttore del Giornale di Brescia, TeleTutto e Radio Bresciasette, ritornando ad occuparmi di informazione con diffusione su ogni mezzo, nessuno escluso.

P.S. Lo so, in venti righe si può scrivere tutto, stavolta però nemmeno ci provo, tante sono le ragioni, le sensazioni e i sentimenti che accompagnano il voltare d'una pagina, il principio d'un nuovo capitolo.
Mi limito così a segnare qua soltanto qualche spunto che mi piacerebbe approfondire nei giorni che verranno, nel frattempo annotandolo e concatenandolo, ad uncinetto, passo passo.
Passo da Bergamo a Brescia, nell'anno in cui insieme sono state Capitale della Cultura e si sono definite sorelle.
Sorelle è femminile e donna è pure la direttrice che affiancherò e che stimo da lungo tempo, ma con cui non ho mai avuto occasione di lavorare sul serio.
Serio è uno dei principali corsi d'acqua d'una terra a cui resterò sempre legato, sentendomi - lo confesso - profondamente bergamasco, inteso come appartenente a un popolo, avendo avuto lì occupazione e pure alloggio, sentendomi pienamente accolto, considerato.
Considerato che a breve me ne andrò ed ogni retrogusto viscido di piaggeria è mondato, dichiaro un grazie sincero per il gruppo editoriale nel quale ho lavorato negli ultimi quindici anni e che mi ha dato ciò che per me è la moneta più rara e preziosa: la libertà, di parola e pensiero. Non lo scorderò mai.
Mai altresì cesserò di essere riconoscente nei confronti di chi nelle scorse settimane mi ha cercato, voluto, scelto, senza raccomandazioni o appartenenze a gruppi d'interesse, bensì basandosi soltanto sulla capacità di fare il mio lavoro e avere una visione, un'idea su come affrontare le sfide del presente e del futuro.
Futuro è un'orizzonte ampio, tuttavia sarei disonesto se tacessi che non vedo l'ora di iniziare, di mettermi alla prova, soprattutto di tornare a imparare, di pormi al servizio delle numerose persone che sono certo hanno a cuore la loro terra, il nostro mondo e quello che, per i molti che lo fanno con passione, rimane uno dei mestieri più belli del mondo.


sabato 7 ottobre 2023

La parte limpida (Palombari si diventa)

Li ho messi in fila uno ad uno e tengo per ultimo te, ciliegina sulla torta, con i tuoi quindici anni, quasi sedici, e la tua figura asciutta, tutta muscoli e nervi, con tutte le contraddizioni dei tuoi anni e insieme lo stupore di una personalità in divenire, che si forma.
Mi sorprendi spesso, in positivo, per la luce che porti dentro, anche se non mancano le zone d'ombra, luoghi essenzialmente dell'anima, che non danno traccia di sé, ma di cui intuisco l'esistenza, senza volerli approfondire, scandagliare, per non fare come l'acqua che se peschi troppo a fondo il torbido lo trovi, mentre tu meriti di essere considerato e giudicato per la tua immensa parte limpida.
Forse un giorno deciderai tu di essere palombaro, di setacciare il limo sedimentato dalle vicende di vita, ma fino a quel tempo - se mai verrà - il tuo candore avrà il sopravvento nella considerazione della persona che sei e che ha arricchito come lievito la nostra casa.

P.S. Di molto ti sono grato, più di tutto della possibilità che mi dai di far emergere la parte migliore di me, quella più adulta, paterna, così simile a quella del mio, d'un padre. Un misto di concessione di fiducia e  dolcezza, indulgenza, comprensione, che gli ho sempre invidiato e che ora, senza sforzo, ritrovo in me, nei tuoi confronti. "Complicità". Così la avverto, di tanto in tanto, in alcuni piccoli gesti, in cenni più o meno velati d'intesa, che segnalano affinità, oltre che affetto. Anche per questo sono immensamente grato che tu ci sia.

venerdì 6 ottobre 2023

Io non c’ero (Voi sì)

Come sono belli, sorridenti, tutti in posa, così diversi tra loro, così a specchio del meglio che siamo stati, che siamo.
Cugini di sangue, amici per scelta, testimonianza di come i legami siano più forti del tempo e dimostrazione che chi ci ha preceduto non ha calcato questa terra invano, lasciando un’eredità viva, che vale una fortuna.
“I nove dell’Ave Maria” li chiamerebbero, se fosse un film del secolo scorso, invece sono l'immagine di una preghiera di ringraziamento laica, la mia, la nostra, quella d'una famiglia semplice, la cui ricchezza più grande è appunto il legame, il tenerci gli uni agli altri, il bene reciproco.
E quando scrivo che voi c'eravate, intendo tutti coloro che hanno contribuito a dare loro vita e che questa vita l'hanno attraversata. Non ne faccio i nomi, perché dovrei compilare un lungo elenco, però ho in mente uno a uno tutti i volti di chi ho conosciuto, che mi è stato accanto, che ha condiviso con me il dolore e la festa, lo svago e la fatica, numi tutelari di una storia ch'è ruota che gira, parte da lontano e non è mai finita.

P.S. Siccome l'etica è importante, ma pure l'estetica non scherza - specie ai giorni nostri, nella civiltà dell'immagine - alleggerisco i toni e riporto la sottolineatura di un'amica che lavora nella moda, a commento della foto di gruppo, qui sopra: "Che armonia cromatica". Già. Non ci avevo fatto caso. Se sia questione di buon gusto o di omologazione generazionale non saprei dire, sta di fatto che l'insieme paga l'occhio e rimanda a una bellezza ch'è non soltanto involucro, ma pure nerbo, sostanza.

giovedì 5 ottobre 2023

Tre pere (Così va il mondo)

Tra i beni che mio padre in eredità ha lasciato ci sono decine di alberi, alcuni cresciuti spontanei, altri piantati da lui medesimo.
Tra questi, nel terreno a due passi dalla casa dove vivo, c’è un pero.
Non un’essenza dal tronco possente, la chioma folta, i rami protesi a sfiorare il cielo: un “pirus communis”, lo dice il nome stesso, nulla di eccezionale, poco più di un arbusto (del resto, anche se molti lo ignorano, appartiene alla stessa famiglia delle rose), alto appena un palmo più della mia testa, tanto che a mani protese se ne può cogliere il frutto.
E così è stato fatto, anche quest’anno, con buona pace di mia madre, che per quella sentinella tremula nel mezzo dell’orto ha un legame speciale e fa eccezione persino alla preferenza per i nipoti rispetto al figlio, visto che conserva per me ogni sparuto frutto, cogliendolo in anticipo e conservandolo con cura, finché arriva a maturazione, con l’inizio dell’autunno.
Un rito laico, celebrato pure quest’anno, grazie a tre pere, non una di più, né una di meno.
E se ne parlo qua, con un lungo preambolo - più buccia che polpa, sarebbe da scrivere - è perché mentre le assaporavo non ho potuto fare a meno di riflettere sulle differenze tra ognuna delle tre e il paragone con i figli, i miei, ma pure tutti i figli e le figlie e le persone del mondo.
Perché, pur provenendo dallo stesso albero e cresciute apparentemente con le stesse riserve di acqua e di luce, ciascuna pera aveva un proprio gusto, originale e diverso.
La prima dolcissima, zuccherina, succosa e deliziosa come nettare, la seconda asciutta e compatta, con sapore sciapo e allappante (“questa pera sa di rapa” avrebbe sentenziato, disgustato, mio padre), la terza migliore della seconda ma non della prima, una via di mezza senza infamia e neppure lode.
Ora, certo un motivo scientifico ci sarà per comprendere il perché delle differenze, ma le spiegazioni qui non interessano.
A importarmi invece è che la pianta sia la stessa, che i geni non siano differenti e che dunque la causa consista in altro.
Vale per me genitore, che le discrepanze in ciascuno dei miei figli le noto.
A me pare di esser fortunato, cioè tutti hanno in comune del dolce, del buono, tuttavia neanche qua sta il punto.
Il punto è che non tutto dipende da me, da noi, poiché esiste qualcosa di più grande, di più forte, che orienta carattere, preferenze, ideali, gusto…
Siamo albero, è vero, ma il frutto, pur partorito da noi, risulta essere “altro”, differente, perché così va il mondo (“va”, nel senso proprio che avanza, muta, si evolve, sopravvive, cioè “vive sopra” anche noi, che l’abbiamo generato).
Una ragione in più per mettersi il cuore in pace e considerare la diversità un valore, qualcosa di buono, bello.

P.S. Piantare alberi. Un gesto antico, che nella civiltà contadina era appannaggio di tutti, mentre ora si delega per di più all’esperto di turno, il giardiniere o la persona - per lo più anziana - che cura l’orto. Piantare alberi tuttavia ha un significato profondo, poiché legato a filo doppio all'aspettativa di futuro, alla volontà di costruirlo o, quanto meno, prepararlo. Vale per i popoli e pure per il singolo, per chi mette a dimora un seme non per sé, bensì lasciandolo in eredità e dunque a beneficio di qualcun altro.

mercoledì 4 ottobre 2023

Hai voluto la bicicletta (E io sto fermo)

È tornato dall'Irlanda, dopo due anni e mezzo di vita, studio e lavoro, ripartirà presto e per altro lido, sempre lontano da casa, questa volta in Spagna, a Barcellona: orizzonte certo, tempo imprecisato.
Una decisione su cui non ho proferito verbo, essendo ormai lui un adulto, come ho scritto nel giorno esatto in cui me ne sono accorto, poche settimane fa per altro.
Se lo scrivo qua non è per pettegolezzo, né per mettere in piazza affari che riguardano soltanto lui e al massimo noi, soltanto. Piuttosto perché esiste sempre un certo punto in cui i figli fanno le valigie e vogliono andare via, un'esperienza che per fortuna si ripete, anche se ciò, come ogni distacco, comporta pure una parte di sofferenza, di dolore. "Patire la ferita della loro libertà" scrive Franco Nembrini, nel suo libro "Di padre in figlio", in cui mette in guardia da due possibili errori: "Chiudere la casa per non lasciarli uscire oppure uscire con loro". Invece no. "L'adulto è quello che sta, che resta per la felicità che gode lui, per il bene che intravede lui, per la speranza che vive lui".
Soltanto così, lo scrive innanzi tutto per convincere appieno me stesso, chi se ne va potrà essere a sua volta felice, riuscendo a costruire fuori ciò che per lui esisterà sempre, dentro.

P.S. Aggiungo quello che in apparenza è un dettaglio, ma che quando lo ha comunicato ha suscitato uno stupore che ha lambito la perplessità e lo sgomento: "A Barcellona andrò in bicicletta".
Ora, non dico la madre, che si sa che le mamme sono apprensive e stanno in pena per un nonnulla e vorrebbero sempre controllare se uscendo ti sei coperto abbastanza o non hai scordato l'ombrello, ma pure io un sopracciglio l'ho alzato. Non per lui, che ha gambe e cuore d'atleta e in bicicletta potrebbe fare il giro del mondo, bensì per le insidie della strada, gli automobilisti distratti, i mezzi pesanti, le intemperie del meteo, l'organizzazione complessiva del viaggio... Poi, passato lo scossone iniziale e messo da parte l'istinto primario di protezione, è subentrata sua maestà la ragione e tutti i motivi per cui accettare la dose di rischio (gli stessi, ad esempio, di quando abbiamo detto di sì a Giovanni che voleva il motorino).
Perciò non mi resta che ricordare il post scriptum d'un anno esatto fa, che calza anche oggi a pennello: "La sensazione di precarietà è sovente abbinata al desiderio di tenere tutto sotto controllo, alla mania di gestire ogni cosa, alla paura di “lasciare che sia”, mollando la presa, affidandosi alla corrente, al mare aperto. Altrettanto spesso, specie in questo tempo, mi conforta e fa da bilanciere la lezione delle tragedie greche, di Elettra, di Edipo, sull’ineluttabilità del destino, la circostanza che nulla dipende veramente da noi e che dunque darsi troppa pena, oltre che sciocco, sia vano".

martedì 3 ottobre 2023

Dubbio magistrale (Ciò che conta davvero)

È vero, penso spesso alla fortuna di chi ha scelto un percorso di studi che sfocia in professioni in cui c'è molta richiesta d'impiego (ingegneria, chimica, medicina, infermieristica...), mentre tu hai deciso per il campo largo della filosofia, d'una materia che portando dappertutto non trova sbocco in nessun luogo specifico.
Poi però mi ritrovo sdraiato accanto a te, come ieri sera, mentre mi spieghi la differenza tra ontologia e metafisica, imitando con bonomia il tuo professore, quando dice che "la metafisica, la metafisica è tutto!", potendo discutere delle risposte di Papa Francesco ai "dubbia" di cinque cardinali, contando sulla capacità di comprendere e affrontare qualsiasi ragionamento, per amore di conoscenza, senza altro fine o scopo.
Ed è in quei momenti che il piatto della bilancia assume un altro peso e comprendo che se anche non ne ricavassi un euro, grazie a ciò che hai imparato e stai apprendendo sei certo più ricca e d'una ricchezza che non teme disoccupazione né inflazione o scherzi d'investimento.

P.S. Il percorso di laurea magistrale che hai scelto, in lingua inglese, per me è difficile da pronunciare e impossibile da ricordare a memoria, per esteso: "Philosophical Knowledge: Foundations, Methods, Applications". Hai cominciato a frequentare da un paio di settimane e, rispetto all'anno di lavoro che hai fatto, nella mia percezione è come se fossi tornata al liceo. Basta tuttavia un istante, un attimo, sentendoti parlare, per comprendere che no, che la ragazza di allora s'è già trasformata in donna e che nulla è più lo stesso, tranne l'essenza della persona che sei, curiosa e desiderosa di capire sempre tutto, a fondo.

lunedì 2 ottobre 2023

L'uomo nel mezzo (M'è capitata bella)

Il destino, oltre ad essere ineffabile, è pure beffardo.
Sia messo agli atti, a imperitura memoria: per mettere alla prova il mio noto spirito ottimistico nei confronti dell’essere umano, dell’umanità in sé e il convincimento sul suo progressivo “addomesticarsi”, diventare più gentile, tollerante, “umana”, appunto, ha fatto sì che mio figlio diventasse... arbitro.
Di calcio.
Non occorre aggiungere altro.
Qualcosa forse sì, potremmo aggiungerlo, così, per sport, per condividere più il divertimento che la rabbia, l’incredulità, lo sgomento, la delusione, la stizza nel sentire panciuti cinquantenni che non correrebbero di fila più di un minuto, mamme che il pallone sanno a malapena ch’è rotondo, nonni che a fatica si reggono in piedi, spesso aiutandosi aggrappandosi alla rete di recinzione a bordo campo, non cessando però di imprecare, sgolarsi, insultare con ostinazione e rancore profondo.
Il lato positivo - perché c'è sempre un aspetto positivo, in tutto - è che così alleno me stesso alla tolleranza, allo spirito zen, alla comprensione profonda dell'animo umano, incluso bassi istinti e diffusa ignoranza, ricordando che le persone sono quello, ma pure molto altro.

P.S. "Idiota", Mongolo", "Bastardo", "Capra", "Cretino", "Deficiente", "Venduto", "Fighetta"... Potrei continuare a lungo, con l'aggravante che finora, ad un anno esatto dal suo esordio (l'1 ottobre 2022), un po' per fortuna, un po' per suo talento, non c'è stata partita che sia una terminata in malo modo ovvero con proteste e lamentele dissennate e corali, al di là di qualche urlo, qualche epiteto più o meno volgare, variopinto. E anche quando le orecchie sentono gli insulti che gli rivolgono contro, il cuore non smette di essere fiero di quel ragazzo solo, in mezzo al campo, che (come altri ragazzi e ragazze) per pochi spiccioli e molto impegno, compie il proprio dovere, crescendo innanzi tutto come essere umano.

domenica 1 ottobre 2023

Restaurazione d'ottobre (Tra il dire e il fare)

Un post al giorno. A ottobre cerco sempre di farlo e pure quest'anno, nonostante fossi intenzionato a lasciar perdere, a interrompere un'abitudine cominciata per gioco, per sfida a me stesso.
Non scordando da dove sono partito: la convinzione che lasciare traccia ogni giorno conservando varietà, originalità, buon gusto sia impresa da geni, dunque fuori dalla portata del sottoscritto.
Ciò nonostante lo ripropongo, innanzi tutto come esercizio, considerato che tra le molte lacune che ho, la maggiore è certamente l'incapacità di tradurre in pratica quanto penso, di colmare la distanza tra il dire e il fare, che in me assume le proporzioni d'un oceano.

P.S. Ci sono due modi per guardare a se stessi: con eccessiva indulgenza e con pari durezza. Lascio sospeso perciò il giudizio su quante riportato in queste pagine, che può apparire poca cosa per me (e certo lo è), ma nel contempo non dispiacere a qualcun altro, per quell'insondabile mistero che, se preso a piccole dosi, può sembrare illuminante persino il banale, l'ovvio.

venerdì 29 settembre 2023

Cinque certezze (Più una)

“Non preoccupatevi se sbagliate, perché non è quello che traumatizza i figli. Li traumatizza piuttosto l’impressione che la loro casa sia costruita sulla sabbia e che basti un filo di vento per portare via tutto”.
Franco Nembrini

Le sabbie mobili. Quante volte, quanti giorni, nella vita, ci sentiamo così, come se affondassimo i piedi in assenza di una base solida su cui appoggiarsi, dove non si trova appiglio.
E la spinta, la mano che ancora trascina più a fondo è il racconto che ci viene fatto di ciò che non va bene, le brutte notizie, le crisi, i delitti, le guerre, le pandemie.
Narrazioni all’ingrosso, ma pure problemi al dettaglio, quelli con cui ci troviamo a convivere, in prima persona, ogni giorno: le crisi famigliari, il senso di solitudine, di smarrimento, la precarietà del lavoro, l’inquietudine dell’oggi, l’ansia per il futuro, l’erosione delle certezze…
Già. Le certezze. Le certezze sono o dovrebbero essere le strutture di palificazione, le fondamenta profonde in grado di sostenere la nostra esistenza al di là o, meglio, al di sopra delle sabbie mobili.
Quali sono allora, quali possono essere le nostre certezze, le sicurezze degli uomini e delle donne oggi?
L’elenco è aperto e personale: si recita a soggetto.
Io, da par mio, per non esagerare, ne indico quante se ne contano sulle dita di una mano.
Primo: la famiglia, le amicizie, le relazioni, i legami umani più stringenti e profondi, quelli con cui stiamo bene, certi di essere accolti, amati, cioè apprezzati al di là e pure al di qua dei nostri difetti. Le persone insomma sulle quali poter contare, che sappiamo “esserci”, in mille circostanze, dalle più serie (una malattia, un debito…) alle più banali (si buca una gomma, devo spostare un divano…).
Secondo: il senso di appartenenza a una comunità (ecco perché le trasformazioni fanno paura, perché ho la sensazione che la comunità in cui vivo non sia più la mia).
Terzo: la consapevolezza di far parte di qualcosa di misterioso, ma non insensato. Per qualcuno è Dio, per altri la natura, l’anima del mondo, la matematica dell’universo… Io dico semplicemente quel qualcosa, quella voce, che ciascuno sente dentro sé, in quel luogo chiamato “coscienza”, l’io, l’interiorità.
Quarto: la convinzione che - sia che tutto risponda a un disegno misterioso, sia che nel nulla cosmico sia immerso il mondo - è la fortuna (il caso) che fa la differenza, per cui tanto vale disporsi di fronte alla realtà con un certo “fatalismo”, imparando sì a ribellarsi all’ingiustizia ma accettando pure che l’ingiusto esista, per cui la canna che si piega al vento è meglio del tronco spezzato al fragore dell’uragano.
Quinto: l’essere umano in fondo aspira al bello, al buono e il male, che pure esiste, non ha mai l’ultima parola, perché anche da esso, sempre, prima o poi, nasce il bene.
A pensarci, non è poco.

P.S. "Non preoccupatevi di sbagliare". Un’affermazione rassicurante, quanto liberatoria. Non per tutti, soltanto per le persone più attente, sensibili, quelle che vanno in crisi facilmente. Per esse aggiungo un’ulteriore “certezza”: la capacità di essere indulgenti, per primi nei confronti di se stessi, accettando fragilità e debolezze, concedendosi tregua, se necessario. Sapersi perdonare, infatti, per uscire dalle sabbie mobili spesso è il primo passo.

sabato 23 settembre 2023

Continua per I (Siamo fatti di relazioni)

Incespico in mille pensieri e non faccio un passo, men che meno qui, in quella ch’è la parte migliore di me (anzi, la parte del me migliore, cioè al netto di limiti, vizi, debolezze).
Per scrivere ho bisogno di sponda, la consapevolezza di qualcuno che legga, a cui idealmente rivolgermi, di cui abbia dinnanzi il volto, con cui confrontarmi, dialogare, prendere ago e filo, tendere trama e tessere ordito.
Non è sempre stato così.
C’è stata una lunga stagione nella quale, per ingenuità o ricchezza di spirito, mi risultava facile dire la mia su tutto, riflettere, persino sentenziare.
Da tempo, invece, per evitare chiacchiere vane e costante rumore di fondo, avverto forte la tentazione di ripararmi in un guscio, di fare silenzio, astenermi e al tempo stesso astrarmi, pur se intuisco similmente il pericolo opposto, cioè il disimpegno, l’accidia, l’indifferenza totale, reciproca, il cinismo.
Perciò supplisco mandando messaggi, qualche mail, bussando come a una porta, cogliendo spunto da una foto, una storia, un commento, gli auguri per le feste comandate o il compleanno.
Grazie a chi comprende, a chi risponde, ancor più a chi mi scrive, mi chiama, contatta per primo, in vario modo, accendendo così la scintilla o tenendo viva la fiamma delle relazioni, dimostrando che da soli possiamo essere splendidi punti, ma sono le linee che uniscono a farci prendere forma, identità, disegno.

P.S. "Insieme" non è somma, bensì moltiplicazione. Ne sono convinto, sperimentandolo sulla mia pelle, ogni giorno. E "soli" non si è mai, basta volerlo, educandoci a tendere la mano "per primi" appunto, mai stancandoci di iniziare, ostinandoci a trovare rispondenza, rimbalzo.

sabato 9 settembre 2023

Partorito due volte (Un uomo)

"Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero".
Mino Martinazzoli

C’è una linea, non d’ombra, lunga due anni e mezzo, che unisce un'alba di gennaio alla notte d’un settembre mite, lieto.
E ci sono due punti, uno di partenza e uno d’arrivo, che brillano nitidi nel mio ricordo.
Il primo è quando sei partito e t’ho abbracciato forte, con il groppo in gola mascherato da un sorriso, sciolto due minuti più tardi, con te oramai dentro l’aeroporto e io in auto, che tornavo da solo (ci trovavamo in piena pandemia, era un salto nell’ignoto e mi consolava unicamente il tuo vederti determinato, curioso, convinto).
Il secondo è ieri l’altro, all’ennesimo tuo ritorno per una breve vacanza, ascoltandoti mentre parlavi calmo, quieto, con le tue solite parole misurate e soppesate, rendendomi conto in un lampo che a ventisei anni sei diventato adulto, un essere umano fatto e finito, maturo.
Nel mezzo, tra questi due poli, un equatore d’esperienze che ti hanno trasformato.
I mesi di addetto alle pulizie, quelli trascorsi come fact totum in un negozio, l’impiego da cameriere nel ristorante gestito da cinesi nel centro di Dublino, le certificazioni di lingua inglese, l’assunzione al servizio tutela minori irlandese, il periodo di prova lungo, reiterato, superato…
E ancora, le decine di conoscenze, i mille incontri, le molte relazioni intrecciate, le amicizie - rare, come hai detto tu, perché l’amicizia è un sentimento profondo - che hai costruito, la girandola di sentimenti provati, gli entusiasmi, le ansie, le preoccupazioni, le delusioni, le incomprensioni, le sorprese, le consapevolezze, le gioie…
Il riassunto, la sintesi, è che a guardarli a ritroso, gli ultimi due anni e mezzo sono una montagna altissima, scalata grazie a due trampoli: la perseveranza e l’incoscienza.
Incoscienza perché due anni fa neppure immaginavi lontanamente la distanza che separava chi eri da ciò che sei diventato. Eri “innocente” appunto, ed è per questo che hai saltato.
Perseveranza invece è la cifra della persona che sei, fin da bambino, che a volte può essere scambiata per asprezza o cocciutaggine, ma soltanto se ti si squadra da lontano, fermandosi alla superficie, alla pelle, ignorando ciò che più conta, il cuore assai sensibile di un ragazzo partorito due volte: la prima da sua madre, la seconda da sé, diventando uomo.

P.S. “Voi dite, ridete, però l’ho visto uscire dalla porta per andare a fare un'esperienza di qualche mese in Irlanda e invece non è più tornato”.
Quando lo dice mi fa sorridere, perché un po’ teatrale, certo esagerata, neanche commentasse una disgrazia, fossi morto. Però la capisco tua madre, comprendo e ammiro quel legame speciale tra mamma e figlio, cordone ombelicale tenace, desiderio di protezione proiettato all’infinito.
“Grande” in qualche modo lo è diventata anche lei, lo siamo divenuti pure noi, genitori, rendendoci conto nella carne, piuttosto che a parole, che i figli, tutti i figli, non sono mai “nostri”, bensì altro da noi, concessi in prestito, il tempo necessario affinché spieghino le ali e prendano il volo.

venerdì 1 settembre 2023

Comincia per D (Il valore della diversità)

"Se vuoi che qualcosa venga detto, chiedi ad un uomo. Se vuoi che qualcosa venga fatto, chiedi a una donna".
Margaret Thatcher

Detesto lusinghe e adulazioni, diffido delle generalizzazioni, credo profondamente nel valore della diversità. Compresa quella tra generi.
Un preambolo debole per una dichiarazione d'ammirazione forte, nei confronti non di una categoria, bensì delle molte donne che conosco, con nomi, volti, storie.
Mentre scrivo è come le avessi una ad una davanti agli occhi, ciascuna con la propria singolarità, molte con tratti comuni: la bellezza - intesa non come estetica, bensì come riflesso della parte più intima, più originale della propria identità, che potremmo chiamare anche "anima" - la sensibilità, l'intelligenza, il pragmatismo che sovente le distingue.
Nei loro confronti mi sento principalmente debitore. Non come Giorgio in sé, che potrebbe anche starci, bensì come uomo, maschio, apice di una tradizione che ha molti pregi, ma altresì storture che è nostro dovere raddrizzare. Penso al ruolo all'interno della famiglia, alla suddivisione rigida dei compiti, alla prevalenza della forza, alla mancata parità in fatto di riconoscimento, retribuzione, potere.
Un fattore culturale che non si cambia a suon di slogan o limitandosi alla stesura di leggi, regolamenti, bensì con l'educazione. Partendo dai figli. Dai figli maschi, in particolare.
Educare al rispetto, alla giustizia, all'eguaglianza, alla nobiltà d'animo, alla generosità, ma prima ancora all'empatia. Mettersi nei panni dell'altro, dell'altra, sentire sulla propria pelle ciò che può provare, proiettare dentro sé le sue paure, gli imbarazzi, le frustrazioni, il dolore, viverlo, come se capitasse a noi e non a qualcuno ch'è banalmente estraneo, distante.

P.S. I figli vanno educati, ma i figli a loro volta educano. Debbo alla mia secondogenita, Giorgia, quella che definire una "conversione" sarebbe esagerato, certo però è un modo diverso di vedere e valutare le cose. Anche perché dei "convertiti" non ho il sacro furore. Piuttosto, a spronarmi, è una ferma consapevolezza: la convinzione che proprio perché siamo differenti è insieme che - confrontandoci, discutendo, aiutandoci vicendevolmente - possiamo trasformare il mondo in un posto migliore. 

venerdì 25 agosto 2023

Teresa e Emanuela (Un'amicizia)

Infrango una promessa con me stesso, lasciando traccia qui anche in questo mese d'agosto e interrompendo un digiuno salutare di pubblici pensieri e parole.
Lo faccio perché i buoni propositi sono importanti, ma la vita con i suoi ammaestramenti lo è di più.
E una lezione di vita, d'amicizia, me l'hanno data, testimoniandola senza bisogno di proferire verbo, due persone a me care, una delle quali ci ha lasciato, due giorni fa, mentre all'altra sono legato per famiglia.
Teresa ha sofferto molto negli ultimi mesi. Affermare che la morte sia stata una "liberazione" non è fuori luogo né retorico. Giunge un punto nell'esistenza umana in cui "tutto è compiuto", per cui, seppur si potrebbe ragionevolmente aspirare a qualche altro anno, forse anche decennio, di pace e serenità, se a causa della malattia serenità e pace mancano è comprensibile "lasciar andare", non trattenere.
Si dice che quando si nasce sono belli, quando ci si sposa tutti sono ricchi e quando si muore tutti sono buoni. Non voglio fare torto a Teresa dunque con una banalità, certo però io non l'ho mai sentita parlare male di qualcuno, né negare un favore, né sottrarsi a un sorriso garbato di accoglienza, comprensione. L'ho e l'avrò sempre in mente seduta fuori casa, nel piccolo portico che condivideva con Emanuela, intenta a chiacchierare, fumare una sigaretta o anche soltanto a godersi un istante di quiete.
Devo essere onesto, ho un metodo arbitrario e opinabile per giudicare la bontà o meno delle persone: notare se vanno d'accordo o meno con i vicini. Ecco, tra Teresa e Emanuela non ricordo uno screzio, uno sgarbo, la ripicca legata anche a un malinteso. Nulla.
Al contrario, ho sempre ammirato loro una disposizione a comprendersi, l'aiutarsi a vicenda, l'ascoltarsi, uno stare accanto autentico, senza scene o moine, mai di facciata, sempre di sostanza.
Perciò, quando abbiamo accompagnato Teresa per l'ultimo viaggio, stamane, ho compreso la sincerità e la profondità degli occhi lucidi e limpidi di Emanuela, che per Teresa è stata, insieme con il marito Rocco e i figli Giuseppe e Simone, "famiglia".

P.S. Lo so, lo so che Fulvio, marito di Emanuela, desidera da me un favore, anche dall'alto dei piaceri che fa a me, ai miei figli, e non è detto che prima o poi non riesca ad accontentarlo, anzi, sono frequenti le volte in cui me lo riprometto, con disposizione sincera d'animo e cuore. Questa però non è ancora l'ora né il giorno, per scrivere un post, il post, per ricordarlo da vivo come se fosse morto. Gli toccherà aspettare. Sospetto che lo farà volentieri.

giovedì 27 luglio 2023

Mario Landriscina (Il non ancora sindaco)

Tutto passa, tutto se ne va. L'ho scritto allora, vale altrettanto adesso.
È passato anche lui, da sindaco di Como, ma questa è un'altra storia e forse pure lui un altro uomo rispetto a quando l'avevo intervistato.
E io, che lavorando nel frattempo a Bergamo non ho potuto seguirlo nell'esperienza amministrativa del capoluogo lariano, non saprei dire se abbia fatto bene oppure male, anche se certo la fine del suo mandato ha sancito un’abdicazione o, a leggerla con occhi altrui, un fallimento.
Come mai sia successo, cosa sia veramente accaduto, quale sia lo snodo dirimente tra amministrare bene - per giudizio quasi unanime - un'unità operativa fondamentale nel comparto pubblico ed essersi invece incartato nella gestione di giunta comunale e consiglio, non sapremmo dire.
Soltanto la storia, forse, potrà farlo, restituendo un giudizio meno miope e presbite, sia sul dritto, sia sul rovescio. Certo è che mi piacerebbe incontrarlo di nuovo e di nuovo chiacchierare con lui, senza filtri, da uomo a uomo, per sentire la sua versione della storia, prestando ascolto per una volta al lupo e non alla versione della storia narrata dal cacciatore e da Cappuccetto Rosso.

La mano sicura al volante. Brezza che sfiora il viso, fa socchiudere gli occhi e i capelli scompiglia. Liberi e leggeri. Senza paura né meta. Padroni di sé, del proprio destino, del mondo. Rombano il cuore e il motore. Una curva. Il cigolio dei freni sulla strada, le ruote che strisciano. Terrore, in un colpo. Lo schianto. Buio e silenzio.
Poi le luci, che brillano, lampeggiano, accecano. Rumori. E voci. Cento voci, confuse. Gente che urla, ordina, grida, invoca, si lamenta, piange, implora, prega, impreca.
Una vita, legata a un filo di speranza. Quel filo è in mano loro: gli uomini del 118. Mario Landriscina ne è il capo.
«Sono stato nominato da altri - dice - ma ho la convinzione di essere stato scelto da loro». I suoi ragazzi, volontari compresi. Una squadra.
È chiamata “unità operativa” e non è un caso. La coesione è palpabile. «Devo dire che siamo un buon gruppo». Famiglia, suggeriamo noi. «No, non siamo una famiglia» ribatte lesto lui. «Sarebbe un errore. Uno sbaglio che per primo ho fatto io. Quando sono arrivato avevo l'illusione che si potesse andar tutti d'amore e d'accordo, ma non è stato così. Con gli anni ho capito che è giusto rispettare le amicizie individuali e le personali antipatie. Ciò che conta è la disponibilità a lavorare insieme per un obiettivo».
Non occorrono molte domande per farlo parlare. Riflette a voce alta. Intimo e dolce, nell'istante in cui dimentica di aver accanto un interlocutore in carne ed ossa o quando intravede avanti a sé non il cronista, ma l'uomo che ascolta. In altri momenti, più lezioso. Quasi retorico. Una retorica, però, fatta di lettere minuscole. Che bandisce il motto e l'iperbole linguistica.
«Credo nell'autorevolezza che viene dall'esempio. Dobbiamo avere l'ambizione di porre l'uomo al centro dell’attenzione, affinché il singolo individuo cambi atteggiamento e il “sistema popolazione” cresca in cultura».
Cultura della vita. Un'espressione che usa sovente, associandola a un’altra: prevenzione.
«Ho girato molte scuole, con l’amico Roberto Campisi, comandante della Stradale, per sensibilizzare sull'importanza di essere prudenti, di usare il casco. Uno sforzo che comincio a pensare inutile. Lo scriva pure».
Una constatazione amara. Gli incidenti continuano ad accadere e nella quasi totalità dei casi sono gravi proprio perché non sono rispettate le norme minime di sicurezza.
Man mano che il suo discorso procede, tuttavia, si comprende che sull'altare della prevenzione Landriscina è disposto ad immolarsi ancora, continuando nella vita di tutti i giorni a professarne il verbo.
«Ho visto che è arrivato con il casco in testa, bravo. Sarei più tranquillo se usasse quello integrale».
Per quanto possa essere sprecato, ogni parola di buon senso fa valer la pena di impiegare il fiato. La sua non è una resa, bensì una provocazione.
Un modo di pungere. Proprio come fa per argomenti che conosce altrettanto da vicino. A cominciare dalla sanità.
«Sul futuro del Sant'Anna i politici non hanno progetti poiché assorti in altri pensieri e dominati da un male terribile: il pensare al quotidiano».
«Bisognerebbe avere il coraggio di interrogare i bravi medici che dai vari reparti se ne sono andati, per capire le ragioni di una scelta che, son certo, è stata sofferta».
«Dei nostri stipendi bassi non parlo, ma posso assicurare che qui nessuno si ferma per denaro. Esiste piuttosto uno sconosciuto motivo che ci tiene legati a questa struttura. Se però mi fosse chiesto in cosa questo motivo consiste, non saprei cosa rispondere».
«Sventurato è l'ospedale che non ha studenti e che non investe in ricerca».
Grande e grosso, sotto gli spessi baffi, Landriscina sa esser burbero.
«Ci sono state persone che hanno deciso che la nostra unità operativa non era il loro posto» esclama a un certo punto, non sorridendo nemmeno dell'eufemismo usato.
«Nel nostro servizio non possiamo permetterci un difetto di disciplina. Insieme stabiliamo le regole, a me spetta il compito di verificare che siano rispettate».
Severo. Persino duro, quando serve. O, meglio, rigoroso. Come suo padre.
«Sono nato poco dopo la fine della guerra. Vivevamo, a San Donnino. Mio papà era un insegnante. Fu maestro elementare, poi diventò professore alle superiori. Aveva un altissimo senso del dovere e voleva bene alla sua gente. Un tumore se l'è portato via, ma ricordo con piacere anche il tempo della sua malattia. Parlavamo a lungo».
Tutto passa, tutto se ne va. Alla precarietà Mario Landriscina è abituato. Precaria è la vita di chi viene soccorso dal 118 ogni giorno. Precaria la sua occupazione, primario non di ruolo. Precario il posto in cui lavora, una scatola prefabbricata, con pavimento che scricchiola sotto i piedi e pareti di latta che tremano quando l'elicottero, pur distante, si alza in volo. Eppure, in nessun altro luogo in cui siamo stati, abbiamo avvertito tanto nitido il senso dell'ordine e dell'efficienza. Il servizio di emergenza è un lavoro di frontiera e non ammette distrazioni o debolezze.
«Ho scelto la facoltà di medicina per una visione romantica di questo mestiere. Per quanto riguarda la specializzazione, è stata un caso. Un'amica del nostro gruppo di giovani rimase coinvolta in un incidente e io ebbi il compito di accertare come stava. Così conobbi il dottor Cesare Matteucci, il mio maestro».
Una cerchia, quella dei maestri, a cui non ci stupiremmo se venisse iscritto lo stesso Landriscina. Un ruolo che non è codificato sulla carta, bensì conquistato sul campo, mettendo in discussione sé stessi. Un titolo che appartiene a pochi: tutti coloro che hanno imparato come, nella vita, non si smetta mai di imparare.

17 settembre 2000

mercoledì 26 luglio 2023

Viviana Ballabio (L'atleta tenace)

La prima atleta che in vita mia ho intervistato, ben prima dell'incontro per questo articolo. La più "normale" tra le speciali che hanno vinto tutto. Una donna che dell'esistenza ha sperimentato il dritto e pure il rovescio. A Viviana Ballabio sono legato da più motivi e se scelgo la data odierna per ripubblicarne il suo "ritratto" è perché oggi compie gli anni, volendo così con queste parole fare un regalo, per primo a me stesso.

Per incontrarla, siamo tornati a casa. Seduti fianco a fianco, sulle tribune di un palasport che per anni abbiamo frequentato. Il tempo non si è fermato, ma basta un sorriso, una parola, uno sguardo per riattivare il circuito delle relazioni umane.
Viviana Ballabio, capitano della squadra femminile di pallacanestro del Pool Comense. Viviana Ballabio, ovvero l'elogio della normalità. Perché un talento eccelso la natura in dono non le ha portato. Niente polmoni capaci di sbuffare come caldaie o il fosforo di uno stratega geniale, né la mira infallibile di un formidabile cecchino. Di straordinario Viviana ha soltanto la forza della volontà. Ed è ciò che l'ha condotta lontano.
Nulla le è stato regalato. Quel che ha, se l'è preso sul campo. Giocando ogni partita come fosse l'ultima e terminando ogni volta fiacca e molle come un sacco svuotato. Ecco perché, a trenta tre anni compiuti, ammiriamo ancor più il suo stare al gioco. Abituata fin da ragazzina a competere con chiunque per ritagliarsi un posto in squadra, Viviana tra i due canestri non ha mai cercato il risparmio. E nemmeno riesce a farlo ora, che pure gli acciacchi e la stanchezza consiglierebbero prudenza e parsimonia. Potesse almeno imitare Mario Corso, che aveva nei piedi un tesoro e per gran parte dei novanta minuti si permetteva di cercare l'ombra in un prato dove gli alberi non crescono. Ma tirarsi indietro non può e non deve. Fosse nata uomo e avesse giocato a calcio il destino di Viviana non poteva essere che quello del mediano. Cuore grande e vita breve. Sportivamente parlando, si intende. Invece è ancora lì, ad inseguire ragazzine e a tirar manate ad un pallone. Stanca e rassegnata, ma non sconfitta.
«Con il nuovo allenatore si lavora molto e dopo ogni allenamento o partita che sia, mi accorgo di fare una gran fatica a recuperare. In più, non sto benissimo fisicamente. Mi tormentano cento fastidi, ma non mollo. Voglio riuscire a concludere la carriera in bellezza. La stagione scorsa non è stato possibile, spero avvenga quest'anno».
Stringe i denti, come sempre. Si rimbocca le maniche, abbassa la testa e pedala. Pure senza bicicletta pedala. Nei suoi occhi la luce splende ancora, anche se ormai è quella del tramonto.
«Penso sempre più spesso a cosa farò dopo, come impiegherò il mio tempo, che lavoro sceglierò. Non ho deciso ancora nulla. L'idea di rimanere nel settore, pur con un altro ruolo, non mi dispiace, ma neppure mi entusiasma. Certo alla Comense sono legata, ma non è scontato che nei piani futuri della società rientri io. Chissà, forse potrei esaudire qualche sogno. Come andare a curare le foche monache, in qualche fiordo lontano».
Mentre parla si torce i capelli. Distrattamente infila tra le ciocche e i riccioli scuri le dita. Un vezzo che ha sempre avuto. La concessione più civettuola di una ragazza poco abituata ai belletti e ai fronzoli della vanità. C'è infatti un'unica gara che vede Viviana sconfitta in partenza: la corsa all'estetista o al parrucchiere. Eppure in poche altre donne traspare una femminilità tanto intensa e vera. Una femminilità fatta di contrasti. Fragile e forte insieme. Tenera e tenace. La prima volta che l'intervistammo, dodici anni fa, scrivemmo che era dolce. Non abbiamo cambiato idea.
«Eppure cambiare idea è un segno di maturità. Io, ad esempio, quando è arrivato Aldo Corno, l'allenatore con cui abbiamo vinto tutto, ero disperata. Avevo una pessima opinione di lui e non lo sopportavo. Un'antipatia contraccambiata, tant'è vero che lui voleva cacciarmi via. Poi ci siamo conosciuti, chiariti, spiegati. È servito del tempo, molto tempo, ma alla fine ci siamo compresi a vicenda e credo che non potevo avere maestro migliore».
Guarda il campo vuoto e sorride. Ne ha viste e sentite tante il PalaSampietro, ma non ne racconta nessuna. Conserva geloso i segreti che vi sono custoditi.
Come nella favola del Re Leone, la storia di ognuno rientra nel cerchio della vita che, chiudendosi, ogni volta si rinnova.
«Quando ho iniziato a giocare non vedevo nulla oltre la pallacanestro. Respiravo, mangiavo, vivevo per il basket. Negli anni '90 è venuto il tempo della maturità. Eravamo un gruppo omogeneo, compatto e motivato. Non erano sempre rose e fiori e a volte si creavano forti antipatie, come tra Fullin e Gordon. Ognuno però voleva vincere e ciò faceva appianare qualsiasi contrasto. L'attuale gruppo è formato da giovani, che cercano di ritagliarsi con le unghie e con i denti un po' di spazio e da atlete come Zara e Paparazzo, consapevoli del loro valore e che hanno raggiunto uno standard altissimo di qualità. Infine ci sono io, che ho il futuro ormai alle spalle, ma che credo ancora di poter rendermi utile».
Beata modestia. Non finta, però. Brianzola autentica, abituata a contare le monete e a misurare le parole, Ballabio non è il tipo da portarsi appresso i numerosi trofei che ha vinto, tanto meno tutti i giorni, come fossero caricati su un carretto.
«No, non penso mai ai campionati o alle coppe che ho vinto e tanto meno al fatto che verrò ricordata in futuro».
L’ora dell’allenamento si avvicina. Dallo spogliatoio si affacciano le prime cestiste in braghette e canottiera. Dalla tribuna si sente guaire. Per tutto il tempo se n’è stato silenzioso, ma ora reclama un po’ di attenzione anche per sè. Si chiama Douce, è un barboncino. Da dieci anni la accompagna ovunque. Nessuno conosce Viviana meglio di lui, ma non può parlare. Anche stavolta ci dovremo rassegnare. Peccato capiti a noi di scrivere da cani, ma non il contrario.

22 ottobre 2000

sabato 15 luglio 2023

Padre Mario Testa (Il preside parroco)

Pure questo è uno dei molti incontri che ricordo vagamente o niente affatto. Tuttavia, nel rileggerli, comprendo di essere stato davvero ispirato, confermando la regola che più il personaggio è schivo, più occorre per chi lo intervista spirito indagatore, desiderio di cogliere l'essenza, il punto dritto ma anche il rovescio. Per questo, ne sono certo, è uno degli articoli che ad Adolfo, colui che volle fortemente questa galleria di personaggi, sarebbe piaciuto, mentre sono curioso di sapere se un briciolo di vero lo ritrovano i molti studenti del Gallio che lo hanno avuto per insegnante o preside.

A Villa Guardia, in una scuola che sormonta un prato incolto e una spianata di polvere e ghiaia, il tempo si è fermato. O forse, più semplicemente, siamo noi ad essere tornati indietro. In un fazzoletto di terra, una nuvola di ragazzini insegue un pallone. A far da arbitro, un prete. Padre Mario Testa, l'altro ieri come trent'anni fa. Cambiano gli attori e lo scenario, non il copione.
Un uomo basso, robusto, con una capoccia di dimensioni notevoli, che rende onore al cognome.
Un prete vestito da prete, un Padre che si comporta da padre. Una vita spesa nella scuola come educatore, insegnante, preside, persino rettore, ma con lo stile, la semplicità e anche la praticità di un parroco.
Un'intuizione raccolta quando ci è venuto incontro e di cui ci siamo convinti una volta accomodati nel suo studio, valutandone l'arredamento e verificando a spanne la posizione dell’ufficio.
Per mezz'ora abbiamo rinviato di approfondire l'argomento, ma prima di congedarci, con la meticolosità dell'investigatore che vuol dare fondamento a un giudizio che si è già fatto, gli abbiamo domandato: "Questo è sempre stato l'ufficio del preside oppure lo ha scelto lei"?
Di aver colto nel segno lo abbiamo compreso prima ancora che egli proferisse parola, scorgendogli agli angoli del volto un accenno di sorriso.
«No, prima che arrivassi la presidenza era sopra, accanto alla segreteria. Sono stato io a volerla spostare».
Un locale alto, al pianterreno, sistemato proprio a fianco dell'ingresso. La porta sempre aperta («Così i ragazzi spiano, entrano, curiosano, mi parlano, si sentono insomma a loro agio»). Come quella di un buon parroco, appunto.
Soltanto che i fedeli della sua parrocchia non superano mai la giovane età. Per fortuna, non per disgrazia.
Se l'avessimo conosciuto prima, potremmo precisare se in questi anni, da quando ha lasciato il Collegio Gallio di Como per assumere la direzione dell'Istituto Santa Maria Assunta di Villa Guardia, è fisicamente cambiato. A naso, giureremmo di no, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco. Azzardo che invece sottoscriveremmo se si trattasse di scommettere sul fatto che egli abbia conservato un carattere equilibrato, discreto e paziente. Qualità preziose quando si vive gomito a gomito con schiere di bambini e adolescenti.
«Io cerco di stabilire con loro un rapporto di confidenza e di fiducia. Credo di essere autorevole, ma non autoritario, puntando più sull'esempio che sulle parole».
Il pensiero di diventare sacerdote Mario Testa cominciò ad averlo cinquant'anni fa.
«I miei genitori erano operai, abitavamo a Mantegazza, vicino a Rho. Poco distante da noi sorgeva il seminario dei padri Somaschi e dopo il mio decimo compleanno chiesi a mia madre di iscrivermi. Quando tornò a casa, dicendomi che aveva fatto ciò che le avevo chiesto, per un istante mi si bloccò il cuore. Non fu un pentimento. Piuttosto mi resi conto, quasi fisicamente, che l'infanzia spensierata stava per finire. Eppure, in tanti anni non c'è mai stato un istante in cui abbia avuto un solo ripensamento su quella mia decisione».
In seminario, a Corbetta, nei pressi di Magenta. Poi a studiare a Camino Vercellese, a Genova e infine teologia a Roma. Ricevuto il sacramento dell’Ordine, il primo incarico gli viene assegnato a Milano, ma è intorno a Como che si declina la sua missione educativa.
«Al Collegio Gallio arrivai negli anni '60 e in tanti anni mi sono occupato davvero di un po’ di tutto. Nel 1976 fui scelto per succedere a padre Pigato come preside del Liceo Classico».
Non è facile sostituire un monumento. Se anche ci si abitua al piedistallo, il rischio di cadere è sempre alto. Non gli è capitato. Anzi, dicono che il meglio di sé padre Testa lo abbia dato da rettore, quando ha saputo gestire il Collegio con sapienza. La stessa accortezza che egli ha usato a Villa Guardia.
«Quando le suore del Buon Pastore si sono fatte da parte, ho seguito personalmente le trattative per subentrare e i superiori hanno poi deciso che fossi io a iniziare il cammino. Sono stato fortunato, poiché il corpo insegnanti era di spessore. Gli unici aggiustamenti li ho dovuti dare alla struttura».
Spostando il suo studio, ad esempio. Ma anche usando quello spirito di iniziativa che il Signore, evidentemente, gli ha portato in dono.
Perché padre Testa guarda al cielo, non scordando però di tenere i piedi ben saldi per terra. Continuando a cimentarsi con gli affari di questo mondo e soprattutto non scordando mai che l'educazione dei più piccoli è in cima alla sua missione.
«Le esigenze dei ragazzi sono sempre le stesse, anche se si manifestano in maniera diversa, più esuberante, più vivace. Ma ciò che li muove, ciò che cercano non è mutato: essere rispettati come persone, poter contare su tranquillità e valori su cui fondare la propria vita».
"Uscire con prudenza" recita un’iscrizione sul lato interno della colonna che sostiene i battenti del cancello dell'istituto. Dal lato opposto, chi arriva dalla strada maestra può notare una targa con un cerchio rosso sbarrato di bianco e la frase: "Divieto di accesso, proprietà privata". Cartelli qualsiasi, niente di anormale, dunque. Tuttavia non ci saremmo stupiti se lui avesse fatto stampare qualcosa di simile a "Entrate con speranza" e "Uscite con coraggio". Due motti che non avrebbero stonato. E se anche padre Testa di suo pugno non li ha scritti, è ciò che generazioni di ragazzi in quest'angolo di mondo hanno certo da lui imparato. Dio gliene renda merito, gli uomini pure.

28 maggio 2000

giovedì 13 luglio 2023

Cia Marazzi (La missionaria pungente)

Nulla. Assolutamente nulla. È ciò che mi ricordo di lei, pure se strizzo le meningi e tiro come da un argano la memoria. Eppure, a rileggerle ora, non banali sono state alcune sue riflessioni, certi suoi spunti, anche come indicazione "pastorale" sull'importanza del sentirsi "in missione", una tensione che ora più che mai manca.

Una donna tutta casa e chiesa, potremmo scrivere, se a casa non restasse così poco. A settantaquattro anni la professoressa Marazzi (per l'anagrafe Angela Maria, per tutti gli altri, semplicemente Cia) ha una vitalità inesauribile. Un fiume d'energia disperso in mille rivoli. Che confluiscono tutti nello stesso fiume: la parrocchia. O nella diocesi, che altro poi non è che una parrocchia grande.
Alla medesima stregua Cia Marazzi tratta il Vescovo: come fosse un parroco. Il parroco che monsignor Maggiolini non è mai stato. «Insomma, un conto è operare nella Chiesa locale, un altro è insegnare all'Università Cattolica, magari occupandosi del Marianum».
A questo punto una precisazione, più che opportuna, è indispensabile. Ascoltando per una manciata di minuti Cia Marazzi siam riusciti a raccogliere, riguardo al Vescovo di Como, più curiosità che in tanti anni di lettura di cronache curiali e mondane. Tanto che ci sarebbe bastato ricopiare gli appunti per occupare non soltanto lo spazio di questo articolo, ma la pagina intera. E senza timore di annoiare, perché il modo in cui Cia racconta le cose ha di per sé brio a sufficienza da tener svegli ventiquattr'ore. Tuttavia non lo facciamo. Per due semplici motivi. Innanzi tutto, troppo importante è il Vescovo e troppo maliziosi sono gli occhi che gli son puntati addosso per non rischiare di tramutare anche il più simpatico degli aneddoti in un'ombra.
Secondo, messe nero su bianco le sue parole potrebbero sembrare pettegolezzi carpiti origliando in sacrestia, mentre non sono altro che le genuine confidenze raccolte in molti mesi di frequentazione ecclesiale. Fatti e opinioni riportate con la complicità con cui i fedeli più devoti parlottano sulle soglie degli oratori o sul piazzale della chiesa. Considerazioni a volte taglienti, è vero, ma che rivelano sempre un fondo di bontà. Un calore umano capace di smorzare ogni critica con un silenziatore. Lo stesso silenziatore che abbiam voluto mettere noi a quanto ha detto. Non per evitare imbarazzi a Maggiolini, che essendo abituato ad entrare nel vivo di polemiche aspre e delicate, si sarebbe fatto certamente due risate, bensì per impedire ai maligni di veder una pagliuzza di scandalo dove invece ci sono soltanto travi di affetto.
Un affetto che non fa desistere Cia Marazzi dal criticare il suo Pastore («Non gliene faccio passare una»), ma che la induce anche a difenderlo quando tutti gli puntano il dito contro («Lui a volte è un Pizzighetti che non sta zitto, ma anche coloro che a volte attacca non sono i santi che vorrebbero apparire»).
La Chiesa di Como. Il suo mondo. L'Azione Cattolica, la catechesi, la pastorale. La sua vita. In un'ora e mezza non siam quasi riusciti a parlare d'altro. Non passa giorno che a piedi non percorra avanti e indietro due, tre, quattro volte le centinaia di metri di via Torno, dove abita, per recarsi a Sant'Agostino, in Duomo, al Centro Pastorale.
Una vocazione forte, a cui ha risposto senza alzare la voce, mettendo in moto i piedi.
«Scarpe numero trentasette» risponde a chi le chiede come riesca a far tante cose senza avere né auto né patente.
«Il futuro della Chiesa si gioca nella riscoperta del senso di missione. Oggi più che mai bisogna andare». Lei va. Nella Cooperativa di Cavallasca, nei condomini di Rovellasca, nelle sale di Como città.
Ha scritto lo storico inglese Thomas Macaulay: "La Chiesa Romana conosce alla perfezione quello che nessun'altra Chiesa ha mai saputo: cosa fare degli entusiasti". Non si era sbagliato.
Per la diocesi Cia Marazzi lavora, scrive, insegna. Un mestiere, quest'ultimo, a cui è abituata. L'ha fatto per cinquant'anni. Quarantuno al servizio dello Stato, gli ultimi nove dalle suore, a Maccio di Villaguardia.
«Fin da bambina volevo fare la maestra. Non sapevo ancora parlare, ma comandavo già» precisa sorridendo.
«Mi sono laureata in lingue straniere all'Università Cattolica, insegnando in asili e scuole elementari, commerciali, industriali, medie. Ero severa, ma non ho mai mancato di rispetto per la persona umana. A Erba, Albese, Albavilla, terra di gente generosa, ma anche dura, brianzoli con sangue spagnolo nelle vene. Anche da preside, credo di aver lasciato un buon ricordo. Quando è stato il momento di andare in pensione le suore del Buon Pastore mi chiesero di dar loro una mano. Me ne sono andata dopo aver fatto in modo che l'istituto passasse sotto l'egida dei padri del Gallio. Almeno lì non è arrivata Comunione e Liberazione».
Eccoci di nuovo. A fatica ci eravamo scostati da tonache, altari e fumo di candele e in men che in un baleno, senza neppure avere il tempo di accorgercene, siamo tornati indietro. Troppo forte la tentazione, troppo interessante il problema, identico il modo di affrontarlo: non lasciando perdere nulla, ma perdonando tutto.
«Prima le Orsoline di Como, poi quelle di Roma e il Buon Pastore di Milano. A poco a poco Comunione e Liberazione sta mettendo le mani su tutte le scuole cattoliche. Bastava essere a San Pietro, qualche giorno fa, per rendersene conto. Però bisogna ammettere che ci sanno fare. E quando siamo andati dal Papa hanno avuto almeno il buon gusto di non mettere striscioni di parte».
Cia Marazzi per scelta non si è mai sposata. «Non crediate però che sia nata a settantaquattro anni. Ho avuto anch'io le mie passioni» precisa vispa.
Attualmente gode di buone letture e di ottima salute. «L'ultima volta che ho visto il medico è stato dieci anni fa. Ero andata per misurare la pressione. Ma non la mia, quella di mia mamma, che è morta parecchio tempo dopo, mentre si stava pettinando, senza aver fatto un giorno di malattia. Aveva novantadue anni». Dio l'abbia in gloria. E si ricordi della figlia. Non dimenticandosi pure il dottore, che nel frattempo è andato in pensione.

28 novembre 1999

mercoledì 12 luglio 2023

Martino Verga (Il sussurratore ammaliante)

Debbo moltissimo ad Adolfo Caldarini, il mio direttore dei tempi del Corriere, la cui stima mi è stata da spunto, oltre che da sprone, per ciascuno degli oltre centoquaranta "ritratti" di comaschi illustri, da lui fortissimamente voluti.
Il guizzo vivace nei suoi occhi ogni volta che leggeva la bozza dell'articolo valeva assai più di qualsiasi compenso, così come il cenno di approvazione finale, spesso con qualche sottolineatura.
Un rituale con rarissime eccezioni. La più clamorosa - e dolorosa - è legata per me a Martino Verga, una tra le persone che tra l'altro ho ammirato di più, avendo la fortuna di frequentarlo anche successivamente a quel primo incontro.
L'intervista che ne uscì, infatti, non piacque per nulla a Caldarini, che da galantuomo qual era non me lo nascose, dandomi così un dispiacere e insieme una lezione. "Giorgio! - esclamò, chiamandomi nel suo ufficio - Giorgio... Sai quanto ti stimo, vero? Però sai anche perché ti stimo? Ti stimo perché mi piace come scrivi ma più ancora perché hai un dono: riesci a cogliere l'essenza delle persone e a trasmetterla in poche righe. Stavolta invece hai scritto poco o nulla di Martino e invece hai fatto un pippone su quello che fa, che dice. Ti prego, rifalla".
Così la riscrissi. Non tutta. Una parte, poiché mancava poco ad andare in stampa, aggiungendo tuttavia qualcosa che in effetti mancava.
A un quarto di secolo di distanza lo ricordo ancora e qui ne voglio segnalare pure il motivo: Martino Verga era talmente appassionato del suo lavoro, di ciò che faceva, che ha finito con il contagiare anche me, che ho quasi scordato lui, ammaliato e affascinato, quasi ipnotizzato, da quel suo modo lieve e piano di parlare, quasi sussurrando.

Il paragone, più che ardito, appare sfrontato.
L’uno “mostro gigantesco, non simile a uomo che mangia pane, ma a picco selvoso tra alte montagne”. L’altro, laureato in chimica e biologia, industriale nel settore alimentare. Il primo, prepotente e sciagurato, figlio di Poseidone. Il secondo, tranquillo e misurato, discendente da una famiglia che da quattro generazioni si occupa di impresa e affari. Quello, capace di lanciar massi grandi quanto “un cucuzzolo di un gran monte”. Questo, abile nel l’usare il cervello. Nulla sembra più distante di due siffatti opposti.
Eppure Polifemo e Martino Verga qualcosa in comune hanno. “Subito fece cagliare una metà di quel bianco latte” recita Omero, cantando del ciclope le gesta. Polifemo la sapeva lunga, per farla breve, in fatto di latte e formaggi. Proprio come Martino Verga, titolare di aziende che si occupano di biotecnologie.
Lo precede una fama ingombrante. Ci hanno detto che è intelligente. Quando ci fa accomodare nel suo ampio ufficio, che alle pareti ha appese tele che rappresentano mucche («i clienti vedono le loro bestie e sono contenti»), le aspettative nei suoi confronti sono elevate. Non ne restiamo delusi. L’aspetto cortese, quasi dimesso, non trae in inganno. Martino Verga possiede un dono raro: esser semplice, ma non banale; presentare dei fatti le conseguenze, non desistendo dal ricercarne le cause. Ciò a prescindere dall’argomento interessato, che si tratti di teorie scientifiche o della presentazione della sua principale attività.
«Il Caglificio Clerici, seleziona enzimi da impiegare nel settore lattiero caseario. La Sacco, acquistata dodici anni fa, produce fermenti lattici e microrganismi per l'industria alimentare».
Bastano poche parole per svelare l’arte del suo mestiere. Conciliare una trovata antica quanto il mondo con le esigenze e le innovazioni tecnologiche attuali.
«Dall’alba dei tempi l'uomo ha imparato a far fermentare gli alimenti per conservarli. Fino a pochi anni fa, per cagliare il latte, si immergevano pezzetti di stomaco animale che, rilasciando enzimi, consentivano la coagulazione. È evidente che ripetere pari pari quest'operazione oggi non tutelerebbe affatto l'igiene, perciò, utilizzando lo stesso principio, selezioniamo chimicamente gli enzimi per cagliare il latte. Medesimo discorso vale per la produzione di microrganismi. Un tempo, quando il contadino mungeva, nel latte cadevano anche alcuni microbi. Questa flora batterica dava un gusto particolare al formaggio. In Val d'Aosta si otteneva la fontina, in Campania la mozzarella, in Svizzera l'emmental coi buchi e così via. Nel latte cascavano anche microbi pericolosi, portatori di tubercolosi o altro. Per questo il latte deve essere pastorizzato, eliminando tutti i microrganismi. È necessario allora raccogliere tutti i microbi buoni, selezionarli, pulirli e fornirli ai caseifici per differenziare i sapori dei vari prodotti».
Un mestiere complesso, che necessità di continua ricerca. Per associazione di idee non possiamo non chiedere della collaborazione con l’università.
«All’Unione industriali si parla molto di questo rapporto aziende-università. A Como ci sono difficoltà ad instaurare un rapporto proficuo. Ritengo che dipenda dalla tipologia aziendale. Per il tessile, ad esempio, le tecnologie non sono in rapidissima evoluzione, per cui la ricerca è meno importante e collaborare non diventa una necessità. Per noi è il contrario e la risposta dell’università è indispensabile».
Avviato il discorso, non resistiamo alla tentazione di metterlo alla prova su un tema affascinante, ma che raramente si concilia con l’ambizione al profitto di un imprenditore. Ricerca può voler dire manipolazione genetica, cioè i confini etici del proprio lavoro, dove la domanda diventa un abisso.
«Di principio sono assoluta mente contrario a certe tecniche. Se però in futuro il mercato dovesse accettarle, potremo ignorarle? Almeno centodieci famiglie contano sul nostro lavoro. Sentiremmo di aver la coscienza a posto se non ci preparassimo? Certo i rischi sono notevoli. È scontato condannare la manipolazione su esseri umani, ma ci sono settori in cui la questione è più sottile ed egualmente pericolosa. Pensiamo all’inquinamento ambientale. Fino ad ora si è sempre parlato di quello chimico. Le acque sporcate delle tintostamperie, i gas di scarico delle automobili, eccetera. Meno evidente, ma altrettanto dannoso può essere l'inquinamento biologico. Se si manipolano microrganismi, piante, animali, quando questi tornano a contatto con l'ambiente, non è che muoiano e svaniscano nel nulla. A differenza delle sostanze chimiche, queste si riproducono, invadono nicchie ecologiche, distruggono, si sostituiscono facilmente ad altre specie. C'è stata un'azienda che produceva semenze in grandissima quantità e le manipolava in modo che le piante che nascevano da esse fossero resistenti agli erbicidi, prodotti dalla stessa ditta. Qualcuno aveva ipotizzato che i geni modificati sarebbero potuti trasferirsi in altre piante, ma gli scienziati negarono tutto. Così si produsse il mais resistente. Anni dopo si notò che le erbacce, di genere e specie completamente diverse, erano diventate resistenti agli erbicidi. L'evoluzione genetica non era stata controllata. Qual è la lezione? Dobbiamo forse inventare erbicidi sempre più potenti? Non è una corsa folle?».
La fama non è stata smentita. La retorica è rimasta fuori dalla porta. Lo stesso vale per il giudizio su Como.
«Considero assai triste la chiusura di tanti negozi. In centro rimangono solo quelli di abbigliamento. È innegabile una dissoluzione del tessuto sociale. Una città è viva se ci sono possibilità per tutti. Alla fine di ogni anno sul Sole 24ore compaiono alcune statistiche. Mi ha colpito il fatto che Como è in quasi tutti i settori in posizione mediocre o cattiva. Siamo invece al terzo posto come presenza di grandi centri commerciali. Primeggiare solo in questo campo evidenzia comunque uno squilibrio. Si parla di Como città turistica, ma a parte il lago e alcuni monumenti, non esistono attrazioni come in altre città lombarde. Forse solo Sondrio e Varese non ci superano. Poi c'è troppa rissosità. Mi pare che i comaschi prendano gusto a bisticciare. Appena qualcuno ha una proposta, ecco che si alza un altro per criticare. Bisogna rifuggire dal pettegolezzo e dal litigio continuo. A parte questo Como è un bel posto».
L’analisi continua, ma ci piace finire qui. Per tutto il tempo abbiamo avuto un pensiero che stentavamo a reprimere. Tanto sforzo per nulla, poiché prima di congedarci non riusciamo a trattenerci. Complimenti per le molte candidature, abbozziamo.
La sua reazione è decisa, ma bonaria. «Basta con i borsini - replica corrucciato, senza però nascondere un sorriso - a parte che vengo pure preso in giro, quello che mi scoccia è apparire come un arrivista e un intrigante. Non è così. Desidero solo dedicarmi al mio lavoro».

11 gennaio 1998

martedì 11 luglio 2023

Vittoria (Il sole che spunta)

La notte del giorno in cui sei nata una tempesta ha divelto centinaia di piante, alcune spezzandole di netto, altre addirittura sradicandole, pur se pochi o nessuno ne conserveranno memoria.
Sarà un dettaglio ormai, ad anni di distanza, quando i tuoi occhi ciechi di neonata si saranno schiusi al mondo, limpidi e profondi - ne sono certo - quali quelli di tua mamma.
Ti hanno chiamato Vittoria e lo sei per noi, prima della nuova stirpe, continuatrice di una tradizione antica e, grazie a te, sempre nuova.
Altro non ho da aggiungere, oltre a dirti che davvero sei stata tanto attesa e voluta, ma ti vorremmo ugualmente bene se fossi semplicemente capitata, che figli e figlie sono doni pure quando hanno forma di progetto di vita.

P.S. Devi sapere anche questo, che siamo cerchi, anelli di catena, ciascuno perfetto in sé eppure parte di una linea infinita.
Impressa nella tua carne è l’impronta di una schiera infinita, un filamento di molecole della stessa sostanza delle stelle, il vero e unico miracolo rinnovato della natura.
Perciò ogni volta che ti guarderò vedrò in te decine di volti e centinaia di storie che ti hanno preceduta.
E mi perdoneranno i molti che ometto di citare in prima persona se pongo due donne in cima alla lista: le tue bisnonne in linea paterna. Avevano nome simile - Adele, Adelrosa - e destini diversi, una portata via assai giovane, passati da poco i cinquant’anni, l’altra pochi mesi fa, sull'uscio dei novanta. È a loro che mentalmente ti affido, pur se Michela e Matteo saranno bravissimi a crescerti. Intanto ti hanno chiamato Vittoria ed è giusto così, per ricordarci che sarai sempre una gioia, mai una sconfitta, e che dopo ogni notte di tempesta c'è un'alba, con il sole che spunta.

lunedì 10 luglio 2023

Giovanni Lo Gatto (Il magistrato serafico)

Lo ricordo oggi, nel giorno in cui se n'è andato un suo successore, quel Giacomo Bodero Maccabeo che ha rappresentato - tra i Procuratori della Repubblica in servizio a Como - senza dubbio una punta di diamante.
Giocatore di tennis entusiasta ed affabulatore convinto, Giacomo si distingueva da Giovanni, pur essendo della stessa pasta, nel senso che al rispetto sacro per il proprio ruolo univa uno spessore umano non comune, oltre a un rigore che sta ai magistrati come la curiosità ai giornalisti.
In più a Lo Gatto sono grato perché ha dato i natali a un'amica, Luisa, che stimo altrettanto e con la quale ho un debito di riconoscenza per aver testimoniato che chi giudica è - e deve rimanere - innanzi tutto una persona. Se poi è donna e ha sensibilità femminile, tanto meglio.

Come i soldi per un avaro. Come l'acqua per un abitante del deserto. Giovanni Lo Gatto usa le parole con parsimonia estrema. È arduo che una sua frase contenga più vocaboli di quanti se ne possano contare sulle dita di una mano. I termini egli non solo li centellina. Usa anche squadrarli, pesarli e misurarli ad uno ad uno. Con accortezza e rigore.
Non è unicamente una questione di numeri, ma anche di toni.
Giovanni è Lo Gatto non soltanto di cognome. Il felino domestico è felpato nel passo, lui nel modo di parlare.
In un aula di tribunale ammettiamo di non averlo mai visto dibattere, ma scommettiamo che neppure lì abbia mai alzato la voce.
Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Como da oltre tre decenni, Lo Gatto è un uomo di legge tutto d’un pezzo. Nel corso della sua carriera ha sostenuto l'accusa, come pubblico ministero, in migliaia di processi, ma non ce lo immaginiamo affatto accanirsi pervicacemente nei confronti di una persona, fosse anche un incallito criminale. Con una faccia come la sua, non se lo potrebbe permettere. È vero che le caratteristiche somatiche non hanno relazione con il carattere di una persona, eppure certe persone hanno nel volto alcuni tratti sottili e taglienti che rimandano ad una pignoleria e ad una inflessibilità che sovente si imparenta con il fanatismo. Non è il suo caso.
Al contrario, i suoi occhi sottolineano una certa vocazione alla bonarietà.
Lo Gatto ha il suo ufficio, al quinto piano del Palazzo di Giustizia. Un ampio e luminoso locale, in perfetta sintonia con la sobrietà dell'uomo e la dignità del personaggio.
Come mai scelse la magistratura?
«A me non dispiaceva medicina, ma la prima volta che visitai un laboratorio di patologia stetti piuttosto male e scartai l'ipotesi di diventare medico».
Non si è pentito?
«Mai. Anche se durante il primo incarico di pretore venni spesso delegato per le indagini autoptiche e dovetti fare l'abitudine a veder sezionare i cadaveri. Il destino sa essere beffardo».
Dopo essere stato a Brescia, Castiglione delle Stiviere e Intra, nel 1964 arrivò a Como. Cosa trovò?
«Tranquillità. Il reato più frequente era il contrabbando. Per rompere la monotonia ci contendevamo in Corte d’Assise qualche omicidio».
Ora invece?
«La situazione si è deteriorata. Droga, terrorismo, reati contro la pubblica amministrazione, tangenti. La condizione lariana si è omologata a quella nazionale».
Con gli abitanti di Como ha legato subito?
«C’è voluto del tempo, poi ho coltivato numerose amicizie. I comaschi sono meno esuberanti dei meridionali».
In principio parla dei comaschi alla terza persona plurale, ma l’impressione è che a Lo Gatto scappi da un momento all'altro un “noi”. Infatti accade. «Noi siamo meno estroversi - confida il procuratore - un po' più diffidenti nei confronti di chi viene da fuori, ma una volta che l'amicizia si è cementata sappiamo essere generosi». Il pronome personale non è di maniera, sottolinea un'appartenenza. Giovanni Lo Gatto è nato sessantotto anni fa a Napoli, ma della sua terra ha conservato l’accento e poco altro. Se per comasco si intende un modo di vita senza clamori, discreto, riservato, Lo Gatto comasco lo è a tutto tondo.
Oggi molte polemiche coinvolgono la magistratura. Che ne pensa?
«In sintesi, sono d'accordo con la posizione della procura di Milano».
Ma le loro toghe non sono rosse?
«Voler dare una coloritura politica al pool di “mani pulite” porta completamente fuori strada. Il pool è composto da uomini di diverse tendenze».
Certe voci fanno allora parte di un piano per screditare la magistratura?
«Ai complotti e ai disegni credo poco. Avverto piuttosto un certo risentimento, una certa insofferenza nei confronti dei magistrati da parte di coloro che, per motivi vari, erano abituati ad essere esenti da ogni controllo».
Si riferisce alle persone coinvolte in Tangentopoli?
«Soprattutto a loro. All'inizio degli anni ’90, per una serie di circostanze, si creò un clima favorevole che fece scattare un meccanismo di segnalazione delle illegalità».
E i magistrati?
«Quando si sente il sostegno dell'opinione pubblica si diventa più forti. Il contesto in cui si lavora è importante».
Quel clima favorevole esiste ancora?
«Indubbiamente si sta registrando un raffreddamento».
Scusi l'insistenza. Per parlare il vostro stesso linguaggio, questo calo di tensione può essere dimostrato attraverso dei fatti, delle prove oppure ci sono solo degli indizi?
«Lo si evince dagli atteggiamenti dei politici. Gruppi che prima sostenevano l'operazione “mani pulite”, ora hanno perlomeno affievolito il loro impegno».
C’è una via d'uscita?
«L’auspicio è che i poteri di controllo all'interno della pubblica amministrazione diventino sempre più efficaci ed effettivi, in modo che la nostra sia un'azione residuale».
In questo modo diminuirebbero i carichi di lavoro, rendendo la giustizia più rapida?
«Certamente. E qualcosa si potrebbe fare anche livello legislativo. Inasprire le sanzioni serve a poco. Il problema è la loro effettività. Occorre la certezza della pena. In Italia è questo che manca. La sentenza definitiva arriva con anni di ritardo. Nel penale almeno la sentenza di secondo grado dovrebbe essere esecutiva. E poi l'azione della Cassazione dovrebbe essere limitata ai motivi di legittimità».
Mentre parla Lo Gatto tiene in mano l’inseparabile pipa.
«È una compagna fedele da circa vent'anni. Le sigarette le fumavo anche mentre lavoravo, con la pipa non è possibile, la accendo solo nei momenti di relax».
Che altre passioni ha?
«La storia. A partire dalla Rivoluzione francese in poi».
C’è qualche personaggio che più l'ha affascinata.
«Ce ne sono parecchi, ma non faccio nomi poiché non vorrei fare un torto agli altri».
Fare torti può capitare ad un magistrato. La sua è una professione che comporta problemi di coscienza.
«Il nostro è un lavoro angoscioso. Più grave è il reato, maggiore è la perplessità nel decidere».
Ha sempre dormito la notte?
«Se non l’ho fatto era per il dubbio di una scelta, mai perché non mi sentissi in pace con la mia coscienza».

19 aprile 1998

domenica 9 luglio 2023

Eli Riva (Lo scultore ritorto)

Ci sono intervistati che non ricordo affatto e altri che mi si sono impressi a fuoco, più di un tatuaggio. L'incontro con Eli Riva è stato senz'altro questo: una rivelazione, la sensazione precisa di avere di fronte un gigante, anche se ritorto come le sue sculture di quel periodo, quasi in perenna lotta con il mondo reale, in cui l'arte non era rifugio, bensì specchio.
In più, rammento con esattezza altri dettagli: che era la vigilia di Natale, che la temperatura del suo studio ricavato in un garage era gelida, che le sue mani - al momento di stringerle - si chiusero sulle mie, come un guscio, un lenzuolo.
Anche per questo a Eli e alla sua famiglia sono sempre rimasto affezionato.

Ecce homo. Ecco l'uomo. Un Cristo nudo, spoglio, ligneo come la croce che lo ha condannato e redento. Opera fondamentale, per ammissione del suo stesso autore.
Eli Riva conserva questa sua scultura in quello che chiama studio, ma che assomiglia più ad una bottega artigiana.
Forse perché da artigiano ha cominciato e artista è diventato. Poiché se l'arte, usando le parole di Dante, è "attività da cui nascono prodotti culturali", Eli Riva è artista per eccellenza.
Colto, mai banale, pronto ad immergersi nella riflessione ad ogni spunto o provocazione, a volte perso nei propri pensieri come nella materia che plasma e modella. Eli Riva non è persona tormentata, ma assai complessa. Come se un fuoco gli ardesse dentro, spingendolo inesorabilmente a conoscere e creare, senza però togliergli armonia e serenità.
Lo raggiungiamo per un'intervista, ne ricaviamo una lezione sull'arte e sulla vita, che in lui coincidono e che si rendono manifeste in molteplici forme.
«Avevo dodici anni quando vidi un ostensorio realizzato da un cesellatore. Ne fui ammirato e il parroco mi trovò un lavoro nel laboratorio di colui che aveva realizzato quella che ai miei occhi di fanciullo era una meraviglia. Mi dissero: diventerai un abile cesellatore quando riuscirai a fare la zampina alle mosche, cioè a far risaltare nel metallo un ricciolo piccolo piccolo. Ci riuscii e capii che quella era la mia strada. Da Como passai a Milano, ottimamente retribuito, tanto che mia madre, quando portai a casa il primo stipendio, mi disse: "Non l'avrai mica rubato?". Successivamente cominciai a scolpire il marmo. Sapevo fare il piano, il tondo. Affittai uno studiolo, che chiamavo "busecca", perché era lungo e stretto. Imparai rapidamente a tagliare la pietra, perché le mie mani sono comasche, dentro di me c'è la storia dei Benedetto Antelami, dei Magistri Cumacini, dei Rodari. Guardi che mani ho - e ce le mostra di sfuggita, senza ostentazione, due mani lisce e rosse - trentatré anni di marmo e neanche un difetto.
Quindici anni fa, iniziai a cimentarmi col legno. Successe in modo strano. Un mattino d'inverno, arrivando presto coi miei cani al parco di Villa Olmo, vidi che la grande magnolia a monte, che sicuramente avevano piantato i signori Cantoni quando costruirono la villa, era caduta. Assicurai l'amministrazione comunale che se me l'avessero assegnata non ne avrei fatto legna da ardere. Ho lavorato dieci anni. Il legno della magnolia è una cosa, una cosa da... paradiso terrestre».
Di legno è anche il tavolo sul quale siamo seduti. Anch'esso cela un segreto, che solo l'occhio dell'artista e l'animo del poeta possono distinguere.
Infatti lo ignoriamo. Riva ci fa accucciare, ci invita a squadrarne i supporti, ma la nostra mente rimane vuota e la bocca muta. «Sto tentando di insegnarle a leggere. Lei sta bevendo acqua sorgiva» aggiunge bonario. «Il pianale del tavolo poggia non su gambe, ma su due sculture» "fionde" le chiama lui. «La mia scultura è entrata nell'oggetto come elemento attivo. Questo tavolo porta la mia firma, ha diritto di esistere. Ogni tanto vengono nel mio studio dei ragazzi e ne approfitto per chiedere cosa vedono nelle mie sculture i loro occhi senza vizi. Ho settantasette anni e faccio queste sculture per voi, dico. Capiscono che è un dono che viene fatto loro. Un dono. La scultura è per l'uomo, per la sua celebrazione. In questo senso mi ritengo un umanista, che usa l'arte per rivelare a se stesso e agli altri un'immagine mai rivelata. Il problema terribile dell'arte moderna».
Osservandoci in difficoltà, viene ancora una
volta in nostro soccorso. «Questa è una mia opera del 1948. Se la ruoto - e comincia a farla girare - questa donna seduta è sempre lei. Se faccio lo stesso con una struttura astratta, ogni volta che ruota dimentico quello che ho visto un attimo prima. La prima esprime un immagine esistente, la seconda esprime soltanto se stessa. Questa è l'arte moderna. Kandinskij, Mondrian, anche Picasso, per un certo periodo. Ho impiegato parecchio tempo per creare una scultura multipla-spaziale, che non abbia più una base, un fianco, un sopra, un sotto. E' l'ultima mia fase creativa». E ci mostra una mezza dozzina di sculture in bronzo, alte non più di un paio di palmi. «Tutta la scuola comasca è diventata astratta dalla sera alla mattina. Io ho pagato di persona, passando dalla figurazione alla astrazione. Queste sculture non riuscivo ad assestarle. Io per lavorare devo capire. Se non capisco, tremo. Penso di non essere preparato abbastanza. Per questa ragione lascio alcune opere incompiute. Solo quando l'immagine, il bozzetto non suscita più problemi in me allora mi sento soddisfatto».
Poco lontano ci sono una decina di disegni raffiguranti il frontone di una chiesa. Una delle ultime commissioni.
«Intendo rappacificare architetti e scultori - ci spiega - facendo capire ai primi che hanno tradito la scultura, perché pensano di essere loro i demiurghi, i creativi. E invece sono in fondo dei baggiani, come scriveva il Manzoni». E giù una risata. Una delle tante, che accompagnano astuzie e facezie. Una risata che esplode improvvisa e sonora, smorzandosi raucamente per il fumo di troppe sigarette.
Riva a Como ha realizzato la scultura di Papa Odescalchi.
«Da ragazzo, con altri aspiranti artisti, facemmo un patto strano. Nessuno avrebbe mai dovuto fare un monumento al centro di una piazza. Per la statua di papa Innocenzo c'erano una dozzina di proposte. Tutti gli altri lo volevano al centro, su un acropodio. Io pensai: guarda un po', l'amministrazione ha speso un miliardo per ristrutturare San Pietro in Atrio e io vado lì ad occupare subito questo stanzino? Non mi sembrava giusto. Il mio maestro è stato, in questo caso, Donatello, con la sua edicola angolare sul Duomo di Prato. Recentemente un amico toscano mi ha informato che per salvare quel podio di magnifica bellezza lo hanno messo in un museo, esponendo sul luogo originario una copia perfetta. Lo stessa cosa proposi insistentemente per il Duomo di Como, non venendo ascoltato, ma rimanendo della mia opinione.
Non dico queste cose perché sono bravo, ma perché sono attento. Como non è una città attenta. Non lo è per niente. Potrei farle un elenco dei delitti pesanti che ha subito l'arte a Como, ma è un periodo di festività natalizie e non voglio essere cattivo».
La poco attenta Como è almeno una città di cultura?
«Faccio una distinzione. L'informazione è una cosa, ce l'ha anche chi possiede grande memoria e ricorda molte cose. L'informazione diventa cultura solo quando determina un prodotto. Cultura e prodotto, un binomio inscindibile. Altrimenti non è cultura, è informazione e basta. E allora, al circolo culturale, preferisco la biblioteca, che è più precisa. A Como può esserci informazione, ma non colgo cultura».
Se le chiedessimo a che tipo di pietra sente di assomigliare, cosa risponderebbe?
«Ad un mattone di pietra di Moltrasio. Si dice che l'architetto Mustio, quando i Plinio l'hanno portato da Roma per costruire la villa a centro lago, rimase sconvolto nel trovare le case già costruite in pietra. A Roma erano tutte di legno. Qui le maestranze erano esse stesse architetti. Questi sono i valori semantici della nostra città. Ma a Como chi li conosce? In pochissimi».

28 dicembre 1997