Mino Martinazzoli
C’è una linea, non d’ombra, lunga due anni e mezzo, che unisce un'alba di gennaio alla notte d’un settembre mite, lieto.
E ci sono due punti, uno di partenza e uno d’arrivo, che brillano nitidi nel mio ricordo.
Il primo è quando sei partito e t’ho abbracciato forte, con il groppo in gola mascherato da un sorriso, sciolto due minuti più tardi, con te oramai dentro l’aeroporto e io in auto, che tornavo da solo (ci trovavamo in piena pandemia, era un salto nell’ignoto e mi consolava unicamente il tuo vederti determinato, curioso, convinto).
Il secondo è ieri l’altro, all’ennesimo tuo ritorno per una breve vacanza, ascoltandoti mentre parlavi calmo, quieto, con le tue solite parole misurate e soppesate, rendendomi conto in un lampo che a ventisei anni sei diventato adulto, un essere umano fatto e finito, maturo.
Nel mezzo, tra questi due poli, un equatore d’esperienze che ti hanno trasformato.
I mesi di addetto alle pulizie, quelli trascorsi come fact totum in un negozio, l’impiego da cameriere nel ristorante gestito da cinesi nel centro di Dublino, le certificazioni di lingua inglese, l’assunzione al servizio tutela minori irlandese, il periodo di prova lungo, reiterato, superato…
E ancora, le decine di conoscenze, i mille incontri, le molte relazioni intrecciate, le amicizie - rare, come hai detto tu, perché l’amicizia è un sentimento profondo - che hai costruito, la girandola di sentimenti provati, gli entusiasmi, le ansie, le preoccupazioni, le delusioni, le incomprensioni, le sorprese, le consapevolezze, le gioie…
Il riassunto, la sintesi, è che a guardarli a ritroso, gli ultimi due anni e mezzo sono una montagna altissima, scalata grazie a due trampoli: la perseveranza e l’incoscienza.
Incoscienza perché due anni fa neppure immaginavi lontanamente la distanza che separava chi eri da ciò che sei diventato. Eri “innocente” appunto, ed è per questo che hai saltato.
Perseveranza invece è la cifra della persona che sei, fin da bambino, che a volte può essere scambiata per asprezza o cocciutaggine, ma soltanto se ti si squadra da lontano, fermandosi alla superficie, alla pelle, ignorando ciò che più conta, il cuore assai sensibile di un ragazzo partorito due volte: la prima da sua madre, la seconda da sé, diventando uomo.
P.S. “Voi dite, ridete, però l’ho visto uscire dalla porta per andare a fare un'esperienza di qualche mese in Irlanda e invece non è più tornato”.
Quando lo dice mi fa sorridere, perché un po’ teatrale, certo esagerata, neanche commentasse una disgrazia, fossi morto. Però la capisco tua madre, comprendo e ammiro quel legame speciale tra mamma e figlio, cordone ombelicale tenace, desiderio di protezione proiettato all’infinito.
“Grande” in qualche modo lo è diventata anche lei, lo siamo divenuti pure noi, genitori, rendendoci conto nella carne, piuttosto che a parole, che i figli, tutti i figli, non sono mai “nostri”, bensì altro da noi, concessi in prestito, il tempo necessario affinché spieghino le ali e prendano il volo.
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