mercoledì 20 aprile 2011

I buoni insegnanti non si estinguono mai


Voce che grida nel deserto. Sola, anche quando sussurra. Come l'insegnante di scuola media, che si confronta ogni giorno con una classe che a guardarla a pelo d'acqua è una meraviglia, ma basta poco per accorgersi che l'apparenza inganna. C'è il ragazzo più grande, con gli ormoni di un uomo e il cervello bambino; l'alunna che non viene più a scuola e non è malata, non ha problemi, semplicemente in classe si stufa e preferisce restare davanti alla tv a casa; i tre compagni che li hanno trovati che fumavano uno spinello nel parco e i Carabinieri hanno chiamato la preside e la preside ha telefonato ai genitori e la mamma ha risposto: "Guardi che mio figlio è a letto" e la preside insiste: "Venga" e la madre replica: "Senta, sono la madre! Saprò bene dov'è mio figlio" e la preside che esasperata risponde: "Senta, sono la preside, e ho qui di fianco i carabinieri e suo figlio. Viene o non viene a riprenderselo?!?"; lo studente modello, che ha una famiglia più modello di lui e va tutti i giorni all'oratorio, e quando sente parlare di quanti non hanno rispetto per l'ambiente e non fanno la raccolta differenziata, alza il braccio e dice: "Sì, sono gli extracomunitari"... Guardo l'insegnante, che ha una faccia buona e passione per il suo lavoro. Penso a quante volte si sarà sentita dire: "Insegna? E' fortunata. Cosa ci vuole? Quattro ore di lavoro al giorno e tre mesi di vacanze all'anno". Vorrei abbracciarla, dirle che sono orgoglioso di lei, ringraziarla a nome di tutti i genitori, pur se la scuola non è quella di mio figlio. Rimango in silenzio, con sguardo un po' ebete, annuisco, saluto. Credo che questo sia un paese fortunato, perché trova frutti abbondanti pure quando non semina, anzi, fa di tutto per sradicare l'albero buono.

Foto by Leonora



lunedì 18 aprile 2011

Il sacrificio di Roberto e gli occhi del cieco


Ce l'ho qui da dire, tra gola e lingua, da sabato mattina, ma ogni volta ho deglutito insieme con la saliva pure la buona volontà e il pensiero. Ora però guardo il computer, lo schermo luminoso che contrasta con il buio tutt'attorno, e mi pare di non avere più scuse per tacerlo, se non quella dell'essere pavido, di non ammettere ciò che durante i funerali di Roberto ho sentito, cioè che si sia chiuso un tempo, che la mia generazione si sia ritrovata adulta, vecchia persino, nonostante ciascuno di noi dentro immagini di essere e si senta un ragazzino. Era come vivere una poesia di Giorgio Caproni: "Con voi sono stato lieto / dalla partenza, e molto / vi sono grato, credetemi, / per l’ottima compagnia".
Quella chiesa strapiena, quei volti familiari e sconosciuti insieme, di tanti amici con cui sono cresciuto - magari io un filo più grande ma tutto sommato dell'età loro - e che ora si ritrovano per caso, tutti un po' diversi, con parecchi capelli in meno e molte segni in più sul viso, qualcuno d'occhi stanchi, altri - molti - cresciuti in pancia e peso, ma con una scintilla di ciò che erano che tuttora conservano, accanto alle loro compagne o ai figli o agli amici, anche chi è solo e la sera, a casa, non lo attende nessuno, se non un genitore ormai anziano, che continua a preparargli da mangiare e rifare la mattina il letto. Qualcuno, come Flavio, come ora Roberto, se n'è andato, strappato alla vita giovane, con l'unica consolazione che rimarranno per sempre ragazzi, che il tempo non potrà scalfire ciò che non ha più sottomano. Gli altri, tutti gli altri, erano lì, seri, qualcuno con le lacrime agli occhi, qualcun altro con lo sguardo fisso. "Sono i miei amici" ho pensato. Anche se non li vedo più o, quando capita, non è mai per più di una chiacchiera, una battuta al volo. Eppure ho condiviso con loro un tempo che pareva infinito e, se lo guardo adesso, senza fine lo è davvero. Marco, Paolo, Giannino, Drino e tutti gli altri, che non sto a nominare uno a uno, perché occorrerebbe l'elenco del telefono. Sono distanti ormai, ma sabato li sentivo legati da un unico filo, e quando ci siamo ritrovati al cimitero, una folla immensa, un paese intero, mi è sembrato che divisioni, pareri diversi, scelte di vita, fossero accessorio minimale di fronte a un'appartenenza che mi pareva forte ed evidente, quanto il cielo sopra la testa e la ghiaia sotto i piedi, tra un loculo e l'altro. Da dov'ero non sentivo le preghiere del prete, non udivo alcuna parola, solo silenzio, e vedevo centinaia di persone, chi ha opinioni simili e chi diverse dalle mie, compresi gli assessori, il sindaco e altra gente che cammina su sentieri opposti al mio. Eppure con essi, con tutti, in quel momento mi sentivo un tutt'uno, parte di una comunità, e mi parevano così sciocchi e banali i miei distinguo, i punti e le virgole che metto, tralasciando il senso e il nocciolo del discorso, cioè che siamo sulla stessa barca, in qualche modo fratelli e che occorreva il sacrificio di uno di noi per aprire gli occhi a un cieco.

Foto by Leonora

giovedì 14 aprile 2011

La verità dei Simpson (Abiola, la Comense e il razzismo: ultimo atto)

Siamo tutti neri, ma qualcuno lo è di più. E non mi riferisco a Abiola Wabara, dalla cui vicenda la Federazione Italiana Pallacanestro ha preso spunto per lanciare la lodevole iniziativa: "Vorrei la pelle nera", bensì a tutti coloro che nella suddetta vicenda hanno usato per ragionale la pancia, invece della testa. Tanto incavolati neri da dirne di tutti i colori. Io però - e chi legge questo blog lo sa - al coro preferisco la stecca, così invece di fidarmi di troppe versione in cui i conti non tornavano, ho preferito badare ai fatti e sentire le testimonianze di chi c'era. Il risultato è quello che ho già scritto nel post precedente: cori non ce ne sono stati, come risulta da referto di arbitri e commissari di campo, oltre che dai verbali delle forze dell'ordine. Semmai qualche insulto, di pochissimi beceri, di cui in ogni caso nel frastuono dei mille tifosi presenti nessuno reca testimonianza, tranne la giocatrice stessa e forse qualcuno tra il pubblico, nelle immediate vicinanze. E per nessuno intendo arbitri, commissari di campo, carabinieri, agenti della Digos, ma anche giornalisti presenti e altre giocatrici in campo, compresa Cameo Hicks, che pur ha la pelle del colore di Abiola e dunque si sarebbe dovuta sentire parimente offesa. I fatti finiscono qui. Poi entrano in gioco i media. Non voglio giudicare certi colleghi: ognuno va a letto con la propria coscienza e, soprattutto, viene giudicato dalla credibilità che merita. Per spiegare cos'è successo, devo ricorrere a dei geni: gli autori dei Simpson. Due puntate, in particolare. La prima è quella del "Dolce bon bon" in cui Homer Simpson viene spacciato per molestatore. In realtà lui voleva soltanto prendere una caramella (il dolce bon bon, appunto) che si era attaccato alla sottana di una ragazza, ma l'episodio viene a tal punto gonfiato e manipolato dai media che la gogna è inevitabile. La seconda invece è quella che racconta la storia di Jebediah Springfield, eroe e fondatore dell'omonima città. Lisa Simpson scopre che in realtà (sempre questa maledetta realtà!) egli non era un uomo mite, saggio e coraggioso, bensì un pirata pluriomicida. Nonostante la reticenza degli abitanti attuali, che non vogliono sentir ragione, alla fine Lisa trova la prova che rivela la verità, ma una volta salita sul palco, durante la parata, "guardando gli occhi della gente commossa e grata a Jebediah, decide di lasciarli continuare a credere che il fondatore sia stato una brava persona. Infatti, l'immagine positiva che hanno di lui ha sempre fatto in modo che ad ogni anniversario della fondazione della città, i suoi concittadini tirassero fuori il meglio di loro stessi". Ecco, in questi episodi è contenuto il riassunto di ciò che è avvenuto alla Comense. Con due lezioni. Prima: quando i mass media soffiano tutti nella medesima direzione, le voci fuori dal coro vengono spazzate vie e non è da saggi mettersi lì con l'ombrellino, mentre il tifone impazza. Seconda: a volte anche se le premesse sono fondate sulla menzogna, il frutto che ne esce può essere comunque positivo, tipo l'iniziativa "Vorrei la pelle nera" contro ogni forma di razzismo, che sarà ripresa su tutti i campi da basket, domenica prossima.


P.S. Dedicato a chi non ha paura di cercare la verità; a tutti quei giornalisti che ce l'hanno in tasca e pontificano così, alla rinfusa; a tutte le ragazze di colore che hanno vestito la maglia della Comense, che guarda caso è "nero-stellata"; a Razija Mujanovic, che per l'aspetto fisico in carriera ne ha sentite di tutti i colori e neanche un cane che si sia indignato almeno una volta, di striscio, per difendere la sua dignità di persona, prima che di giocatrice e di donna; a tutti coloro che leggendo questo blog, invece di avercela con i neri "perché solo loro sono tutelati" o con i bianchi "sporchi razzisti", ricorderanno le parole di Albert Einstein, che al funzionario doganale che gli chiedeva di che razza fosse, rispondeva: "Umana".



Foto by Leonora

mercoledì 13 aprile 2011

Ciao Roberto

"Se posso fare qualcosa...". Invece non si può fare niente. Se non stare in silenzio, muti, attoniti, impotenti, nudi di fronti al dolore di un padre e di una madre che hanno perso il figlio, di una donna che non ha più il marito, di due bimbi piccoli che del padre conserveranno l'affetto e un ricordo pallido. Oggi su un pendio di Lasnigo è morto Roberto, che ho visto crescere all'oratorio e in tante vacanze insieme, un tempo ormai lontano. Aveva trentasei anni e se n'è andato in questo giorno di sole, aria fresca e cielo limpido. L'ultima volta l'avevo visto un paio di settimane fa e mi aveva salutato con quel suo fare spiccio e deciso insieme. Lo ricordo bambino, quando voleva sembrare già adulto e facevo lo sguardo corrucciato, salvo aprirsi in una risata ch'era fragorosa e decisa, come un colpo di schioppo. Per anni ho frequentato la sua casa, suo padre faceva con me catechismo e Roberto aveva sempre qualcosa da fare nell'orto o nel portico, ingegnandosi, senza mai restare con le mani in mano. Anche tra i ragazzi, aveva modi spicci, irruenza, coraggio e un fisico atletico e compatto, che sopperiva ai centimetri che gli mancavano. Era campione a "sparviero bulldozer", un gioco da uomini veri, e divorava piatti di pasta da annichilire i commensali, che magari pesavano il doppio di lui. C'è una fotografia bellissima, che ho ritrovato stasera, di noi due, qui sotto casa, quando in mezzo al prato c'era ancora un enorme tavolo di cemento. Giocavamo a chi faceva cadere l'altro, in una sorta di braccio di ferro. Ridevamo entrambi, d'un sorriso ampio, aperto, senza ombra. Voglio ricordarlo così, ancora bambino ma già adulto. Per la mamma Silvana, il papà Elio, il fratello Piero, la moglie Barbara e i suoi due bimbi, di quattro e sei anni, non posso fare nulla. Se non appunto farne memoria, conservarne il ricordo, l'unico luogo di questo mondo dove i nostri cari sempre vivono.

Foto by Leonora

Abiola, la Comense e la verità in retromarcia

Cos'è la verità? Diceva Sciascia che è come la luna che si specchia nell'acqua di un pozzo. Tu la vedi, splendida, nitida, chiara, ti ci butti, per prenderla, ed ecco cosa resta in quell'acqua buia e fredda della verità. Lo scrivo perché invece, ogni giorno, io la verità ho l'impegno di cercarla, capirla, raccontarla. Può capitare di ignorarla, non di spacciare per essa una bugia. Qualche giorno fa scrivevo su questo blog - ch'è nato proprio per comunicare, nella massima libertà, senza condizionamenti se non quelli della mia coscienza - della vicenda di Abiola Wabara e dei cori che l'avrebbero bersagliata al Palasampietro. Passo al condizionale perché, con il passare dei giorni, le certezze granitiche di quei giorni si sono via via sgretolate. Tutto era basato sui resoconti della stampa, una parte della stampa, che tuttavia offre garanzie di credibilità, tanto che anche un giornale serio come quello in cui lavoro li ha ripresi. Pian piano però, sentendo le testimonianze, dando voce alle fonti ufficiali (arbitri, commissari di campo, carabinieri, Digos), guardando filmati e documenti fotografici, di quei cori beceri e razzisti non c'è traccia. L'episodio, a quanto sappiamo nel momento in cui scrivo, è circoscritto semmai a un esagitato, un pirla, che ha insultato la ragazza, ricevendo in cambio pan per focaccia. Può essere crocifissa per questo una città intera, una società che, come scrivevo, in quasi centotrentanni di esistenza, ha unito più di chiunque altro il bianco e il nero, diventando modello di integrazione, di convivenza? No, non è possibile. E mi spiace che dopo l'indignazione generale dell'inizio, molti moralisti abbiano preferito dare per assodata una versione dei fatti parziale e ingiusta, piuttosto che fare marcia indietro, alzare la mano e dire: "Scusate, ci siamo sbagliati". Non giudico gli altri, io però non posso essere complice, il mio lavoro è distinguere il grano dalla gramigna, anche a costo di prendere qualche cantonata. Quando capita, come in questo caso, chiedo scusa. E dico grazie a Francesco, che per primo mi ha instillato il dubbio, spingendomi a cercare la verità, anche a costo di finire nel pozzo e picchiare la faccia.







Foto by Leonora

martedì 12 aprile 2011

Profughi, Lega e un punto di partenza


In Ticino, alle elezioni di sabato e domenica, stravince la Lega. Al di qua del confine - lo stesso confine dove un giorno sì e l'altro pure vengono fermati i profughi in fuga dalla loro patria e pure dall'Italia - è sempre la Lega a spopolare. Facciamo la voce grossa, per farci a nostra volta coraggio e mascherare la paura. Siamo stati generazioni di venditori di piazza, con il catalogo sotto il braccio e un paio di calze nella valigia, alla conquista del mondo, siamo ora assediati in casa nostra, che hanno paura non soltanto dell'estraneo, ma della loro stessa ombra. Esportavamo prodotti e pure intelligenza, cultura, guardando al pianeta come un'opportunità da cogliere, mentre ora è insidia da evitare, chiudendo a doppia mandata la porta. Non faccio lo snob, vivo in questo fazzoletto di terra e alcune considerazioni della Lega mi sembrano ragionevoli, anche quando non posso condividerle, per lo stesso motivo per cui mi arrabbio con chi mi taglia la strada, magari suono il clacson, però non scendo e lo riempio di botte o gli sparo in testa. Nati non fummo per viver come bruti e c'è sempre un grado di separazione tra la reazione istintiva e la saggezza della buona scelta. Condivido dunque le preoccupazioni, sull'accoglienza, non sposo una linea esclusivamente buonista, tuttavia vorrei che alle molte voci protettive se ne unisse almeno una profetica, visionaria, capace di opporre alla debolezza della difesa, la forza di un principio, ch'è quello dell'integrazione, del trarre il meglio dalla differenza. Penso agli Stati Uniti e a quello che ha detto il giornalista Federico Rampini, a Como, ieri, cioè che la Cina si sta imponendo non soltanto come potenza economica, bensì come modello di sviluppo per i paesi attualmente sotto la soglia di sopravvivenza e che se l'Europa è destinata al declino, gli Stati Uniti si salveranno, proprio per la loro capacità di raccogliere le intelligenze migliori, per quel melting pot, quel crogiulo, quell'abilità d'amalgama tra elementi diversi della società umana. Non sono stanco soltanto della facce dei nostri politici, mi urtano anche le promesse da poco, le parole da destra a sinistra, scandite ad uso e consumo della massa, per blandirla e lisciare il pelo, secondo il verso non giusto o sbagliato che sia, bensì dettato dal sondaggio, dall'opionione diffusa, fosse pure la mia. Mi spaventano gli uomini forti, quelli unti dalla provvidenza, ma ancor di più l'idea debole che di cui si nutrano e che spacciano per panacea. Ai molti che sbarcano sulle nostre coste, oggi, rivolgerei le domande che ben sintetizza il mio amico Marco Migliavada, ("Hai i documenti? Se non li hai perchè? Se li hai perchè hai speso migliaia di euro per un barcone invece di un centinaio per un volo low cost? Dove vorresti arrivare? Come pensi di riuscire a mantenerti a destinazione? Cos'altro sai fare oltre a ciò che rappresenta la tua aspirazione? Sono le domande di buon senso che farei a uno sconosciuto per accoglierlo in casa mia insieme ai miei cari senza metterli in pericolo"). Ne aggiungerei una settima e un'ottava: cosa posso fare io per te e cosa tu puoi fare per me. Sarebbe un buon punto di partenza.


Foto by Leonora

sabato 9 aprile 2011

La festa è finita (per oggi, domani vedremo)


Il caldo improvviso mi coglie impreparato, come il colpo dietro la nuca che tramortisce il coniglio. Mi dà fastidio più di tutto la luce, in queste giornali di giugno in aprile, ed è strano per uno come me che non ha mai messo gli occhiali da sole, se non per leggere i libri in spiaggia, con il sole a picco. Tempi che cambiano. Boccheggio pensieri, lento di riflessi e reazioni, impanato quanto una cotoletta milanese prima di finire nel pentolino, desideroso soltanto di starmene a letto, al buio, in silenzio. Lavoro, un fine settimana sì e l'altro no. Questo sì. Chiedo scusa in anticipo a tutti coloro a cui risulto introverso e poco simpatico: resto fondamentalmente sereno, ma la stanchezza toglie brillantezza e a volte pure il sorriso. Mi confortano piccole cose. La telefonata d'un uomo che non la pensa come me, ma è onesto dentro. Un paio di fatti cronaca che daranno sapore e sostanza al giornale di domani. La pianta verde e lussureggiante sulla scrivania oggi vuota, di fronte alla mia. Le canzoni di Diana Ross e David Bowie alla radio. Il pensiero di persone che, nonostante tutto, mi vogliono bene. La dieta forzata della pausa pranzo al lavoro, a compensazione del barattolo di Nutella che ho divorato ieri sera tendente notte. Resisto. Stringo i denti e tengo duro, consapevole che nella vita c'è assai di peggio, con l'unico rimpianto di sciupare troppo spesso le occasioni che mi si presentano sotto il naso e accorgermene soltanto ora, chiuso nella gabbia di me stesso. Pranzare all'aperto, in un crotto, sotto il portico, in una giornata come questa, ad esempio. O piantarla di essere rigido e andare in quei posti dove ti rilassi e ti fanno i massaggi con quell'olio profumato, che fa tanto film sui persiani debosciati, che poi magari le buscano dagli spartani, ma vuoi mettere la soddisfazione tra essere invincibili in battaglia e sapersi godere anche la vita, di tanto in tanto? Nel frattempo passo e chiudo. La festa è finita già prima di cominciare. Domani vedremo.


Foto by Leonora

giovedì 7 aprile 2011

Abiola, la Comense e gli insulti razzisti al Palasampietro


La teste di cavolo mettono fiore in tutte le stagioni. "Insulti razzisti alla giocatrice" titola il sito web del giornale per cui lavoro, riportando un episodio accaduto ieri sera, durante la partita di basket femminile tra Comense e Bracco Sesto San Giovanni, con un gruppo di ultras con i colori del Como Calcio che ha insultato Abiola Wabara, una ragazza di colore, avversaria in campo ma evidentemente per loro un nemico. Leggo quello ch'è successo ieri sera al Palasampietro, che per anni è stata la mia seconda casa, e non so se ridere o piangere. Piango. Perché bastano un pugno di imbecilli per prendere a schiaffi una città intera, una tradizione gloriosa, la storia. Il moto di sdegno è già partito, asfaltando tutto e tutti, nel tritacarne mediatico che non distingue l'eccezione dalla regola, il branco bastardo di passaggio per caso dal palasport dalle migliaia di persone che negli ultimi vent'anni hanno partecipato con orgoglio, sportività, affetto, alle imprese della squadra di pallacanestro che ha raccolto scudetti come fossero fragole, a maggio. A quegli imbecilli che hanno profanato un tempio sportivo e calpestato la dignità non soltanto di Abiola, bensì del genero umano intero, non dedico un rigo: non lo meritano. Per condanna proporrei di mostrar loro le imprese che, grazie alle tante giocatrici di colore, hanno reso fama a Como. Mi vengono in mente Valerie Still e Bridgette Gordon, ma potrei stilare un elenco sterminato. Penso a Cherubina, la tifosa per eccellenza della Comense, una donna talmente buona che anche un pezzo di pane, al confronto, pare un coccodrillo spietato. E' per lei, per Angelo Migliavada, per Stefano Daverio, per Franco Rossetti, per tutti i dirigenti, i tifosi e le giocatrici che hanno messo cuore al Palasampietro, che scrivo queste righe. Non posso condizionare le reazioni di sdegno di cui parlavo, però posso non essere complice di chi farà di tutta l'erba un fascio. Quel che è successo è gravissimo, ma lo sarebbe ancora di più se per stigmatizzare la stupidità di chi ha teso un agguato si gettasse la croce addosso a una società che nei fatti ha contribuito a creare una cultura di tolleranza, di rispetto tra i popoli e che, fin dai colori sociali, unisce da sempre il bianco e il nero.


Foto by Leonora

mercoledì 6 aprile 2011

La bellezza è un dono (ma non solo)


Strappo un foglio de La Stampa di ieri, per conservarlo. Pagina 21, titolo: "L'epidemia dei giovani narcisisti". Nell'articolo, scritto con mestiere da Roselina Salemi, si legge dell'allarme lanciato da Jean Twenge, una psicologa americana (c'è sempre una psicologa americana) della San Diego State University (c'è sempre una San Diego State University), che "ha condotto una ricerca su sedicimila studenti e li ha trovati malatissimi. I sintomi: arroganza, egocentrismo, scarsa empatia, materialismo spinto". Un altro studio (c'è sempre un altro studio) su trentacinquemila persone di varie età "ha dimostrato che oggi i giovani sono molto più narcisisti degli anziani" (ma va? Strano. Chi l'avrebbe mai detto che un ventenne si guarda più compiaciuto allo specchio di un ottant'enne raggrinzito come una pelle di daino?). I pareri nel pezzo si susseguono, dicono anche cose interessanti, tipo che il narcisismo s'accompagna sovente ad autostima, fiducia in se stessi e che le giovani generazioni sono figlie, oltre che nostre, delle trasmissioni televisive in cui il tronista è l'idolo. La frase che più mi è piaciuta è questa: "Il protagonismo, il presenzialismo, lo sgomitare per apparire, la capacità di manipolare gli altri sono considerati meriti ormai in tutti i campi. Il modello è quello del reality. Basta esprimere una personalità, avere un'abilità qualsiasi: raccontare barzellette, sedurre, far piangere".

Ripiego il foglio, penso a me, che da bimbo passavo minuti e minuti di fronte allo specchio. Non ero narciso, lo sono diventato dopo. Allora "realizzavo" di vivere, di essere "proprio io, soltanto io, Giorgio, sei Giorgio" guardando la mia immagine riflessa, come se fossi altro da me stesso, come se quello scrutare terzo fosse certificato di esistenza in vita. Mi stupivo nel trovare nei miei stessi occhi un essere umano, l'impronta di vita che distingue il vivente dal sasso. Non credevo di essere bello, non mi sono mai visto tale, sono sempre stato sinceramente spietato nel constatare i difetti e ho ammirato, senza invidia, chi consideravo esteticamente più fortunato. Ora guardo i miei figli compiaciuto, sapendo che la bellezza è bene prezioso quando volubile e che quella vera è legata non alla perfezione fisica, bensì allo stile, all'eleganza, alla fierezza, all'intelligenza, alla cultura, alla cura di sé, al gusto. Conosco ventenni perfetti senza un briciolo di fascino e ottantenni che seducono, con il solo sguardo (ma non ditelo al Silvio, che ha speso una fortuna in chirurgia estetica), così come donne senza una smagliatura ma ingessate quanto una statua di marmo e altre che con la semplice scelta di un vestito mi fanno restare ammirato.


Foto by Leonora

martedì 5 aprile 2011

Il sole dentro


Il sole dentro. E' quello che cerco e spesso trovo, in questi giorni di cielo terso e tempo splendido. Sul lavoro non mancano i problemi, però esiste una sostanziale serenità di fondo, che fa superare con il sorriso pure le frizioni tra colleghi, specie quelli del mio settore, che sopportano i miei sbalzi d'umore, le mie inadeguatezze, le debolezze di chi non è nato per il ruolo che ricopre, ma impara da tutti e cerca di essere degno dell'incarico ricevuto. Resto sempre convinto che il gioco di squadra valga più del talento del singolo e che se c'è la volontà di remare dalla stessa parte, non solo si può raggiungere qualsiasi obiettivo, ma resta pure un avanzo per soddisfare le esigenze di ognuno. A casa poi tutto si stempera, i figli crescono (ma quanto crescono? Giacomo è alto quasi uno e ottanta e la gente ride quando, sugli spalti, dalla tribuna, mentre lui gioca a calcio, io gli grido: "Vai, Giacomino!") e le stagioni si susseguono con la precisione e la non curanza che ti fanno scoprire vecchio senza che te ne sia reso conto, di tutto questo correre veloce del calendario. A differenza degli anni scorsi, bado ai lavori in giardino più volentieri, sbuffando meno. Entro i prossimi sette giorni mi toccherà vangare l'orto e non mi pesa. Credo che la differenza tra il ragazzo che ero e l'uomo adulto sia questa: la costanza ineluttabile con cui ci si alza al mattino, sapendo di dover affrontare i propri impegni, senza fare i capricci, pestare i piedi, tenere il broncio.


Foto by Leonora

domenica 3 aprile 2011

Gratitudine: la differenza tra l'uomo e il cane


Un'ora e mezzo di partita a calcio, in uno splendido prato a mezza costa, tra cumuli di terra portata dalle talpe e alberi di ciliegio selvatico in fiore, hanno lasciato il segno. Ho le giunture che cigolano come lamiere ritorte e dolori articolari da far sembrare un ragazzino anche il dottor Gibaud. In più, prima che calasse il buio ho provveduto al taglio del prato e alla potatura dei cipressi, che sono tornati affusolati e splendidi come nelle illustrazioni dei libri (chiamatemi pure il Jean Luis David delle siepi). La faccio breve, non volendo protrarre l'agonia e anelando alle lenzuola pulite del letto, segnalando un atteggiamento fastidioso e per certi aspetti vigliacco: la derisione, la denigrazione e persino il disprezzo per chi fino a ieri era amico, fratello, idolo. Vale per la politica (Fini e gli ex di An) e ancor più per il calcio, che dei mali e dei vizi contemporanei è laboratorio e vetrina. Mi mettono tristezza e un pizzico di rabbia quegli interisti che ora vedono in Ibraimovic tutti i difetti del mondo, arrivando in molti casi ad insultarlo. Lo stesso vale per i milanisti con Leonardo. O per gli juventini con Zambrotta. L'elenco sarebbe lunghissimo. E' vero che l'amore tradito scatena gelosie e vendette, però a tutto c'è un limite. Ibraimovic è simpatico come un cactus nelle mutande e meno fedele di Casanova (Giacomo, non il mago di Striscia la notizia) tuttavia nelle squadre in cui gioca dà il massimo e non è un caso se vincono sempre lo scudetto. Quando la Juve è andata in B è stato il primo a telefonare, a far telefonare dal sua agente anzi, per chiedere di andarsene, ma fino a una settimana prima era stato fantastico: perché dimenticarlo? Zambrotta invece non ha chiamato nessuno quando s'è profilata la retrocessione, sono stati i vertici della società a dirgli: "Gianluca, qui hai chiuso, ed essendo uno dei giocatori con un valore sul mercato, scegli tu dove andare, ma vattene". Come possono i tifosi fingere di dimenticarlo, beccandolo ora di continuo. Dov'è la memoria per tutte le sgroppate in bianconero che ha fatto? E Leonardo? Al Milan ha dato tutto, sopportando anche un presidente invadente quanto il presidente del Borgorosso Football club, potendo una squadra che aveva la metà dei campioni di quella attuale (cioè, i campioni li aveva, ma bolliti e in salsa verde). Perché irriderlo, ora che è passato all'Inter? D'accordo, basta esempi, credo di esser stato chiaro. Credo che la gratitudine sia uno dei valori più bistrattati a questo mondo. Io cerco, nel mio piccolo, di fare esattamente il contrario, di soppesare bene le cose, di conservare memoria per il bene ricevuto. Lo faccio con metodo, ostinazione, ma pure disincanto. Checché se ne dica, non aveva torto Mark Twain quando diceva: "Se prendi un cane che muore di fame e lo ingrassi, non ti morderà. E’ questa la differenza principale tra un cane e un uomo".


Foto by Leonora

sabato 2 aprile 2011

Grifagno sarà lei (professione assistente sociale)


Primavera vera. Sole, cielo sereno, prati verdi e fiori che sbocciano ovunque: un mazzetto di viole persino tra le pietre del piazzale d'ingresso. Purtroppo il contemplativo ch'è in me non taglia l'erba, né pota le piante o vanga l'orto, così mi metto di buzzo buono e parte del fine settimana lo dedico alle occupazioni per tenere in ordine il giardino. L'altra sera invece sono stato invitato a Bollate, dal consorzio dei comuni che gestisce parte dei servizi sociali dei paesi limitrofi. Il tema era: "Mass media e affido famigliare: saperi a confronto". Al tavolo dei relatori ero in buona compagnia: il giudice del tribunale per i minori Luca Villa e la psicologa consulente delle stesso tribunale, Cecilia Ragaini. Se ritrovo gli appunti metto sul blog la sintesi del mio intervento ("coda alle edicole" direbbe il mio direttore), qui volevo soltanto aprire una parentesi sugli assistenti sociali, che per i mezzi di comunicazione sono sempre donne, brutte, antipatiche e cattive, perché portano via i bambini. Uno stereotipo assai più diffuso di quanto io stesso immaginassi e che purtroppo trova riscontro nei resoconti dei servizi tg o sugli articoli di giornale. In effetti una così l'ho conosciuta anch'io, ad Olgiate Comasco, ma quando ero ancora un ragazzo (trovai così desolante e abnorme la differenza tra una professione a mio parere nobilissima e l'applicazione che ne dava quella persona, che decisi di diventare io stesso un assistente sociale), mentre la realtà è ben diversa. Innanzi tutto le professionalità sono diverse e ciò che per il giornalista medio è un "assistente sociale" (una "assistente sociale") nei fatti contempla figure diverse: l'educatore, lo psicologo, l'ausiliario socio assistenziale, il dirigente del settore servizi sociali e l'assistente sociale vero e proprio, che in sintesi potremmo definire così: colui o colei che fa da tramite e mette in relazione bisogni e risorse. E poi, è vero che quando frequentavo la Cattolica, con il mio amico fraterno David prendevamo in giro quasi tutte le nostre compagne o le ragazze del secondo o terzo anno, per il look da santa Maria Goretti o, in alternativa, da seguace convinta degli Intillimani, ma (quasi) tutte erano dolci, molto materne, carine e qualcuna bella proprio. Nulla a che vedere comunque con certi personaggi grifagni (ecco, grifagno è un aggettivo ch'è piaciuto molto, quando l'ho detto, a Bollate), del tutto simili alla strega cattiva de "La Sirenetta". Sia detto per amor di verità, a espiazione dei troppi errori dei colleghi giornalisti e ad onore di una categoria spesso bistrattata ma ad altissimo tasso di professionalità, capace di far fiorire il deserto anche con a disposizione poche risorse e aiuto ridotto a zero.


Foto by Leonora

venerdì 1 aprile 2011

Coltivo dubbi (Il santuario di Maccio e la fine del mondo)


Cammino sui gusci d'uovo, parlando di un argomento in cui preferisco lasciare l'ironia sulla soglia, nel rispetto dell'opinione altrui e pure della mia, ch'è quella d'un uomo razionale, non insensibile al mistero. In questi giorni a Maccio di Villa Guardia, il paese accanto al mio, molte persone visitano il santuario - consacrato tale da pochissimo - dal cui altare trasuda acqua. "E' un segno di Dio" ha sentenziato il parroco, don Luigi Savoldelli. E pure il vescovo Diego Coletti e i vertici della Chiesa, solitamente d'una prudenza estrema quando si tratta di dare credito alla devozione popolare, sui fatti di Maccio hanno sancito una sorta di imprimatur. I giornali, quando riportano ciò che sta avvenendo, vanno a ruba, le televesioni nazionali ne parlano, la gente si schiera, di qua o di là, chi crede ciecamente da un lato, chi pensa sia tutta una montatura o suggestione dall'altro. E io? Sto nel mezzo. Come ho scritto all'inizio, non sono così ingenuo da coltivare il dubbio, in un senso o nell'altro. Diciamo che, per ciò che mi riguarda, ho per stella polare la frase riportata nel Vangelo e rivolta a San Tommaso: "Beati quelli che crederanno senza avere visto". Non ho bisogno di segni, mi dico. E questo, come direbbe Forrest Gump "è tutto quello che ho da dire su questa faccenda".


P.S. Non è vero. Non è tutto quello che ho da dire, c'è un'altra cosa. Ieri, mentre parlavamo in riunione di redazione, un collega ha riportato quello che ha saputo del maestro di musica Giocchino Genovese (che la prudentissima Chiesa - la stessa prudentissima Chiesa che non riconosce Medjugorje - definisce "senziente", cioè colui che sente la Madonna parlargli). "Non si può parlare con lui, perché sta soffrendo" mi ha detto il collega. E perché sta soffrendo? "Perché la fine del mondo è vicina". Oggi poi, lo stesso collega si è corretto, ha detto che non intendeva la fine del mondo, bensì l'apocalisse, che nella tradizione ecclesiastica è la seconda venuta di Cristo in terra. Ad ogni modo, ieri era la fine del mondo e tornato a casa che era già tardi, quando sono entrato nella stanza dei miei figli per sentire il loro respiro buono quando dormono, mi è venuta in mente la profezia e non nego, lì per lì, di essere rimasto un po' scosso. "Pensa se fosse vero, Giorgio, pensa se mancassero pochi mesi alla fine del mondo". E m'è venuto il magone, pensando che tutto è inutile quello che sto facendo, anche scrivere questo blog, e alzarmi al mattino, correre tutto il giorno. Ma più di tutto m'è venuto un groppo in gola a pensare a loro, ai miei bambini, che non diventerebbero grandi, a cui la vita sarebbe strappata troppo presto e a me, che non potrei godermeli a lungo. Con la tristezza nel cuore mi sono infilato sotto le coperte, nel letto. Poi la folgorazione: delle due l'una, ho riflettuto: "O il senziente si sbaglia oppure dall'altra parte c'è davvero qualcun altro che gliel'ha detto e allora non sarà la fine del mondo bensì un inizio". Razionale o no, dopo ho dormito come un ghiro.


Foto by Leonora