venerdì 23 aprile 2010

Un giorno da (vecchi) leoni


Gli amici mi perdoneranno se l'argomento è ancora il mio lavoro (se non vi va, posso sempre parlare dell'orto: mercoledì ho vangato tutto il giorno e potrei tediarvi per ore con le sinapsi mentali prodotte dal cervello per distrarsi dai dolori del badile dal palmo della mano fino al più remoto nervo). Masochisti a parte, credo di avervi convinto. Vai di giornalismo. Ieri infatti ho avuto la fortuna di trascorrere la giornata ideale del giornalista, come l'ho sempre immaginato. Ve la racconto in breve. Sveglia molto tardi, all'approssimarsi del mezzogiorno. In redazione alle due, con le pagine già impostate e l'unica incombenza di dare qualche tocco qua e là, fare "cucina", come si dice in termine tecnico, cioè impaginare i pezzi, mettere foto, titoli, occhiello, sommario e catenaccio, oltre alla stesura di un commento. Alle sette, visto il clima tranquillo, libera uscita e fatti propri per un'ora e mezza, approfittandone per andare a vedere la partita di pallone di mio figlio Giacomo. Ritorno in redazione, altri titoli da mettere, bozzini da correggere, "visto si stampi" e poi, appena passate le dieci, saluto e discesa in città, dove mi aspettavano Nicola e Antonella, prima in un locale, per aperitivo, poi in un altro, secondo aperitivo. Alle undici e quaranta, pizzeria. Seduti attorno a un tavolo, ad aspettare i colleghi che facevano chiusura, tipografia compresa. Gran risate, chiacchiere, ricordi. E poi via, tutti a casa, che le due erano già suonate da un pezzo. Lillo, che è più giovane di me di qualche mese, ma in questo mestiere è assai più vecchio, prima di salutarmi mi ha detto: "Per quindici anni la mia vita è stata così, ora non ce la farei più, ma non me ne pento". A me la vita ha riservato altro, fino al 2008 non ho mai lavorato in un giornale, fino a trent'anni suonati non ero neppure giornalista e negli ultimi dieci non ho saltato un giorno che sia un giorno in redazione senza tornare a casa stanco, cotto. Pensare che sono cresciuto con il mito di Lou Grant e, ancor di più, del papà dei Bradford, che nel telefilm passava un sacco di tempo a casa e per campare gli bastava scrivere un pezzo di trenta righe al giorno. Da ragazzo, collaborando a periodici minori, ho incontrato chi lavorava a La Provincia e che faceva la vita che prima ho descritto. Ora non la fa più nessuno, almeno a Como, e non sono tanto nostalgico né così stupido da rimpiangere ciò che non è stato. Però sono grato a Nicola e a Lillo che, per un giorno, mi hanno permesso di provarlo. E così oggi, che i ritmi sono tornati i soliti, da mattina a sera tardi, testa bassa e concentrato tosto, ho sentito meno la stanchezza, non smarrendo il sorriso. Perché anche se i tempi di Barzini Junior e del suo "sempre meglio che lavorare" sono distanti, il nostro rimane un bel mestiere. Per dire: vangare tutto il giorno è peggio.


Foto by Leonora

mercoledì 21 aprile 2010

Liberi dentro


Ieri l'altro ho ricevuto una mail di un collega, che - al nocciolo - si diceva dispiaciuto per ciò che avevo scritto in questo post, riguardo a Espansione Tv. Sapevo che il rischio di apparire ingrato era alto e credevo di essere stato chiaro: se così non è stato, ci torno sopra. L'argomento era la libertà di informazione e l'appunto che facevo era rivolto all'unico soggetto che può impedirla, in parte o appieno, cioè l'editore. Vale per Espansione Tv e Corriere di Como, ma anche per La Provincia, Corriere della Sera, Repubblica, Mediaset, Rai e Sky. Per tutti insomma. Ripeto: Corriere di Como e Espansione Tv hanno un editore che, in fatto di libertà di informazione, non accetta dissenso da ciò che è il suo pensiero. Ciò non significa che sia un cattivo imprenditore: i fatti dimostrano il contrario. E tanto meno che chi lavora per lui sia un cattivo giornalista, tutt'altro. I miei attuali colleghi mi sono testimoni, perché continuo a ripeterlo: chi lavora a Etv e al Corriere di Como deve essere bravo due volte e far fatica il doppio per ottenere magari la metà di noi, figuriamoci quando il conto finisce in pareggio o, nel dare una notizia, ci superano. Vale per tutta la filiera, dal direttore all'ultimo dei collaboratori. Non ho vergogna a scriverlo ed è per questo che posso guardarli dritti negli occhi, anche quando vengo frainteso. Così come, nonostante me ne sia andato, posso guardare dritto negli occhi l'editore. Espansione Tv e Corriere di Como sono una benedizione per l'informazione comasca, così come La Provincia, L'Ordine, i vari giornali di Como, Cantù, Erba, Olgiate, le radio, le web tv e tutte quelle testate che in misura minore consentono comunque di fare questo lavoro, affascinante per chi lo fa e utile per chi è convinto che conoscere ciò che accade oltre la porta di casa proproa sia alla base di una convivenza civile e, tutto sommato, migliore. Io stesso, se non ci fosse stato Maurizio Giunco che ha fondato e gestito Espansione Tv, e Adolfo Caldarini e Mario Rapisarda, che mi hanno dato fiducia, chiamandomi accanto a loro, non avrei fatto questo lavoro. Lo ricorderò finché campo. Riconoscere i meriti dei "padri" non significa però non avere una propria idea e tacere i punti in cui non si è d'accordo.

Un'ultima cosa che desidero dire, proprio ai miei colleghi (passati, attuali e azzarderei futuri, se non temessi di passare per il solito trombone stonato). Lo faccio, perché così ne approfitto soprattutto per ripeterla a me stesso. Si può essere fortunati o meno, lavorare con un editore con cui c'è assonanza di idee su tutti i temi oppure divergenza assoluta o, come capita spesso, condividere alcuni punti e altri no: ciò che conta è non confondere i ruoli, conservare distinto il proprio pensiero, avere una propria opinione. In tre parole, essere liberi dentro.
Foto by Leonora

sabato 17 aprile 2010

Il sabato del villaggio


Le nuvole si aprono, dalla finestra si scorge il sole, in questo sabato che di sereno non ha soltanto il cielo. Prendo le cose con calma, senza affanno, e stamattina ho persino fatto colazione, io che non la faccio mai e che al massimo mi bevo in quattro e quattr'otto una spremuta. Oggi invece latte e Tarallucci del Mulino Bianco. A occhio e croce, non capitava da tre decenni. Fino ai vent'anni, ogni santa sera, niente minestra, né pasta, né tanto meno pastina, bensì una scodella di latte e mezzo pacchetto di biscotti. Smisi di colpo, quando mi accorsi che la bilancia segnava ottantasette chili, pur se non avevo un filo di pancia. Ero nel pieno della salute, ma temevo di diventare una mongolfiera. Da allora ho bandito latte e biscotti, se non un paio di volte all'anno, la sera. Di mattina mai, tranne oggi, che sono sceso dal letto con il piede giusto e voglia di far colazione in cucina. Un gran bel sabato, dicevo, a cui seguirà una domenica senza impegni, perciò già di per sé gradita. Il libro che sto leggendo non è un best seller: rifiutato da molti editori, è stato stampato in propro ed è circolato per diverso tempo passando di mno in mano, con il passaparola, finché una casa editrice, la Sironi, se n'è accorta e lo ha dato alle stampe e, soprattutto, messo in distribuzione. S'intitola "La messa dell'uomo disarmato" ed è un romanzo scritto da Luisito Bianchi, un sacerdote di Cremona, con il talento per le storie dense e la bella penna. La sua è una prosa che ricorda un poco Erri De Luca, ma con la differenza che c'è tra una pianta di gelsomino e un glicine: lineare e sempreverde il primo, rami robusti e ritorti il secondo. Ne metto una nota qui, perché magari qualcuno lo prende in simpatia e, incuriosito, potrà leggerlo e dire poi la sua.

Sempre stamattina, ho avuto la riprova che i blog, i social network, gli strumenti di relazione virtuale non sono fine a se stessi, ma tessono fili utili nella vita reale, così come in passato è stato per la corrispondenza postale. Fuori dalla scuola, mentre attendevo l'uscita dei bambini, ho infatti incontrato Andrea, che non mi è affatto estraneo, dal momento in cui sono messo a parte d'un pezzetto della sua vita, attraverso il suo blog e viceversa. Il saluto, che fino a qualche mese si sarebbe limitato a un incrociarsi di sguardi e a un sorriso a mezza via, oggi è stato un trovarsi davvero tra amici, che condividono i reciproci percorsi e non hanno bisogno di neppure un istante per creare confidenza. Ecco perché, nonostante il temporale del pomeriggio, il sole non se n'è mai andato da questo sabato di momenti sereni e buona compagnia.
Foto by Leonora

venerdì 16 aprile 2010

Agli amici interisti


Attenzione parlo di calcio: chi non lo sopporta, per una volta lasci perdere questo blog e legga altrove.

Un gran gol di Maicon (che gioca nell'Inter) ha deciso la partita di stasera, ma dopo l'ennesima sconfitta (con l'Inter) e dopo parecchie imprecazioni (verso l'Inter) mi tolgo qualche sassolino dalla scarpa (sull'Inter) sapendo di far andare in bestia molti amici (dell'Inter). Parliamo di intercettazioni. Oggi "La Gazzetta dello sport" titola in prima pagina: "Il pasticcio delle 74 telefonate. Le intercettazioni potevano essere utili alla giustizia sportiva". Ma dai? Davvero? Detto dal principale quotidiano sportivo, che ai tempi di Calciopoli si erse a paladino dei giusti contro gli imbroglioni, fa un certo effetto e suscita un sorriso amaro, quello del tonto a cui quand'è troppo tardi danno ragione. Ma non menerò il can per l'aia, aggiungendo poche cose.
Quando l'allora presidente dell'Inter chiedeva al designatore arbitrale di non mandare Bertini e veniva accontentato, oppure obiettava su Rodomonti, ottenendo che lo stesso designatore "ci parlasse" proprio prima della partita con la Juve, era davvero "irrilevante"? Se quelle telefonate fossero state rese note allora, cioè nel 2006, quando la caccia alla streghe era all'apice, cosa sarebbe successo?
Non c'è bisogno di risposta. Certo che non si può paragonare Moggi a Facchetti: uno pare uscito dai film di Tomas Milian, dove avrebbe interpretato alla perfezione la parte del gangster; l'altro è il giocatore modello, il padre che ognuno di noi vorrebbe avere. Uno chiedeva con arroganza, l'altro con stile. Entrambi però parlavano con i designatori, entrambi cercavano di influenzarli. Per la giustizia penale ci può essere differenza, ma per quella sportiva sono pari.
Non discuto il massacro che ha subito la Juventus: la retrocessione, il campionato in serie B, i punti di penalizzazione, l'esodo dei giocatori più importanti, la cancellazione di un'intero assetto societario e l'azzeramento di una squadra, che impiegherà anni e anni, se andrà bene, per risollevarsi. Ma che l'Inter tenti ancora di passare per la vittima innocente, che venga negata l'evidenza dei fatti, che si ostini a tenere per sé lo scudetto da essi stessi definito "degli onesti" è una vergogna che non si può tollerare. Ragion per cui, con umiltà pari alla determinazione, chiedo questo agli amici interisti: non importunatemi più, non entrate nel discorso, non tentate di spiegare le vostre ragioni. Cantatevela e suonatevela tra di voi, come quei bambini che all'oratorio, quando sono in difficoltà, dicono "questo è mio" e si portano via il pallone.
Foto by Leonora

giovedì 15 aprile 2010

Elicoidale


Oggi Paola ha proposto su Facebook un gioco curioso, chiedendo di scrivere qual è la parola più bella del vocabolario italiano. La prima che mi è venuta in mente è stata: elicoidale. Non so perché proprio quella, credo addirittura di non averla mai usata prima d'ora, in questo blog, né negli articoli che quotidianamente scrivo. Mi piace però averla scelta: ne gusto il suono (una parola bella è, per me, una parola che "suona bene") e a pensarci meglio ne apprezzo anche il significato. Riporta il Gabrielli: "Che ha la forma di un avvolgimento simile a un'elica". Esiste una teoria secondo cui lo sviluppo umano non procede per linea retta, bensì elicoidale. Credo valga anche per le singole persone. Se mi guardo alle spalle vedo conquiste piccole e grandi a cui sono seguite bonacce, se non passi indietro, per poi ricominciare a salire, in una sorta di moto perpetuo in girotondo. Elicoidale poi è una bella forma: è il ricciolo che fa la penna quando è messa alla prova dello scrivere; è la striscia colorata del nastro della ragazza che fa ginnastica ritmica; è l'albero stilizzato e disegnato su un foglio di carta; sono le corde fini intrecciate in un'unica fune.

A Paola comunque non ho risposto solo io. Le altre "parole più belle" citate sono: altruismo, destino, serenità, onestà, felicità, pace, salute, amore, vino, vita, speranza, sorridere, armonia...
Photo by Leonora

mercoledì 14 aprile 2010

Andiamo in pace


Due sere, due film sulla guerra. Ieri "Taking Chance", il viaggio di un soldato di carriera che riporta a casa la salma di un ragazzo morto in Iraq. Oggi "Glory", la storia di un reggimento nordista composto da ex schiavi di colore dutante la guerra americana di secessione.

Non ho fatto il militare, ma venti mesi di servizio civile alle case popolari: obiettore di testa, prima che di coscienza, profondamente convinto del valore della pace e del dialogo, che presuppone un'andata ma pure un ritorno di reciproca comprensione. So che la forza a questo mondo necessita ancora di fornire una prova, ma sogno un giorno in cui le armi diventeranno soltanto una parola sui libri di storia. Nel frattempo m'accontento di guardare film, che mostrando la brutalità, l'orrore, i massacri, ogni volta rinnovano in me l'impegno a non cedere alla brama di possesso, di dominio, di denaro e potere, carburante senza il quale la guerra si spegnerebbe davvero. Per sempre.
Foto by Leonora

martedì 13 aprile 2010

Beato me


Terra. Terra che si ripete qui e altrove. Montagne e prati e specchi d'acqua, mare. Piante che germogliano a primavera, nubi che corrono senza barriere, ignare di dogane e cartelli, confini. E' una primavera fredda, penso ma non immagino neppure quante se ne sono succedute e quante ne verranno ancora, senza che dipenda dalla nostra volontà, dalla nostra ragione. Sto volentieri all'ombra, al riparo dalla luce, ogni tanto individuo un profumo, un sentore. Sono istanti. Quando ero bambino avevo un olfatto sensibilissimo, da cane segugio che cerca padrone. Non sono le linee attorno agli occhi, i capelli corti o la pelle delle mani, che pur tradisce il segno delle stagioni: mi sento adulto, vecchio, perché non m'accorgo più di troppi odori. Quelli forti sì: il prato appena falciato, l'erba cipollina sulle rive attorno casa, il ferro tagliato dalla lama del flessibile. Sono squarci d'infanzia, che mi riportano indietro negli anni, in sere di maggio con le imposte aperte e un concerto d'insetti, attendendo un sonno che non veniva, un diventare grandi che pareva inarrivabile più delle stelle. Ora sono qui, di fronte a quella medesima finestra, in una casa che non è più la stessa pur essendo rimasta tale e quale. Quel tempo è giunto, il bambino s'è fatto uomo, una vita in un lampo, nessuno che m'accarezza la testa o mi rimbocca le coperte. Sono io a farlo, ascoltando il tic tac dell'orologio sulla mensola e guardando Giacomo e Giorgia e Giovanni nel letto, che dormono beati, proprio come sono adesso io, da sveglio.


Foto by Leonora

martedì 6 aprile 2010

La squadra


Riprendo fiato, dopo una settimana in apnea, tre giorni via da casa e altri due di nuovo in immersione totale. Nel frattempo è passata la Pasqua (era inevitabile d'altronde, visto che Pasqua significa appunto passaggio) e me ne sono accorto di striscio. Sono stato bene però, insieme con altre famiglie, quelle dei compagni di squadra di Giacomo, impegnato in un torneo di calcio a Lignano. Ne parlavo con Isabella, durante il viaggio di ritorno: non è stato possibile conoscerle tutte allo stesso modo, ma ero orgoglioso e insieme stupito (sì, stupito) delle affinità con persone diverse per percorso e formazione, scelte a caso dal mazzo delle possibilità, eppure simili per disposizione d'animo e buon cuore. Non ho imparato tutti i nomi a memoria, ma ne ho impressi nella mente i volti, i sorrisi, gli sguardi, i discorsi. Una cosa che più delle altre mi ha colpito è stata la varietà delle competenze. Dalla botanica all'economia, dalla cucina alla pedagogia, ogni occasione di scambiare due chiacchiere era fonte di conoscenza, e quando capitava di non sapere, di non capire una cosa, ecco che un altro veniva in soccorso, completava il mosaico, dava una mano decisiva per superare l'ostacolo (e non parlo delle cose che si apprendono a scuola, intendo proprio il sapere della vita). Direi che a ben guardare i genitori sono stati, a Lignano, testimonianza ed esempio per i ragazzi di cosa significhi il gioco di squadra. Per questo e per molto altro sono tornato non soltanto sereno, ma anche ottimista, da quei tre giorni in gita. Siamo stati un bel gruppo, senza eccezione alcuna, e se anche le strade della vita porteranno altrove, quel tratto di cammino insieme rimarrà un frutto buono, maturato in riva al mare nonostante il freddo, a primavera.


Foto by Leonora