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mercoledì 5 luglio 2023

Paolo Maggi (Il latinista vivace)

Una delle espressioni che uso di più l'ho appresa in un assolato mattino di dicembre di oltre venticinque anni or sono. Ursus spelaeus. Orso delle spelonche, delle caverne. L'ho udito per la prima volta da lui, l'ho replicato mille volte riguardo a me stesso. Esagerava lui, che in verità era una persona amabile, ben disposto verso le relazioni umane; esagero pure io, che a volte sì, amo star solo, possibilmente al chiuso, con un libro in mano, ma senza compagnia mi esaurirei presto, quale stoppino senza ossigeno.
Per il resto, Paolo Maggi mi ricorda un dialogo avuto ieri sera, su ciò che distingue l'uomo colto davvero. La curiosità, è stata la risposta. Il vorace, appassionante desiderio di conoscere, sapere, imparare. La differenza sta tutta lì. È sul come trasmetterla, piuttosto, quella smania, che resto sgomento, incapace di dare una risposta piena di senso. Mi limito perciò ad un'altra frase che cito spesso, di Antoine de Saint-Exupery: «Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave».

Vivace. Paolo Maggi è un uomo vivace. Lo si capisce da come batte le mani sul tavolo, mentre parla, quasi a scandire il ritmo di pensieri e parole.
Lo s'intuisce da come si muove, alzandosi spessissimo per consultare un libro o recuperare un oggetto da mostrare all'interlocutore, per dare testimonianza di ciò che sta affermando.
Il professor Maggi è capace di utilizzare strumenti comunicativi diversi, non limitati alla parola. Egli possiede, per farla breve, un'autentica abilità multimediale. Forse l'intervistato non approverà questo neologismo, ma siamo certi che non lo avrà nemmeno in orrore. E' vero che multimediale - parola sconosciuta fino a qualche anno fa ed ora usata e abusata in tema di computer, informatica, elaboratori elettronici - ha attinenza con qualcosa che gli è completamente estraneo («la tecnologia è una diavoleria, anche se spesso le diavolerie sono utili»), ma è altrettanto vero che si tratta di un termine squisitamente italiano («troppo spesso i giornalisti infarciscono le frasi di vocaboli stranieri, senza sforzarsi di trovare un termine corrispondente nella nostra lingua»).
Non basta. Multimediale è una tra le tante espressioni che il mondo contemporaneo, a qualsiasi latitudine e longitudine, ha preso a prestito gratuito dal latino, quel beneamato latino che per un'intera vita lo ha affascinato e per cinquant'anni ha insegnato.
Il professor Paolo Maggi abita in Via Porro.
Quando Gianni Clerici indicò in Londra la città estera che più gli ricordava Como, l'accostamento ci parve tanto ardito da non meritare pubblica menzione. Lo scrittore gira molto, pure troppo, pensammo. Clerici conoscerà Londra, ma non sa più com'è fatta Como. Dobbiamo chiedergli scusa. A non conoscer Como siamo noi. Via Porro sembra uscire dalle pagine di Arthur Conan Doyle. Un angolo verde e felicemente ignorato dal traffico («Per anni e anni, quando a scuola mancava l'insegnante, gli studenti del Volta venivano qui a giocare al football»).
Gli chiediamo cosa stia leggendo in questi giorni. Lui si irrigidisce, poi si alza, scruta lo scaffale, esce dalla stanza, rientra, finalmente lo trova e ce lo passa. "Ginèstar" di Virginia Bernasconi Botta. «Lo leggo per adempiere ad un impegno» aggiunge.
Legge molto? Scuote più volte il capo e, ripromettendosi di calibrare bene le parole, precisa: «Leggo poco. Alla mia età il campo degli interessi va riducendosi. Per i miei gusti i giornali sono troppo voluminosi. Indubbiamente ci saranno scritte tante cose interessanti, ma la loro lettura mi affatica. Una volta i giornali contavano solo quattro pagine, ma avevano più sostanza e più nerbo. Parole, parole, parole. E di molti argomenti non vale la pena leggere».
Oscar Wilde sentenziava che "il giornalismo è illeggibile, la letteratura non è letta".
«Se lo diceva lui» ammicca il professore, che non vuole infierire e, a proposito di libri, aggiunge: «Un pasticciere non si abbuffa di dolci. Io ho vissuto una vita tra i libri. Leggo quando la necessità o l'occasione me lo impone oppure per qualche sghiribizzo particolare. In questi giorni ad esempio - e intanto torna ad alzarsi per rovistare tra le carte depositate su una madia e mostrarci il bozzetto di una scultura - sto studiando l'iscrizione latina posta sul palchetto marmoreo sulla facciata del Duomo che ospita la statua di Plinio il giovane. Niente a che fare con cose complesse e gravi, bensì piccole ricerche su punti interessanti».
Lo studio delle iscrizioni non è una passione senile.
«Sostenni la tesi di laurea sull'iscrizione del vaso di Duenos. Più tardi mi appassionai anche di archeologia. Accadde un fatto straordinario. Un amico, durante gli scavi per costruire la casa in Via Varesina, scoprì alcuni reperti risalenti ad un periodo anteriore di circa 500 anni la nascita di Cristo».
Si interrompe e ci abbandona senza dare spiegazioni. Dopo un minuto torna e espone tre piccoli oggetti sul tavolo. «Questo è ciò che quell'amico mi ha lasciato in dono. Un piccolo vaso in terracotta, con delle curiose striature ottenute lisciando alcune parti prima della cottura; una fibula, usata probabilmente per raccogliere i capelli; una decorazione che costituiva verosimilmente un ornamento della fibula. L'archeologia, come il greco o il latino, è interessante perché ci aiuta a capire da dove veniamo e chi siamo».
Chi siamo, appunto. Lino Gelpi, che il professor Maggi conosce bene, sostiene che anche a Como mancano uomini validi.
«Non sono d'accordo. A Como non possiamo lamentarci. C'è gente seria. Forse sono un po' circoscritti, ma è gente solida, che si impegna. Non vedo, non registro uno scadimento rispetto al passato. E' vero che conosco un numero limitato di persone e su 10, 15 casi non è possibile fondare una teoria, ma di persone valide Como è indubbiamente ricca. Penso agli insegnanti. Ce n'è qualcuno mediocre, molti apprezzabili e qualche altro di valore eccezionale. Penso a Federico Roncoroni o al suo quasi omonimo Angelo Roncoroni, ma potrei continuare.»
Se dovesse consigliare ai suoi concittadini la lettura di qualche autore classico chi suggerirebbe? «Virgilio» sussurra. E anticipando la nostra curiosità, conclude: «Lo ha scelto anche Dante. Virgilio è la premessa ad uno sviluppo di pensiero moderno. Senza badare se a parlare è la ragione o la passione direi anche Orazio oppure Lucrezio, ma Virgilio è senza dubbio il più moderno tra gli antichi». Antico e, al tempo stesso, moderno. Proprio come Maggi, la cui vivacità si distingue negli occhi. Occhi che scrutano, indagano, interrogano. Occhi che qualche volta si velano. Non vere e proprie lacrime. Un luccichio tenue e triste.
Ha nostalgia per il tempo trascorso?
«No. Mi mancano solo le tante persone care che non tornano più».
Da insegnante, dovendo giudicare un alunno, non ha mai ricordato di essere stato lei stesso un allievo, con ansie, paure, preoccupazioni?
«Quando si è professori bisogna un po' essere come il chirurgo, il quale sa che facendo un certo taglio fa del male, ma sa anche che così facendo porta un bene maggiore. Ci sono delle partecipazioni che a volte è necessario mettere da parte».
In questi giorni sono frequenti le "occupazioni" delle scuole, cosa ne pensa?
«Non posso giudicare. Non conosco più i giovani. Gli unici alunni che ho sono quelli amabili dell'università della terza età e loro non protestano, al massimo si addormentano».
Como a parte, in quale città le sarebbe piaciuto vivere?
«In nessun altro posto. In questo senso sono un vero "ursus spelaeus", un orso delle spelonche».

21 dicembre 1997

sabato 12 febbraio 2011

Gian Paolo Porlezza e la tessitura Taroni

Ogni giovane dovrebbe avere la fortuna d'incontrarlo. Io l'ho avuta, quando il tempo era maturo, né troppo presto né troppo tardi, come ora, che non c'è più. Gian Paolo Porlezza mi mise una sconfinata tristezza, facendomi però intuire il profondo che esiste in ogni uomo e l'impossibilità, nonostante tutte le fortune del mondo, di colmarlo, di dare pienezza a ciò che invece per natura è limitato. Egli fece il paio con Lino Gelpi: vegliardi disincantati, che dalla vita avevano avuto tutto comprendendo solo allora che non valeva niente. E scrivo vegliardo perché vecchio mi fece l'impressione di esserlo davvero anche se, leggo ora, aveva settant'anni, cioè in quell'età in cui molti uomini sono ancora ragazzini. Mille volte mi ero riproposto di tornare a stringergli la mano, ma non lì, alla tessitura Taroni, bensì a casa sua, tra le sue erbe, nelle serre che gelosamente custodiva. Lì per me Porlezza era un uomo felice. Negli appunti postumi, che ho trascritto al termine dell'articolo, metto anche il riferimento alla moglie, che credo si chiami Silvana Bernasconi. Chissà se c'è ancora. Mi riprometto di scoprirlo e di andare a trovarla.

Per andarci d’accordo, dice lui, serio come se stesse celebrando messa, basta amare la natura, la cucina, il buon vino e la pittura.
Non pretende molto, sostiene. Dopotutto si tratta di saper gustare alcuni tra i più sapidi piaceri della vita. Ammette anche di accontentarsi di meno. Basta che l’interlocutore ne condivida almeno una, di queste sue passioni.
Ci sentiamo confortati, ma non a lungo. E’ il significato del verbo “condividere” che ci appare impegnativo.
Gian Paolo Porlezza ha il più bel giardino aromatico d’Europa; ha girato il mondo alla ricerca di sementi rare; coltiva circa tremila specie di piante, tra cui almeno tredici varietà di rosmarino, quindici di menta, ventuno di timo, sette di artemisia, quattro di santoreggia, undici di salvia. Ditelo voi, a uno così, che vi interessano le erbe, portando a testimonianza solo il fatto che nell’insalata di pomodori ci mettete l’origano.
Ditelo voi, a uno che possiede una ricchissima collezione di opere del futurismo italiano e che ha quadri famosi appesi persino nell’antibagno, che apprezzate l’arte perché la settimana passata avete intervistato Somaini e da un paio di mesi sognate di acquistare una scultura vista nello studio di Eli Riva.
Alla cucina e ai vini non pensiamo neppure. Anche se la polenta con le quaglie che saltuariamente ci capita di assaggiare nell’abitazione materna, forse non dispiacerebbe neanche ad uno che adora la carne di maiale e a cui, in Borgogna, hanno concesso il titolo di “chevalier”, di cavaliere della buona tavola.
Gian Paolo Porlezza, settant’anni, vive per le sue passioni. Tutto il resto è fatica e noia. A cominciare dal lavoro.
All’industria di famiglia - ereditata dal nonno materno, che aveva fondato la Tessuti Taroni nel 1880 - Porlezza ha dedicato quasi mezzo secolo, gestendola con sapienza ed entusiasmo. La prima è rimasta. Il secondo è finito da un pezzo.
“Nostri clienti sono i più famosi stilisti internazionali, soprattutto gli italiani e i francesi. Con tutti ci diamo del tu. Siamo rimasti l’unica azienda al mondo che fa un prodotto di altissima qualità. Non abbiamo più concorrenza. Semmai è il mercato che si restringe. Gli articoli di altissimo pregio hanno un prezzo elevato e c’è meno gente che si veste con i miei tessuti”.
Qualche anno fa, ad un giovane cronista, disse che il suo lavoro non avrebbe mai conosciuto crisi perché al mondo ci saranno sempre i ricchi. Conferma?
“Certo. Magari adesso ce ne sono meno in Europa e in Asia, ma in America e in altre parti del mondo aumentano. Siccome noi produciamo esclusivamente per loro non ci possiamo lamentare. In ogni settore, la specializzazione è una garanzia di stabilità. Basta sapersi accontentare, poiché occupandosi di un settore limitato non si moltiplicano i guadagni, non succedono miracoli. Il nostro giro d’affari rimane costante nel tempo, senza picchi vertiginosi e senza cadute pericolose”..
Ci risponde con cortesia, ma lo capirebbe anche un carro armato che la nostra insistenza lo spazientisce. “Sono un uomo che lavora molto e adesso lo faccio controvoglia. Sono stanco. Dagli anni ‘50 agli ‘80 ho vissuto il mio mestiere con pieno entusiasmo. Successivamente è diventato un peso. Dopo cinquant’anni di lavoro nulla mi meraviglia. Non trovo niente da scoprire. Nella moda i cicli si ripetono ogni dieci, quindici anni. Sono stufo di vederli. Conosco vizi, difetti, pregi, meriti di tutti i clienti, a memoria. So già cosa succederà nella mia azienda. Ho solo il desiderio di venderla e non riesco. E’ un’impresa sana, ma dicono sia troppo difficile da gestire e che non esisterebbe senza di me. Chi la vuole comprare, vorrebbe che restassi, ma allora preferisco rimanere da padrone. Anche se alla mia età sento il bisogno di riposare”.
È un Porlezza rassegnato. Racconta, ma non incanta. Nella persona che abbiamo di fronte intuiamo a malapena il ricordo di un personaggio vivace. Dicono che ogni uomo ha il suo punto di rottura. Gian Paolo Porlezza ha la stoffa e la tempra di colui che per una vita ha creduto che quella regola per lui non avesse valore. Il passare degli anni gli ha insegnato il contrario. Col trascorrere del tempo ha continuato a superare gli ostacoli, ma ha smarrito il senso, il motivo per cui farlo. Persino quel dono raro che madre natura gli ha confezionato e per mezzo del quale gli “sono facili tutte le cose che per gli altri sono difficili” gli si è ritorto contro. “Supero tutti i problemi con tanta facilità che non trovo niente di speciale. Sono invidiato da tutti, perché ho un bel lavoro, tranne che da me stesso”.
Lo dice senza clamori, quasi di sfuggita, ma ai nostri orecchi suona come una sentenza. La condanna di un dio onnipotente, ma annoiato, capace di far tutto e per questo a nulla interessato.
Quasi nulla, in verità. Se il lavoro lo incatena, le passioni e gli svaghi lo liberano. “Per fortuna ho i miei passatempi, che non hanno a che fare con il tessile e sono la mia distrazione e la mia forza. Primo di tutto sono un botanico. Una passione che ho appreso da mia madre. Avevamo una casa sul lago e lì imparai i primi rudimenti del giardinaggio. Attualmente, a Monte di Rovagnate, coltivo migliaia di piante, che curo con l’aiuto di tre giardinieri. In particolare, ho circa quattrocento piante aromatiche e medicinali. Poi colleziono rose. E mele. Ne ho centosettanta specie. La terra del mio orto, che è calcare e poco acida, è adatta alla loro crescita”.
Il tono di voce è mutato, lo sguardo riluce. Comprendiamo di aver commesso un errore. Siamo seduti nel suo ufficio, ma dovremmo essere a chilometri di distanza, immersi nel verde della Brianza, per vederlo maneggiare i piccoli arbusti, accarezzare foglie, sentire gli aromi, gustare i sapori.
“La natura non è come il tessuto, che è sempre quello. Ci sono un’infinità di piante. Non ci sono limiti. E’ una continua ricerca. Ogni fine settimana lo passo a Rovagnate, tra le mie piante, i vini, i fiori. Se non avessi quei tre giorni sarebbe la fine. Sono per me un respiro, un sollievo, una gioia”.
Oggi l’unico Gian Paolo Porlezza vivo è quello vegeto. Il resto conta poco. Como compresa.
“Sono comasco, ma per niente affezionato a questa città. Un sentimento di repulsione recente. Abitando a Milano e avendo l’abitudine di essere il primo ad arrivare allo stabilimento, mi condiziona nel giudizio la stanchezza che è dovuta al viaggio. Non partecipo più alla vita della città. Di buon mattino arrivo e prima che faccia sera me ne vado”.
Como città turistica è argomento che, di recente, va per la maggiore. Prima degli anni settanta, quando tutti allargavano le proprie fabbriche, Porlezza dimezzava la sua, costruendo un albergo.
“Fu una delle mie utopie. A quel tempo di hotel ce n’erano pochi e fu un buon affare. Poi lo vendetti. Como non è una città turistica. Anzi, è la negazione del turismo. Se così non fosse l’ex casa del fascio dovrebbe essere un museo da visitare, non la sede della Guardia di Finanza”.
Giorgio Bardaglio


P.S. Anche in questo caso, ho trovato appunti mai trascritti prima, che mi pare uno spreco non menzionare.


C’è una parte della città che preferisce?
“Da giovane mi piaceva Sant’Agostino. Abitavo vicino a Gianni Clerici, era mio compagno di scuola. Già matto allora. Poco disciplinato. Un amico”.
Cosa legge?
“Cose che non disturbino. Ad esempio, adesso sto leggendo un romanzo di Bagnasco molto bello, sulla cucina”.
Giunge l’ora di pranzo. Porlezza mangia ogni giorno in mensa, assieme ai suoi operai. Senza pomposità o retoriche.
“Sono tecnici espertissimi, esecutori di grande talento, che fanno un lavoro da orafi e, come loro, alle dodici e mezzo ho fame”.
Lei mangia prima, dopo o insieme agli operai?
“Insieme”.
Quale piatto preferisce?
“Amo la cucina brianzola, il maiale. Sono cuoco e degustatore”.
Ci parli di sua moglie?
“È giornalista. Scrive su Vogue ed è la classica cittadina. Adora Milano e le mondanità. Io la campagna. Andiamo d’accordo. Mi piacciono gli amici, molto selezionati e molto intelligenti. La gente con cui non si può parlare di niente non mi interessa. Il pettegolezzo quotidiano non mi interessa niente, di lavoro non voglio parlare. Se alla mia età, dopo tanto lavorare, non mi fosse permesso di selezionare gli amici e di dire ciò che penso sarebbe dura”.
Ha paura della morte?
“No - pausa - non ci penso”.
Unico passatempo la natura?
“No, ho un’altra mania. Sono un collezionista di futurismo italiano. Cominciai quarant’anni fa, acquistando opere di Sant’Elia, di Boccioni, anche di autori minori. Possiedo circa quattrocento quadri. Compresi quelli del primo astrattismo comasco, come Radice. La passione per l’arte è naturale. Bisogna essere artisti per forza con questo lavoro. Bisogna stare in mezzo alle belle cose. È il mio destino. Un gusto innato e affinato col tempo”.

lunedì 7 febbraio 2011

Gianni Clerici: una (vecchia) intervista

Sono grato a questo mestiere e in particolare ad Adolfo Caldarini, perché ho incontrato persone che altrimenti sarebbero rimaste lontane e di cui invece ho potuto cogliere almeno un riflesso, l'ombra. Ho deciso di ripubblicare su questo blog alcuni "incontri", pubblicati a suo tempo sul Corriere di Como e di cui non c'è più traccia in rete. Il primo in assoluto fu Gianni Clerici, scrittore e giornalista sportivo. Correva l'anno 1997. Era il 28 novembre.

Ci sono persone triviali anche quando pregano. Gianni Clerici non lo sarebbe neppure se bestemmiasse.
Giornalista, commentatore televisivo, romanziere, autore di opere teatrali, scrittore ("scrivo per conoscere me stesso") e altro ("sempre a che fare con le parole, però"), con un riguardo speciale per il tennis.
Lo raggiungiamo in una delle case che possiede, una sorta di studiolo collocato a mezzacosta, sul monte che sovrasta Villa Geno. Dalle finestre lo sguardo domina il primo bacino del lago. Non un caso. Scrutare dall’alto, distaccato, ma non lontano, è il suo destino. Che stia a Londra, Parigi o in via Torno, seduto su un aeroplano o su una tribuna.
Magro, più alto di quanto immaginassimo, il viso appena segnato dal tempo, Clerici non gesticola. E’ vivacissimo, ma misurato, nei movimenti quanto nelle parole.
Parla a lungo e la conversazione
avviene da sé naturalmente, come si fa la notte quando il giorno dilegua.
"Ormai rimango a Como pochi giorni all’anno. Meno di un’ottantina. La conosco veramente poco, mi sento uno straniero. Vado ancora in libreria, qualche volta in biblioteca, a Villa d’Este quando gioco a tennis. Poco altro. Passo per strada, esco in bicicletta".
Con tutto il traffico, è ancora possibile?
"Ma sì. Milano è peggio. E’ vero che non siamo ad Hannover e nemmeno a Parma, dove esistono splendide piste ciclabili. Una questione geografica e culturale. Como si trova circondata da pendii impegnativi e dall’acqua del lago, entrambi poco adatti per pedalare. E poi si ha sempre premura. Ma questo è un problema che non si esaurisce nel perimetro della nostra città. La fretta dei contemporanei è terribilmente contagiosa. Ho fretta anch’io".
La chiusura geografica della città ha a che fare con quella caratteriale di chi vi abita?
"Non saprei. Di certo i comaschi sono introversi. Uno dei maggiori esperti di letteratura tedesca, insieme a Claudio Magris, è Giorgio Cusatelli, che è professore, credo a Genova. Quando lo incontrai mi rivelò di aver insegnato a Como, per undici anni. Gli dissi: “e dove sei stato, che non ti abbiamo mai visto?” Rispose: “non mi invitava nessuno”. Questa caratteristica di chiusura esiste. E’ una società, quella comasca, che non accoglie facilmente. A meno che non si tratti del questore o del capo della Finanza, perché in quel caso si hanno porte aperte. Ed è giusto, una città mercantile deve coltivare buoni rapporti con le autorità".
In cosa si rende evidente questa vocazione mercantile di Como?
"In tutto. Basti pensare all’architettura. La nostra città è stata distrutta e ricostruita più volte, secondo le esigenze dei fondaci. Chi aveva la sua fabbrica, che andava bene nel ‘600, settant’anni dopo aveva bisogno di più spazio e la buttava giù. In uno dei pochi articoli che non mi hanno pubblicato spiegavo le connotazioni dei comaschi, facendo la distinzione tra “comacinus faber”, che sono in maggioranza, e “comacinus sapiens”.
La mia famiglia è sempre appartenuta ai “faber”. Mio nonno paterno commerciava vino, quello paterno tessuti, mio padre carburanti. Personalmente, invece, ho sempre avuto più affinità e amicizie coi “sapiens”, cioè con coloro che hanno interessi fuori dalla dimensione produttiva della città, senza per questo pretendere che siano migliori. E’ pure vero che anche tra i “faber” ci sono degli illuminati. Mi viene in mente Ratti, che non conosco di persona. Una volta andai a New York, a scrivere un pezzo per il “Giorno”, su una straordinaria mostra di abiti indiani, esposti al Metropolitan Museum. Alla fine vidi che lo sponsor era il signor Ratti. Ne sono stato molto onorato. Di questi esempi ce ne saranno molti altri, che però non conosco. L’ho ammesso, non sono un referente significativo, purtroppo sto troppo poco in città per conoscerla davvero".
Non le manca Como?
"No, no. Mi va molto bene tornare, quello sì. Si ama di più quando si è lontani. L’amore, quando c’è un riscontro di presenza continua, è meno facile che immaginarselo. Agli amici ripeto che, se non avessi passaporto italiano, l’Italia mi sembrerebbe un paese meraviglioso e straordinario".
C’è una notizia riguardante Como che l’ha incuriosita di recente?
"Ho visto che gli ultras della squadra di calcio sono stati molto cattivi a Livorno. Riscontrando incidenti in casa altrui, pensavo: a Como queste cose non succedono. Era un buon segno per la città. Ci differenziava in meglio da altri. I recenti episodi sono un segnale negativo, che andrebbe studiato a fondo. Magari raccogliendo il parere dei protagonisti stessi, perché non c’è di peggio che criminalizzare chi ha qualche tendenza criminale".
Qualcos’altro, magari di positivo?
"L’università a Como. Importantissima, come lo fu a suo tempo l’istituzione del setificio, perché contribuì a sprovincializzare, allargando il cerchio, attirando anche studenti stranieri. Una città non può definirsi tale se mancano scuole decenti e belle biblioteche".
Dimenticavamo, come mai non pubblicarono l’articolo sull’Homo Comacinus?
"Perché colui che me l’aveva richiesto, un tipo assolutamente sconosciuto, che lavorava per l’Alitalia, si indignò, pensando a me come ad un leghista e razzista".
Aveva ragione?
"No, ma chiunque viva in una città del nord di frontiera nasconde qualcuna delle caratteristiche del leghismo e del razzismo, inteso non come cattiveria, bensì come una sottolineatura marcata delle differenze tra persone provenienti da paesi diversi e una volontà di evitare commistioni".
Giorgio Bardaglio

P.S. Di questa intervista, compresi alcuni retroscena, ne avevo parlato in un precedente post. Lo trovate cliccando qui.