martedì 31 dicembre 2019

Custodire (Il verbo dell'anno)


Nel punto di equilibrio tra il vecchio e il nuovo, scelgo un verbo di passaggio: custodire.
Lo ripeto mentre vedo partire per le varie mete i miei figli, chi in montagna, chi altrove, dove festeggeranno insieme con gli amici il Capodanno. L'istinto vorrebbe proteggerli, metterli al riparo, ma non li trattengo: sono loro custode, non il proprietario. Mi sono stati affidati affinché crescano, facciano esperienze, diventino adulti, non posso neppure immaginare di metterli sotto una campana di vetro.
"Custodire" è verbo delicato, è un prendersi cura senza allargare le maglie né stringere troppo.
Si custodisce qualcosa che non è nostro e pure per questo mi piace, perché è il contrario di "possedere", di quel volere e tenere per sé tutti e tutto, che imbruttisce e rende impossibili i rapporti, le relazioni, riduce persino i sentimenti, le emozioni, a un oggetto. Una tentazione da cui non è esente alcun essere umano, io per primo. Un istinto connaturato a ciò che siamo, tanto da ignorare secoli di saggezza e perseverare nello sbaglio. Il bello è che non è mai troppo tardi per accorgersene, a volte bastano persino venti righe, l'ultimo giorno dell'anno.

P.S. Sotto una campana di vetro, con il senno del poi, Vilma avrebbe forse voluto tenere suo figlio Giulio, che ieri ha perso la vita, scivolando in un crepaccio. La capirei, la capisco. Non c'è azione che una madre o un padre risparmerebbe purché non capiti ciò che in natura è un contro senso, cioè che un genitore sopravviva a colui o colei che ha generato. Eppure se così avessero fatto, se così facessi io, non impedirei tanto la morte, quanto la vita, che invece non chiede altro: di essere giocata, rischiata, vissuta appunto. Una convinzione che non elimina il dolore, ma almeno dovrebbe cancellare i sensi di colpa per le disgrazie che capitano. Siamo "custodi" dei nostri figli, ma la vita è loro. Giulio è morto troppo presto, non ancora a cinquant'anni, eppure per come lo conoscevo, quei cinquant'anni li ha vissuti intensamente, pienamente, proprio grazie a Vilma e suo marito, che hanno tenuto la corda lunga, lasciandolo libero di correre, anche incontro al destino.

mercoledì 25 dicembre 2019

Nulla accade per caso (In pace, con noi stessi)


Facciamoci un regalo: perdoniamoci. Non c'è pace con gli altri se prima non la concediamo a noi stessi, se non la smettiamo di sentirci in colpa, di mettere a fuoco mancanze, errori, fragilità, debolezze.
È un giorno speciale questo e non lo sarebbe se evitasse di ricordarci lo stupore per ciò che sembra piccolo mentre in realtà è grande.
Quando mi guardo allo specchio o mentre sono a letto e prima di addormentarmi metto in fila i pensieri, rischierei di restare schiacciato da quanto non va, da come non sono stato capace, dagli sbagli commessi, le piccolezze dimostrate.
Ogni volta però mi viene in mente mio padre e il suo sguardo privo di giudizi, la sua umanità profonda, la capacità di comprensione, quasi sempre senza ricorrere a parole, poiché le parole possono curare, ma creare pure imbarazzo, barriere, tensione.
Lui non siede più alle tavole imbandite di questi giorni, i suoi occhi però continuano a guardarmi e dimostrarsi indulgenti, come dovrebbero essere sempre gli occhi degli esseri umani, gli uni verso gli altri.

P.S. Nulla accade per caso. Ne sono convinto ed è una delle mie stelle polari, soprattutto per quanto riguarda gli incontri. "Perché" è la domanda che mi rivolgo e mi viene rivolta più spesso, talvolta in modo esplicito, spesso tacitamente, sia nelle relazioni personali sia nei rapporti professionali, specie quando si passa dai convenevoli a scambi più schietti, a confidenze più intime.
Non lo so. Quasi mai lo so. Eppure ogni volta che capita "sento" che esiste un motivo, pur se poco o per nulla evidente. Potrei dire che è istinto o una proiezione della volontà, preferisco invece pensare che esistono fili e trame già disegnate e che aspettano una risposta, un'adesione e la pazienza di attendere, come "l'arabo avvolto nel barracano bianco" nella poesia di Antonia Pozzi, che "ascolta Dio maturargli l'orzo intorno alla casa".

sabato 21 dicembre 2019

Esserci (La sorpresa di Natale)


Gli sto andando a sbattere addosso, rallentando giusto giusto per non schiantarmici, favorito dal fatto che quest'anno è piazzato di mercoledì e sarà una vigilia dalla volata lunga, senza ostacoli.
Corse, persone, pacchi, regali, cene, pranzi, dolci, luci, nastri, biglietti...
Riempio tutto, dimenticando che l'unica cosa che conta dovrebbe essere il vuoto: è infatti nel vuoto, nell'assenza di altro, che lo spirito del Natale si fa davvero "presente".
Poi capitano i miracoli, incredibili per chi li immagina sontuosi e appariscenti, invece che nascosti nelle mille circostanze quotidiane.
Ciò che mi ha emozionato di più, questa settimana, era scritto su un foglio bianco, con una penna blu, sottile. Lo ha trovato Elena, in cantina, dove era scesa per prendere la stella luminosa che ogni anno sua mamma - morta a fine settembre, dopo una malattia che l'ha consumata pian piano, inesorabilmente - appendeva sul muro esterno di casa, in occasione delle feste.
Aperto il sacchetto che la custodiva, legato al filo elettrico, c'era una pagina di quaderno a righe con quattro parole: "Buon Natale Mamma bacioni".
"Mi è arrivata una pugnalata al cuore - ha confidato Elena - pensando a lei che lo scorso anno, palesemente consapevole di ciò che l'aspettava, con le poche risorse di persona umile qual è sempre stata, si è messa ad escogitare come poterci... essere, anche in questo Natale".
Poterci essere. Non fare, disfare, avere, mangiare, comprare. Esserci.
Il gesto d'amore d'una madre, lo confesso, mi ha scaldato il cuore. Per questo lo voglio condividere: un regalo che non ha prezzo e un immenso valore.

P.S. La mamma di Elena c'è, come quella di Antonella, ne sono certo, come tutte le persone che amiamo pur se non le vediamo con gli occhi. Lo scrivo con convinzione, consapevole che nessuna altra festa al pari del Natale può essere tutto o niente, zeppo di gioia, di compagnia, di sentimenti o, al contrario, di tristezza, solitudine, desolazione. Quel biglietto scovato in cantina idealmente è un po' nostro, di tutti.

sabato 14 dicembre 2019

Un metro davanti a me (Cosa c'è oltre la maschera)


Eri un metro davanti a me, bella come sempre, in mezzo a tuo marito e tua figlia, che aveva in braccio il nipotino, anch'egli una meraviglia.
Eri un metro davanti a me e sarebbe stata una normale mattina, se sul viso tu non avessi avuto una mascherina, di quelle verde latte e menta, che usano i medici quando intervengono o gli infermieri o le persone malate, che non possono permettersi un'ulteriore acciacco, neppure un banale raffreddore, un'influenza.
Eri un metro davanti a me e quando gli sguardi si sono incrociati hai sorriso, serrando lievemente gli occhi, come sempre, come fai con tutti, per una spontanea forma di cortesia, mentre io pensavo a quanto mi avevano già detto, al male che ti ha cinto il petto, che si è insinuato nella carne e che fatica ad andare via.
Il tempo è volato e non ho avuto il coraggio né l'occasione di fermarmi, di chiederti come va, di dirti che faccio il tifo per te, che so quanta tribolazione nasconda l'apparente quiete, del carico che sulle spalle porti insieme con la tua famiglia.
Lo so perché l'ho vissuta, perché l'ho riconosciuta nell'espressione di tua figlia, anch'essa sorridente, fino a quando gli hai accostato la bocca all'orecchio e detto due o tre parole, mentre lei annuiva e continuava a sorriderti, tranne nel momento preciso in cui ti sei voltata e la sua espressione in un lampo è mutata, come chi viene colpito alla bocca dello stomaco, chi perde fiato, chi riceve una brutta notizia o ricorda quanto sia la situazione precaria.
In quell'istante ho percepito il suo dolore, la sua ansia, la preoccupazione di una figlia che ha da poco sperimentato la gioia più grande, quella di diventare a sua volta madre, ma sente in pericolo la persona a cui è più legata, tu, sua mamma.
Io non so cosa riserverà il destino, il caso, la vita. Ho pianto quindici anni fa per persone che sembravano avere i mesi contati e che sono invecchiate serene, vivendo tuttora in pienezza, mentre altri per i quali pareva poco o nulla ci hanno lasciato senza neppure il tempo di un Ave Maria.
Per questo dico che non lo so, tuttavia conosco e sono partecipe dell'apprensione tua e di chi ti vuole bene e di tutti coloro che vivono una simile vicenda, specialmente in questi giorni che precedono la festa e in cui tutti corrono e nessuno si ferma.
Tu a fermarmi mi hai costretto e lo considero un dono, che contraccambio abbracciandoti idealmente e dicendoti che non sei sola, anche se sola ti senti, come chiunque passa dalla soglia stretta e spinosa della malattia.

domenica 8 dicembre 2019

Se salgo lo trovo (Superpoteri femminili)


Per fortuna Dio o chi per lui ha concesso a ciascuno di noi almeno un difetto (con me tra l'altro è stato generoso, abbondando) affinché nello sperimentare i propri limiti non si sia troppo severi nel giudicare l'altro.
Ad alcuni però, in particolare ad alcune donne, ha concesso pure dei superpoteri, che l'Uomo Ragno al confronto è un imbranato.
Qualche esempio, limitato all'esperienza personale nel perimetro domestico.
-  "Metti il sale" (variante: butta la pasta)
Lei mette il sale o butta la pasta e pesa gli ingredienti "ad occhio". Ed è sempre giusto! Io l'ultima volta che ho obbedito gettando nell'acqua bollente "due manciate di penne", come mi era stato esplicitamente chiesto, abbiamo patito la fame (e ho pure le mani grandi!) e quel poco era insipido.
- "È nell’armadio" (variante: se salgo e lo trovo...)
Non esiste indumento che non si trovi al posto corretto, quasi sempre nell'armadio. Il fatto è che io non lo trovo. Osservo, sposto, cerco, risposto, ricerco... Nulla. Il vuoto. Al che mi arrendo e grido: "Qui non c'è, giuro". Al che la sua risposta è sempre la stessa: "Guarda che se salgo e lo trovo". Sale. E lo trova. Qualsiasi cosa sia. Sempre. Subito.
- "Compragli una maglietta" (variante: taglia dodici anni)
Un po' come per il sale e la pasta, anche per le taglie degli indumenti ha un occhio clinico. Io se entro in un negozio e acquisto una t-shirt per un bambino di dodici anni, che dunque dovrebbe indossare una maglietta misura "dodici anni" torno a casa con un lenzuolo matrimoniale, che sta largo pure a Platinette o con un francobollo di tessuto che al dodicenne arriva a malapena all'ombelico.
- "Piega i vestiti" (variante: metti in ordine)
Le camicie manco mi ci metto: uso l'appendino e le lascio stese, nel guardaroba. Magliette e felpe sono un incubo. Lei in tre mosse piega e sistema ogni cosa, riducendola a uno spessore di qualche millimetro, io mi impegno e sudo come per completare un origami giapponese dalla forma di fenicottero e alla fine avanza sempre una manica, c'è sempre una piega, sembra sempre una sfera o un bauletto, qualsiasi capo tento di sistemare nel cassetto.
- "Assaggia se è cotta" (variante: non lo è mai o lo è troppo)
Mentre l'acqua bolle con la pasta dentro da qualche minuto, lei intinge le dita pescando rigatoni o penne o spaghetti quasi direttamente dalla pentola oppure da un cucchiaio apposito, mostrando insensibilità delle mani e anche al palato, poiché lo spaghetto o la penna o il rigatone se lo infila subito in bocca, assaggiandolo a una temperatura che persino il dio Vulcano riterrebbe fuori posto. Lo stesso vale quando beve il caffè o sorseggia la minestra, appena tolta dal fornello. Io l'ultima volta che, per sbaglio, l'ho fatto, ho avuto le labbra di Angelina Jolie per un plenilunio.

Per fortuna ci sono anche i difetti. Limitandomi a casa nostra elenco questi.
- Spesa fatta di fretta, con prodotti acquistati a caso (abbiamo bevuto per una settimana litri di "bevanda al gusto di latte senza lattosio" invece di pacifico latte, mangiato würstel che sarebbero dovuti essere normali invece avevano il ketchup extra piccante dentro, usato un flacone da litro di "shampoo per i capelli tinti di rosso". E molto altro)
- Chiama mille volte il figlio o la figlia, urlando, e quando lei o lui risponde, lei replica: “Nulla, volevo soltanto sapere se c’eri”.
- Grida: "A tavola! È pronto....". Ma quando arrivi pronto non lo è affatto e devi aspettare minuti minuti, senza lamentarsi, perché altrimenti dice: "Dovevate cucinare voi allora".
- Spalanca le finestre al mattino facendo entrare il vento del nord (“Winter is coming “), incurante di chi ha cicli di vita e percezioni diverse dalle sue, che ha freddissimo la sera e al mattino sempre caldo.

 P.S. Annoto tutto questo con ironia e ammirazione, non per un vezzo o desiderio di riscatto, bensì per esperimento scientifico: valutare tra qualche anno se si tratta di talento innato o, come suppongo, di abilità che si tramandano di generazione in generazione, da madre in figlia. Giorgia infatti ora è stupita quanto me, ma tra vent'anni sono quasi certo avrà superpoteri che ora neanche immagino.

sabato 7 dicembre 2019

Rassegnati alla meta (La gentilezza salva il mondo)


"Dai, che sei alto due metri" ti hanno detto, dopo che sei finito a terra, colpito da uno più piccoletto, che nel saltare ha puntato il gomito, centrandoti al costato.
Tutto normale, se te l'avesse gridato un avversario, l'allenatore, un tuo compagno.
Invece no, a dirlo è stato l'arbitro, un ragazzo più o meno della tua età. Ti sei rialzato scuotendo il capo, arrabbiato, restando zitto, perché ti conosco, ma con gli occhi rassegnati, e li ho notati sempre per lo stesso motivo: ti conosco.
In quell'istante, lo ammetto, sono stato tentato di urlare, di mandare a quel paese il direttore di gara, smentendo anni di teorie e pratica del silenzio, di sostegno incondizionato per chi si rende disponible con giacchetta e fischietto, venendo quasi sempre insultato, a volte persino aggredito, mai o quasi mai ringraziato.
Così mi sono morso la lingua, rassegnandomi anch'io, per cui lezioni oggi non ho da dartene, figlio mio, avendo fatto passare una settimana da quanto accaduto per ribadire il primato della ragione sull'istinto, ricordando che l'unica reazione comprensibile ed efficace, in casi come questo, è dimostrare il proprio valore sul campo, vincendo le partite, non lamentandosi invano.

Altra scena, altro figlio, dodici ore prima, in piena notte, alla fermata del bus, in un paese straniero.
Alle otto del mattino avevamo l'aereo per tornarcene a casa, ma una serie di lavori stradali e la disorganizzazione del servizio informazioni ci avevano indotto a partire dall'appartamento alle tre di notte, poiché per essere certi di trovare un collegamento con l'aeroporto dovevamo tornare dalla periferia della città verso il centro.
Invece, dopo un quarto d'ora di cammino, un bus della medesima compagnia con cui avevamo prenotato (National Express), praticamente vuoto e diretto alla stessa nostra meta, sta per partire dalla fermata che in teoria - secondo quanto avvisato la sera precedente da loro - nessun mezzo sarebbe passato. Apriti cielo. Più contenti di Mosè nel varco creato dal mar Rosso mostriamo il messaggio ricevuto sul cellulare e il biglietto a un marcantonio di autista (sarà stato alto... due metri), calvo come una boccia da biliardo, senza che questi ci degni nemmeno di uno sguardo. "Non mi interessa, dovete aspettare" ci dice, prepotente, incurante delle proteste, prima garbate e poi imploranti, infine degne del più colorito italiano. Nulla, le porte automatiche si chiudono e noi due restiamo lì, valige in mano.
In quel caso però la rabbia è sbollita in breve tempo, giusto i minuti per telefonare all'ufficio reclami (aperto sempre, pure in piena notte) e ascoltare le scuse del povero operatore e camminare un altro mezzo miglio, dove abbiamo trovato un autista più umano.

Due episodi, diversi, con una morale comune: chi esercita un potere non soltanto non dovrebbe essere esente da gesti di gentilezza, ma dovrebbe praticarli proprio, poiché costano poco o nulla e rendono felice chisi incontra sul cammino.
Quando capita a me di essere dalla parte del più forte, vorrei sempre rammentarlo.

P.S. L'episodio del bus mi ha suscitato pure un altro sentimento. Io e Giovanni in quel caso rischiavamo poco, ma mi sono messo nei panni dei genitori che scappano con i figli dalla guerra o da condizioni di pericolo e incappano nella freddezza altrui, in chi è incapace di tendere una mano. Mi è venuto in mente Milan, il nostro Milan, quando è fuggito con suo padre dalla Croazia dilaniata dal conflitto dei Balcani, e insieme a lui molte persone che incontro per strada, ogni giorno, senza sapere cosa hanno provato, quale trattamento hanno ricevuto. Oppure Primo Levi, Anna Frank, Aleksandr Solženicyn, Luís Muñoz, i racconti della persecuzione, le retate, lo sterminio, in ogni epoca e luogo. Davvero spero che Giovanni abbia imparato qualcosa, in quella notte fredda, mentre attorno era tutto buio.

domenica 17 novembre 2019

Il dono della piantina (Far crescere, scomparendo)

L'hai raccontata così, un po' riferita, un po' inventata, la storia del grande albero e della piantina cresciutagli accanto, al riparo, protetta e al tempo stesso costretta, limitata nella crescita, fino al giorno della tempesta, del vento, dello schianto per il tronco secolare, che ha esposto l'arbusto smilzo agli sbalzi del meteo, ma nel contempo concedendogli luce e nutrimento, permettendo ad esso di crescere, che prima era impedito.
Eri seduto al tavolo della cucina, io terminavo la cena da solo, arrivato come al solito in ritardo. Tu a capotavola, hai voluto fermarti, chiacchierare, tenermi compagnia. Non accade spesso, ma come per gli altri figli ho imparato a rispettare i tempi, a non forzare le situazioni, cogliendo piuttosto al balzo le occasioni offerte, le eccezioni alla regola del procedere sul proprio binario, senza interscambio alcuno, se non quello convenzionale, della buona creanza, dei convenevoli classici, quando si chiacchiera senza entrare davvero in contatto.
Ti ho ascoltato con attenzione. Con i tuoi non ancora dodici anni sei tuttora per molti aspetti un soldo di cacio e spesso provo una vertigine pensando a quanto dolore la vita ti ha già messo nello zaino, al vuoto che immagino tu avverta di tanto in tanto, magari quando resti solo, nel tuo letto, eppure hai un garbo, una sensibilità, una capacità di empatia fuori dal comune, un dono, in tutto e per tutto.
Nel momento in cui te l'ho detto, che sei un dono, l'altra sera, in risposta al tuo racconto, mi hai guardato con occhi ampi, fissandomi, volendo quasi pescare nei miei per cogliere il tono di quel commento e non soltanto il contenuto, aggiungendo una sola parola, con un punto interrogativo: "Davvero?".
Sì, davvero. Hai un dono grande, un talento che la natura, i geni delle famiglie da cui provieni ti hanno dato e che coloro che ci hanno preceduto - penso in particolare ad Elisabetta e Stefano - hanno contribuito a temprare, come si fa quando si lavora il metallo, modellandolo quand'è caldo. Spero di aiutarti pure io a custodirlo, ad alimentarlo, ma già così è "tanta roba", come direbbero Giorgia o Giovanni. Già così è un regalo che fai a noi, che la piccola piantina insegna al grande albero.

P.S. Il racconto della piantina e dell'albero vorrei arrivasse a coloro che convivono con la lacerazione del lutto. A una persona in particolare, a cui sono legato fin da quando ero ragazzo e che sta passando giorni neri più che bui, alzandosi al mattino e accudendo i figli e riassettando la casa e recandosi al lavoro apparentemente come tutti gli altri giorni della sua vita, in realtà con la luce spenta dentro, con sul cuore un peso che al tempo stesso è una smorza, un muro altissimo, che impedisce non soltanto di sorridere, ma anche di guardare e pensare al futuro. La morte di chi ci ha preceduto e cresciuto ha il fragore e l'irruenza del tronco che precipita a terra, della tempesta che lo sradica e pare decretare anche il nostro abbattimento, la fine di tutto. Non è così. Anzi, quello stesso albero, una volta al suolo, continua ad esserci utile, non più riparandoci, bensì decomponendosi, disgregandosi, donando gli elementi necessari alla nostra crescita, ecco perché va tenuto accanto, accettandone il peso, e non rimosso. Lo so che il dolore che si prova e brucia è reale, tangibile, autentico, mentre queste sono soltanto parole, ma le parole - per chi le vuole ascoltare - hanno un potere intrinseco, curano, e a tacerle non è quello che fa chiunque pretende di definirsi amico.

sabato 9 novembre 2019

Muri, ponti e gentiluomini (La lezione di Marino)


Per un muro che cade, cento se ne costruiscono, ogni giorno.
Vista la ricorrenza di oggi, non è un esempio a caso.
La maggior parte però non sono pietre né mattoni messi con discernimento: spesso, quasi sempre, si tratta dei così detti "errori involontari", quegli sbagli non intenzionali ma che finiscono inevitabilmente per fare danno, pur senza volerlo.
Quanto livore, rancore, disappunto, quanta delusione e ira eviteremmo se tra i molti pregiudizi che abbiamo aggiungessimo questo: considerare l'errore altrui come frutto di un inciampo, una svista, un eccesso di superficialità, una scarsità di sensibilità o conoscenze e non di un disegno preciso, di un atto malignamente architettato.
Credo sia questo un modo efficace per distruggere molti dei muri che si erigono e nel contempo gettare le basi di quei ponti che a voce tutti auspichiamo e pochi nel concreto innalziamo.

Cambio scenario, pur restando in argomento.
Sentenziava Totò: "Signori si nasce e io modestamente lo nacqui". Lo nacque anche qualcun altro.
Marino Magrin fu a suo tempo giocatore diligente e di talento, professionista in molte squadre di calcio, ricordato soprattutto per aver vestito la maglia numero dieci della Juventus la stagione successiva a quella in cui "Le Roi" Platini annunciò il ritiro.
Tre giorni fa ho realizzato chiaramente perché piacque a Boniperti, dirigente spartano e primo ministro plenipotenziario della società che aveva l'avvocato Agnelli per monarca assoluto.
L'episodio che mi ha illuminato è stato questo: una telefonata ricevuta subito dopo aver concluso il tg. Era lui, Marino, ospite fisso di BgTv degli appuntamenti dell'Atalanta in Champions e per una volta assente, perché voleva essere allo stadio ad assistere alla sfida con il Manchester City, insieme con il figlio che proprio quel giorno avrebbe festeggiato il compleanno. "Giorgio, ti disturbo? - ha esordito - volevo soltanto sapere come stai e scusarmi se domani non potrò esserci". "Ma Marino, figurati - gli ho risposto - ci mancherebbe altro, mi avevi già avvisato e sono contento per te, non dovevi disturbarti a chiamare". E lui, a chiosa di tutto: "Non dirlo neanche per scherzo, una telefonata, sentirti di persona, è il minimo".
Questo è l'uomo (che da noi viene a sue spese, non prendendo neanche un euro, è bene precisarlo), questa è la lezione che mi ha dato. Una telefonata, al giorno d'oggi, è come il sorriso della poesia di Gibran: "Arricchisce chi la riceve, senza togliere nulla a chi la dona".

Quando pensiamo ai muri da abbattere e ai ponti da costruire non andiamo lontano: basta considerare involontarie buona parte delle mancanze altrui e praticare piccoli gesti di buona volontà per unire, più di quanto immaginiamo.

P.S. Che Magrin fosse un signore già lo sapevo. Me l'aveva detto un tifoso dell'Atalanta con i capelli brizzolati, incontrato per strada e che mi ha fermato per dirmi che quando era ragazzo suo padre lo portava agli allenamenti della prima squadra e l'unico che si fermava sempre, che stava con i tifosi e firmava autografi e ascoltava tutti era proprio lui, Magrin, Marino.

martedì 5 novembre 2019

Se non ci fossi tu (Il buono che è in noi)


Se non ci fossi tu, bisognerebbe inventarti, ma inventandoti non riuscirei comunque a pareggiare la simpatia, l'originalità, la bellezza del ragazzo che sei, con i tuoi diciassette anni oggi e il ciuffo castano chiaro, gli occhi scuri, come i miei, come il lato della famiglia a cui appartengo, il sorriso unico, gli scatti di altruismo e pure di carattere, mai piatto, banale.
Se non ci fossi tu, la vita sarebbe come il lago d'inverno, un televisore senza audio, la casa a cui manca un tetto, il risotto insipido, il camino freddo, Instagram prima delle "Stories" e un cellulare con pochi giga, che questi paragone forse li capisci meglio.
Se non ci fossi tu, sarei più piccolo, più grigio, più povero, più ingobbito, più avaro, più scorbutico, più tignoso, più inquadrato, più triste, più malinconico, più pigro, più vecchio, e tutti questi più sarebbero un grande meno.
Se non ci fossi tu, guarderei con minore fiducia al futuro, mi aggrapperei con forza alle poche certezze dell'essere umano, scordando che è la speranza in qualcosa di infinito, di eterno, il tratto distintivo delle persone che siamo.
Se non ci fossi tu, avrei smesso di seminare empatia, di preoccuparmi che sappia metterti nei panni dell'altro, comprenderne i desideri, le emozioni, le ragioni, di creare legami, relazioni, essere perspicace, andare avanti, non fermarti di fronte a un ostacolo.
Se non ci fossi tu, mi vestirei da anziano, non guarderei film che invece meritano, ascolterei la stessa musica che andava di moda quand'ero ragazzo, non riderei per i "meme", eviterei di rispondere a domande che mi aprono un mondo.
Se non ci fossi tu, non ci sarei io, l'io che sono diventato, un uomo fortunato.

P.S. Avere figli non è un merito, è un dono. Conosco moltissime persone generative che per scelta o indipendentemente dalla loro volontà non sono madri e padri. Mi piace pensare alla paternità e alla maternità non come un fatto privato, bensì in relazione a una comunità, alla società degli esseri umani, nel loro complesso. In questo senso bambini e bambine, ragazzi e ragazzi, uomini e donne, non sono figlie e figli miei, tuoi, loro, bensì nostri, nostre, di tutti. E il buono che c'è, in questo mondo, è proprio perché con compiti diversi ma con eguale valore li facciamo crescere, aiutandoli a capire qual è il loro posto e a diventare possibilmente migliori di come noi siamo.

domenica 3 novembre 2019

Il quinto vuoto (Quando la natura è maestra)


Una distesa infinita, ondulata, sabbia e sabbia e sabbia per chilometri e chilometri, sabbia rossa, cotta, fine, che s'infila nelle scarpe e cede sotto i piedi, rendendo ogni passo uno sforzo, fatica.
Il deserto, il suo spazio fisico, mi lascia sempre sgomento, intimorito, un'inospitalità letale per l'uomo, con il sole a picco sulla testa e zero verde, niente acqua.
C'è un'altro universo però, quello dello spirito, che innanzi al deserto ammutolisce, si interroga.
Il quarto vuoto. Lo chiamano così nella penisola d'Arabia, intendendo "la quarta parte", insieme con cielo, mare, terra. Me lo ha raccontato una persona sensibile, che sa andare oltre l'apparenza e che in quel deserto in questi giorni c'è stata.
"Il quarto vuoto" è un'espressione bellissima, due gocce di sapienza distillate in centinaia e centinaia di anni da popoli che vivono al cospetto di tanta maestosa e temibile grandezza.
La associo a una frase di Bernardo di Chiaravalle ("Troverai più nei boschi che tra i libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà") per ricordare che esiste, deve esistere, una dimensione contemplativa della vita.
Se ottobre l'ho dedicato alla scrittura quotidiana, vorrei che novembre fosse il mese dell'osservazione e dello stupore per ciò che ci circonda, senza fretta, ritagliandomi un "quinto vuoto", quello dentro me, un luogo che a ciascuno è stato dato in dono dalla nascita, ma raramente si abita, sacrificandolo alla superficialità, agli impegni, alla fretta.

P.S. La frase di San Bernardo mi piace perché spiega il motivo per cui le persone semplice spesso sono sagge e, con un po' di immodestia, dà valore ad alcuni post pubblicati in questo blog, sulle lezioni della natura.

sabato 2 novembre 2019

Alba chiara (Grida senza risposta)


L'ho ritrovata dopo anni, sentendomi parecchio in colpa, per non essere andato a trovarla prima, per non essermi ritagliato il tempo e la voglia necessaria.
Albina è prima cugina di mio padre, nata in Valtellina e innestata in Piemonte, in paesi sparsi tra Borgomanero e Varzo, con tutto quel ramo della discendenza.
Quando ero bambino non passava anno o due in cui non prendessimo l'auto, attraversassimo il lago Maggiore in traghetto, e facessimo visita ai parenti.
La modernità ha portato la comodità dell'autostrada e tolto l'abitudine buona della riunione di famiglia, complice la falcidie di lutti che ha estirpato poco alla volta ma inesorabilmente una generazione intera, quella della parentela più stretta.
Tranne Albina. Quando l'ho chiamata, prima di bussare alla sua porta, per avvisarla, ha risposto dolcemente, salvo poi chiedere consiglio alla vicina e chiamare per sicurezza a casa mia mamma, spiegando che "al giorno d'oggi può essere anche un truffa".
Non ci vedevamo da anni, l'ho ritrovata d'una dolcezza infinita, pure se oltre la limpidezza degli occhi c'era un muro, la barriera del dolore, della sofferenza inconsolabile, quella che continui a respirare e bere e mangiare e vedere la tv e parlare con la gente ma la tua vita è finita.
Albina, uno dopo l'altro, in un lampo, ha perso i due fratelli e i due figli, uno stillicidio di disgrazie da far perdere la testa.
Sentirglielo raccontare, a ciglio asciutto - perché anche le lacrime a furia di scorrere hanno inaridito la sorgente di provenienza - è stato straziante.
L'ho ascoltata come avrebbe fatto mio padre, una mano sulla fronte e a occhi chiusi, di tanto in tanto indicando sì con la testa, compreso quando ha parlato della fede, di quanto è arrabbiata e delusa da Dio, da come si sente lontana.
Non suonava come una bestemmia, tutt'altro: aveva il suono della disperazione, era il grido di Giobbe, dell'essere umano che non trova giustificazione, risposta.
Di fronte a lei mi sono sentito piccolo piccolo, uno gnomo che ha costruito la sua casa sulla sabbia, colui che vede la precarietà delle proprie certezze, del marinaio che viaggia spedito e sicuro di sé soltanto perché ha il vento in poppa.
L'ho ricordato quest'oggi, in uno di quei giorni che la tradizione ha fissato in calendario per ricordarci che molto traballa e tutto passa e per quanto i nostri affanni siano unici ed originali, fanno eco a quella che è da sempre, incessantemente, la condizione umana.

P.S. Il vuoto di Albina è immenso, eppure c'è chi lo riempie o tenta di riempirlo, con presenza, costanza. Sono le persone che le stanno vicino, a cominciare dalla nipote Claudia e dai figli dei suoi fratelli, che conosco a malapena ma a cui sono legato non soltanto dal sangue, pure dalla riconoscenza, perché danno contorno e forma e consistenza alla virtù della speranza.

giovedì 31 ottobre 2019

L'ultima pagina del libro (Questo)


Questo blog, il mio lascito. Perché è vero che non sono altro che fogli di carta in un bidone che brucia, ma a differenza di soldi, palazzi, gioielli ed oro, queste parole raccontano di me, di questo tempo, rendendolo in qualche modo vivo.
Il primo ottobre scorso, in occasione del dodicesimo anniversario, mi ero ripromesso di tornare a scrivere con assiduità, un post al giorno, per un mese di fila.
L'ho fatto.
Un poco arrugginito all'inizio, più disinvolto nella scelta degli argomenti e nella stesura dei testi man mano che i giorni passavano, ricordando una delle regole principali di ogni mestiere, compreso il mio: per fare una cosa non c'è miglior modo che farla.
Trentun giorni, trentuno argomenti, trentuno spunti, alcuni pubblicizzati poco, altri nulla, qualcuno molto, messo su Twitter e su Facebook, ammorbando coloro che passano di lì e ogni tre per due trovavano la mia postilla (mi ha fatto assai sorridere David, con la sua consueta ironia: "Ma che logorrea tieni in questi giorni? Non riesco a starti dietro con i like").
Da domani me la prenderò con più calma, senza tuttavia farmi vincere dalla pigrizia.
Dico spesso che non ho ancora pubblicato un libro, ma mento. Questo blog è già di per sé un libro, anche se l'ultima pagina è quella che non ho ancora scritto.

P.S. Sono grato a questo blog, anche perché è un pretesto: per osservare meglio le cose, per riflettere sui giorni che passano e ciò che mi capita, per dialogare con me stesso e con gli altri, soprattutto per fare quanto ogni volta mi prefiggo: posare lo sguardo.
"Posare lo sguardo", vedere "veramente", in particolare la persona che mi sta dinnanzi, sia esso qualcuno che conosco benissimo e frequento abitualmente, sia chi intervisto per lavoro, chi incontro casualmente al bar, per strada. "Posare lo sguardo" è uno stile, un punto fermo, ciò che mi qualifica e fa di me un essere davvero umano.

mercoledì 30 ottobre 2019

Lucky man in the Sky (Noi due)


Sei voluto venire con me, perché sei curioso di natura, ed è ciò che più mi rassicura, oltre che inorgoglisce, riguardo la tua vita, la tua crescita.
Ti ho intravisto mentre leggevi, nella guardiola che nell'enorme Sky fa da portineria.
I tuoi occhi, una volta entrati, sono stati per me una panacea. Guizzavano di interesse, di meraviglia, senza infantilismi, con quella serietà che caratterizza i tuoi ventidue anni e una solidità che spesso ti invidio, anche se la noto io, mentre tu difficilmente ne hai consapevolezza, essendo sempre così, generazione dopo generazione: il futuro tranquillizza soltanto quando lo guardiamo dalla coda, quando ormai abbiamo superato l'incertezza e il fiume ampio da cui, oggi, fatichi a vedere da riva a riva.
Abbiamo incontrato di sfuggita parecchi personaggi che entrano nelle nostre case ogni giorno, ogni sera. Fabio De Luigi, Francesco Facchinetti, Leo Di Bello, Giorgia Cenni, Sara Benci, Massimo Marianella, Gianluca Di Marzio... Li hai osservati tutti, hai scattato qualche foto senza farti notare, hai postato un paio di storie su Instagram e poi siamo tornati insieme, in auto, un ora e mezza di chiacchiere, come non capita spesso ma neppure di rado, rispettando i tuoi tempi.
Mi hai fatto un regalo. Oggi pomeriggio, in mezzo a molta gente di fama, di successo, il più ricco, il più fortunato, mi sentivo io: altro che i clienti abbonati extra.

martedì 29 ottobre 2019

RisorTweet (Dodici anni social)


C'è stato un tempo in cui questo blog era esclusivamente un estensione del lavoro, uno luogo di sperimentazione e di narrazione di ciò che si sarebbe rivelata l'alba di una nuova era, quella digitale, con i social che facevano capolino già facendo intuire le potenzialità che avevano, che tuttora hanno.
Lo scrivo oggi poiché è l'ottavo anniversario della mia iscrizione a Twitter, un social media che qualche hanno fa ho abiurato, dandolo per spacciato. Mi sbagliavo. Non che adesso sia convinto del contrario, tuttavia ammetto che sopravvive florido, avendo rinunciato ad essere di massa e ritagliandosi il ruolo che un tempo era delle agenzie di stampa, dando megafono a chi voce ha già e non più bisogno di giornali, tv, radio.
Da quel tempo, dodici anni fa, è rimasto vivo e vegeto soltanto Facebook, anche se settimana scorsa ho sentito dire da un collega che entro due anni chiuderà: non ne sono convinto. Instagram invece è fenomeno più recente e veleggia florido, mentre molti altri hanno vissuto il tempo di una stagione, piegandosi a una selezione naturale che riguarda tutti gli ecosistemi, non soltanto quelli biologici.
Intanto, proprio per ricordare quei tempi, metto il link al post intitolato "Un mese da orso", pubblicato esattamente dodici anni fa, in cui raccontavo l'approccio a quel nuovo mondo digital e social, account Twitter compreso.

lunedì 28 ottobre 2019

Tu e lui (Come vedersi adulto)


Aspettavi di vederlo da che te ne ho parlato, cinque giorni addietro, quando avevi ascoltato la sua storia e collegata alla tua, specialmente dopo che ti ho detto che la prima volta che ho incontrato te assomigliavi a lui, a Milan, bambino, lo stesso faccino pulito, serio, da ometto, il corpo esile, alto, asciutto.
Il giorno prima che arrivasse mi hai fatto cento domande, quasi buttate là, come distratto, per non dare l'impressione che ti interessasse davvero.
Poi l'incontro, a mezzogiorno di sabato, lui in piedi in cucina, sotto, due metri d'uomo, tu entrato dopo aver fatto la spesa, un soldo di cacio, con un sorriso da orecchio a orecchio, un filo imbarazzato e più che altro ammirato, da quella pertica di ragazzo, solare, moro, bello.
Non ne abbiamo più parlato ma io so perché lo aspettavi, perché nel vederlo eri così contento: in lui aspettavi di vedere te, tra vent'anni, una sorta di salto rassicurante nel tempo, perché se ce l'ha fatta lui puoi farcela pure tu. Una sensazione confermata dalle domande che con discrezione, nelle ore successive, gli hai fatto.
Che numero di scarpe portava alla tua età? Quanto era alto? Era vero che era timido e parlava poco?
Lui ti ha risposto con pazienza, con quella luce negli occhi che fa da contrasto alla voce profonda, calma, da basso.
Sono contento che vi siate conosciuti, lui è la testimonianza che l'albero buono non teme bufera, tempeste, fulmini, vento. Ciò non significa indifferenza, assenza di riguardo, protezione, specialmente quando l'essere umano è appena un germoglio, tuttavia aiuta a mettere a fuoco le priorità, l'attenzione al carattere, alla capacità di empatia, alla sensibilità, a tutto ciò che irrobustisce la pianta, rendendola forte, radicata nel suolo.

domenica 27 ottobre 2019

Un odio accecante (E come è stato sconfitto)


"Blinding hate". Un odio accecante. Così lo chiama Milan, mentre racconta chi era e cosa è diventato, anche grazie alle terribili esperienze che ha vissuto.
La storia di Milan e di come mi sia "fratello per dono ricevuto" l'avevo già raccontata, meno di dieci anni or sono.
La sintesi è che aveva dieci anni giusti giusti quando per la guerra nei Balcani dovette scappare da casa, con suo padre da una parte e sua madre e le sue sorelle d'altra, via dalla Croazia in cui aveva sempre abitato, a motivo delle sue origini serbe, pur se la famiglia si era stabilita pacificamente lì una generazione addietro.
Per un ricciolo del destino fu ospite a casa nostra alcune settimane, poi altri mesi, l'anno successivo. Era la metà degli anni Novanta, lui alto alto e con un volto serio, che raccontava più delle parole cosa gli stava capitando.
I contatti da allora non si sono più interrotti e non capita di raro che venga a trovarci, ora ch'è diventato due metri d'uomo e lavora come ingegnere in Irlanda ed è sposato e mantiene intatta la bellezza del viso, che si apre in un sorriso disarmante. Un sorriso che quando venne la prima volta aspettammo moltissimo prima di vederlo.
"Se non fossi stato qui, se non avessi vissuto quell'esperienza di accoglienza e di amicizia, non sarei ciò che sono ora - mi ha detto ieri, mentre lo guardavo dal basso in alto, sentendomi ancor più piccolo di quanto sia al suo cospetto - e soprattutto credo che avrei provato un odio accecante, che mi avrebbe lacerato".
"Blinding hate". La furia dei disperati in fuga, di coloro a cui è stato tolto tutto, saccheggiata ed espropriata la casa, recise le radici, le amicizie, di quanti devono ripartire da capo, con nulla, poveri tra i poveri, stranieri tra gli stranieri (perché questo era la sua famiglia, una volta arrivati a Belgrado, in quella che è la sua nazione d'origine ma che nel frattempo ne aveva fatto a meno e non sapeva poi come gestire quell'esodo, diventando tutto più angusto, più stretto).
Milan ce l'ha fatta, ha trasformato tutto quel dolore in un trampolino, ha imparato a vedere nell'altro non un estraneo, un nemico, bensì un altro essere umano, che come lui ha un cuore, dei sogni, uno zaino sulle spalle, a volte greve, altre leggero. A conferma che persino le prove più dure non piegano l'albero buono né impedisce ad esso di produrre frutto e seme sempre nuovo.

(Quando sono preoccupato per il futuro dei miei figli, per le privazioni o delusioni o difficoltà che potrebbero incontrare, penso sempre a Milan, così come a mia madre e a mio padre e a tutti coloro che sono cresciuti ad ostacoli, uscendone rassicurato e convincendomi che più che metterli al riparo dal mare burrascoso devo badare a far sì che imparino a stare a galla e nuotare fino al porto).

sabato 26 ottobre 2019

Ultima fila (Lì c'è Paolo)


Mai dire "Te l'avevo detto", sempre stare accanto.
"Un modo di essere, uno scegliere di metterci al fianco, senza rinunciare ad esprimere cosa vediamo da quel punto di vista, a raccontare la nostra esperienza, sperando che possa essere illuminante, evitando imposizioni, assumendosi un rischio".

Lo spiega Paolo Ferrari, una persona fuori dal comune, con cui ho la fortuna di collaborare da qualche anno, contribuendo a realizzare qualcosa di nuovo, utile, bello.
Il piacere maggiore, per me, è proprio stargli accanto, perché non è mai banale e ha una capacità unica nell'individuare il percorso educativo e un rigore fermo nel mettere sempre al centro il ragazzo, il suo cammino.
Il bello invece è che da un paio di settimana, invece di limitarsi a "fare", ci si ferma anche per "dire", per mettere nero su bianco i principi che lo ispirano, le lezioni che a sua volta ha imparato, ciò che l'esperienza nel bene e nel male ha partorito.
Per chi ha figli adolescenti, ma non solo, mi permetto di consigliare una sbirciatina, ogni tanto, ai suoi articoli, che di tanto in tanto posterò anche qua, linkandoli.
Questo ad esempio è il primo e afferma il principio secondo cui gli adulti sono sempre e comunque educatori ed il punto non è cosa facciamo, bensì se siamo credibili o meno.
Il secondo è quello che ho citato all'inizio e che qua si trova in versione integrale, garantendo che è corto e si legge in un fiato.

P.S. Il suo blog si può leggere anche se L'Eco di Bergamo e ha un nome curioso: "Ultima fila", poiché  generalmente soltanto se ci si siede in fondo si riesce ad avere uno sguardo ampio, attento, su tutto.

venerdì 25 ottobre 2019

Il frutto del ciliegio (Mattoni di memoria)


Li ho messi da qualche parte, non li trovo né li cerco: alla possibile delusione del certo preferisco il tempo sospeso, quello del possibile ritrovamento.
Saranno stati una trentina i trentatré giri che avevo e che forse ho tuttora, da qualche parte, magari ben conservati, forse da buttare per colpa del tempo, del caldo, di una conservazione malsana, dovuta al non aver creduto al loro ritorno, quando il cd era l'astro nascente mentre ora va incontro anch'esso a un rapido declino (sulla mia auto, per dire, neppure lo prevedono).
Quei dischi ampi, di vinile, con le copertine di cartone rigido, hanno segnato il confine tra il bambino e l'adolescente che ero, al liceo.
Qualcuno lo avevo comprato pure prima, ma in formato quarantacinque giri, che bastava il "mangiadischi" arancione per ascoltarlo, lo stesso con cui sono cresciuto, mettendo e rimettendo migliaia di volte le "fiabe sonore" o Coccobill, il mio preferito.
C'erano pure le canzonette, quelle comprate dai miei genitori, Gianni Morandi con Bella Belinda, Partirà la barca partirà di Sergio Endrigo e molti altri.
"Grease" di Frankie Valli fu l'apice di quella stagione, il primo che acquistai io, da Gastone, il rivenditore di elettrodomestici in via Varesina, un milanese sfollato durante la guerra e che aveva aperto trovato al mio paese un negozio.
"Questo è l'ultimo che è uscito" diceva sempre, pure quando sulla copertina c'era polvere alta un dito, noi ci vendicavamo dicendo che era tirchio e in casa lo chiamavano "Tone" per risparmiare il "Gas".
Poi venne lo stereo, un Sony credo, un parallelepipedo basso, una ventina di centimetri, con il piatto per i trentatré giri ed insieme ad esso Giorgio, fratello del mio migliore amico, tornato da Londra dove era andato terminate le superiori, a fare il barista, quando non esisteva ancora l'Erasmus e viaggiare un affare avventuroso, oltre che serio.
Fu lui che portò il "verbo", la musica come appartenenza, simbolo, non più soltanto svago.
Elton John, gli Eagles. Comprai i loro long playing, smisi di essere bambino. Tra gli italiani uno su tutti, Bennato, che fu pure il primo che vidi in concerto, a Cantù, accompagnato da Giampietro, il ragazzo più grande, la guida, l'educatore in oratorio.
Ed ora che su Amazon Prime Music ho ritrovato in formato Mp3 gli album di quel tempo ("Madman across the water", "Honky Chateau", entrambi di Elton John) mi capita di ripensare a quegli anni, aprendo brecce e fessure nel muro che nel frattempo s'è costruito, infrangibile per la memoria nella sua interezza ma che può crollare a pezzi ampi, se si ha la pazienza di raccontare, scoprendo che ogni ricordo ne richiama un secondo e un terzo e un quarto, come il frutto del ciliegio, che uno tira l'altro.

giovedì 24 ottobre 2019

Nel nome del figlio (Un problema di coscienza)


Due indizi non fanno una prova, però se scrivo ogni giorno è più arduo omettere tutto ciò che concerne il mestiere che faccio, le questioni che altrettanto quotidianamente affronto.
L'antefatto. Nei giorni scorsi sulla tangenziale di Milano c'è stato un incidente in cui sono morte due persone, tra cui un bimbo di cinque anni. Molti giornali hanno riportato la notizia, alcuni di essi hanno omesso il nome e cognome delle persone coinvolte, qualche collega ha dichiarato la sua perplessità, richiamandosi al fatto che dare nome e cognome è sempre stata una regola del buon giornalista, sui social si è scatenato un parapiglia, con buona parte degli interventi che davano al suddetto collega dello sciacallo, della iena.
Dare il nome e cognome. Una questione delicata, che mi sta a cuore e che vorrei fosse affrontata "laicamente", cioè interrogandosi con serietà sui criteri, sulle motivazioni, anche alla luce delle nuove sensibilità e non scegliendo la via più comoda (che sovente è non mettere nome e cognome per pigrizia, per sciatteria).
Il tema è guardare alla luna e non limitarsi al dito che la indica, schierandosi da una parte o dall'altra.
Personalmente credo che sia essenziale - fatta eccezione per i casi già presenti nei manuali di deontologia - mantenere la regola di fornire le generalità delle persone coinvolte in un fatto meritevole di notizia.
Può non piacere, può costare imbarazzo, dolore, fatica, ma è il nostro mestiere.
Ed è importante non perché, banalmente, si vende una copia di giornale in più o si fa clic su una pagina web, bensì perché esiste una sfera pubblica, una dimensione sociale, comunitaria, dell’esistenza umana e di questa dimensione credo sia giusto dare valore, non annullarla.
Rinunciarvi significherebbe infatti accettare e promuovere una “privatizzazione” estrema, un mondo in cui è garantita la maggior privacy possibile, senza tener conto che il rischio conseguente è quello di individui ignoti, anonimi, soli, in cui nessuno conosce più nulla dell'altro.
Ecco perché a mio parere "dare il nome" non è soltanto un diritto, ma il dovere di un giornalista.
Non darlo, viceversa, non equivale a “rispettare” l'altro. Rispettarlo è raccontare cosa è avvenuto e far conoscere, affinché ne sia fatta memoria, compresa la buona memoria, affinché - nel caso specifico - chi conosceva quel bimbo e anche chi non lo conosceva possa piangerlo. Non è un caso che da che mondo e mondo si dica "partecipare al lutto".
La faccio breve, occorrerebbe un trattato, una discussione lunga, un confronto aperto. Se ce ne sarà occasione mi piacerebbe farlo, se qualcuno è interessato potremmo organizzarlo, anche perché ci sono altri temi simili e forse ancora più spinosi (dare il nome e cognome di chi commette un reato, ad esempio).
Per il momento mi accontento di insinuare il dubbio, di porre la domanda. Che poi è il nocciolo del mestiere del giornalista.

mercoledì 23 ottobre 2019

La nonna bambina (Prima che sia tardi)


"I filari di pomodori sono pronti, così pure i cespi di lattuga, le piantine di basilico, il rosmarino.
La cicoria no, verrà piantata nel fine settimana prossimo venturo.
Vangare l'orto è stato il regalo per la festa della mamma che ho fatto a mia madre. Venti metri quadri di giardino fuori casa che lei, con puntiglio e senza eccessivo entusiasmo, coltiva ogni anno.
La osservavo domenica, alle prese con le erbacce, zappino in mano, distratta per qualche ora dagli acciacchi e dalle malinconie dell'età, mentre pensavo che ci sono feste più ingiuste di altre, poiché figli lo siamo tutti, mentre madri alcune donne non lo diventano, chi per scelta, chi per un capriccio del destino, chi per disgrazia".

Ho ripescato queste parole scritte a maggio di quattro anni fa e sparite, dimenticate in un anfratto da talpa di questa prateria tecnologica.
Mi fanno tenerezza, specie quando descrivono mia madre, la cui età per me s'è fermata in una data indefinita di venti o trent'anni fa.
Lei nel frattempo è invecchiata, io non me ne rendo conto, osservandola settimana dopo settimana e non cogliendo quelle differenze che, ne sono certo, mi impressionerebbero se guardassi due sue fotografie, una scattata dieci anni fa e una ora.
Con lei sono spiccio, sbrigativo, solerte nell'invitarla all'azione, scherzandoci sopra, sostenendo che lo faccio per lei, per tenerla vispa.
La verità è che la gusto poco, resto in superficie, non mi "collego" come dovrei, affinché l'esperienza comune sia intensa, vissuta.
So che lo rimpiangerò, che prima o poi non ci sarà più o non godrà di una salute dignitosa, e me ne pentirò, mi renderò conto di tutti gli "avrei potuto" sprecati, scivolati via.
Rimediare ora, ripromettersi chissà quali cambi di rotta so che sarebbe una bugia.
Mi limito a un impegno, da qui alla prossima settimana: di starle accanto un po' di più, di non avere fretta, di guardarla con occhi di comprensione, di ascoltarla, di goderla, di abbracciarla più a lungo di quanto faccio di solito, quando la tengo tra le braccia e chiudo gli occhi e sento la pelle della sua guancia morbide attaccata alla mia, e mi pare che d'un lampo non sia più una mamma, una nonna, ma sia diventata di nuovo bambina.
Devo farlo per lei, per me e più ancora per rispetto delle persone che vorrebbero farlo con la loro e non possono più, perché il tempo ha già fatto da cesoia e non concede nessun miracolo, almeno su questa terra.

(A proposito di "nonna bambina", la vera "nonna bambina" credo sia la mamma di Fulvio e Danila, che con l'età e il male che ne contagia la mente è diventata d'una dolcezza infinita).

martedì 22 ottobre 2019

L'abbondanza del nocciòlo (Ordine e caos)


La natura è generosa, procede per abbondanza, per eccesso. L'ho compreso guardando una pianta di nocciòlo, la miriadi di semi che sparge, incurante che mettano radici o si disperdano nutrendo altri essere viventi, sbocciando sotto altra forma, ma sempre e sempre e sempre, di nuovo.
La misura, il contenimento, il risparmio, sono categorie tipiche dell'essere umano.
Capita spesso, in questi giorni, che mi soffermi a pensare a un piano sopra il cielo, a come siamo piccoli e pure presuntuosi, volendo dare un giudizio su ogni cosa, usando il nostro metro.
Siamo una parte del tutto, non il centro: la scienza lo ha compreso secoli fa, noi fatichiamo.
Ecco perché mi sforzo di adottare un punto di vista diverso, come se l'essere vivente da considerare non fosse quello umano, non fossi io, qui ed ora, bensì l'universo intero e il battito di cuore o il respiro non si contasse in attimi bensì in secoli, in millenni.
Discorsi che portano lontano. In molti sensi.
Penso ai pianeti, alle stelle: tutte sfere.
È un Dio, se un Dio c'è, giocoso: gioca a palla, a bocce, non con il cubo di Rubik.
Potevano avere forme strane, come una goccia di inchiostro che cade sul foglio o i gnocchi della nonna, il venerdì, a pranzo. Invece no. Sfere, perfette.
Mi sono imbattuto, ieri l'altro - mi capita spesso di scrivere "ieri l'altro", ne deduco che sono lento e per pensare qualcosa, per elaborarlo, ci metto minimo due giorni o un giorno e mezzo - ho visto un documentario sulle modificazioni genetiche, sul "codice con cui è scritto il libro della vita", così l'hanno chiamato. Non sono arrivato in fondo. Una dozzina di minuti e ne ero già sazio. Non per paura, per timore, per i dilemmi etici che si pongono e che pure sono vertiginosi o abissali, a secondo del punto di vista da cui guardiamo, bensì perché non sono ancora pronto, perché sono ancora nella fase dello stupore e del sentire (a si sente anche ciò che non si sa) che esiste un equilibrio, un'armonia, che non tutto è caos e perciò non è impossibile che solo caos sia all'origine e alla fine di tutto.

P.S. Sono contento Giorgia che studi filosofia. Ancor più dopo aver visto il documentario di cui sopra, in cui la scienza e la tecnica mostravano tutta la loro grandezza, ma le risposte alle domande che interessano davvero sono altre, le stesse che ci poniamo da quando ammiriamo il cielo stellato.

lunedì 21 ottobre 2019

Una sorprendente amicizia (anche se ci vediamo poco)


Sei arrivata da un paese lontano, senza sapere la lingua, preceduta da tua madre, che ti ha spianato la strada senza risparmiarti la fatica di percorrerla, comprese le salite e i dossi che riserva la vita.
Ti ho conosciuta per caso, notando come fossi sempre in movimento, come non ti costasse il sacrificio, la fatica, l'umiltà del lavoro, svolto con dedizione, con cura, senza stare con le mani in mano, pure quando nessuno ti osservava.
Le prime parole le abbiamo scambiate di sfuggita, mentre tenevi gli occhi bassi, per un misto di soggezione e diffidenza. Hai imparato a sorridere pian piano, concedendo insieme fiducia e confidenza.
E' così che ho conosciuto oltre l'apparenza, compresi i dispiaceri, le delusioni, le rughe del cuore, mentre la pelle del viso resta liscia, da bambina.
Ci vediamo poco, rare volte all'anno, di sfuggita, eppure anche in quelle occasioni ho sempre qualcosa da imparare da te. L'ultima lezione che mi hai dato è stata sulla riconoscenza, sull'essere grati per le persone che danno senza chiedere nulla.
Anche per questo, pur se mi sento in colpa per le mie assenze, per restarmene mesi senza scambiare neanche un messaggio, so che ciò ci lega ha un nome e quel nome è "amicizia".
Te lo dico oggi, che compi gli anni, per farti una sorpresa, sapendo che ogni tanto passi di qua, per dimostrarti che anch'io ogni tanto ho buona memoria.

domenica 20 ottobre 2019

L'ordine cosmico (mi accontenterei del divano)


L'asciugamani arruffato, appallottolato, in bagno.
I giacconi sul divano.
Le felpe sulle sedie del soggiorno.
Le antine del guardaroba e degli armadi perennemente spalancate.
La porta d'ingresso aperta.
Le chiavi "di scorta" non rimesse a posto.
Le bottiglie d'acqua svuotate e non riempite.
La tavola non sparecchiata.
Le scarpe disseminate sulle scale.
Le cartelle lanciate e abbandonate in un angolo della cucina.
L'accappatoio usato e umido appeso alla ringhiera delle scale per non riportarlo di sopra.
Il computer lasciato con la batteria esaurita.
Le ricariche del telefono sparse per la casa.
La carta igienica terminata e non rimpiazzata.
I telecomandi abbandonati dove capita.
La pigna dei vestiti accatastata sulle scrivanie delle camere.
La pinzetta per le ciglia e il tagliaunghie mai al loro posto.
La Coppa del Nonno vuota o il vasetto dello yogurt finito e lasciato su una mensola, con il cucchiaino dentro.
I libri di scuola sul tavolo dove mangiamo.
Il piatto di pietanza servito per il dolce o la frutta sul pavimento, accanto al divano.
I panni sporchi sparsi davanti alla doccia.

Questo e molto altro ci troviamo di fronte, ogni giorno.
Io più assente e paziente, scuoto il capo e brontolo e borbotto e sistemo quel che posso, cercando di essere il signor "Che sarà mai" di cui ho scritto l'altro giorno, vostra madre più presente ed esasperata, ricadendo sulle sue spalle il novanta per cento delle faccende domestiche, si concede pure qualche gesto teatrale, tipo la recente usanza di scaraventare sul tavolo del terrazzo, all'esterno di casa, felpe e giacche che trova su sedie e divano.
Lo scrivo non per un rimprovero, né come certificazione di una battaglia che noi adulti quotidianamente perdiamo, bensì affinché ve ne ricordiate, quando sarete adulti a vostra volta e avrete figli che vi faranno saltare la mosca al naso e con i quali sarete tentati di ricorrere alle maniere forti oppure di farvi scoraggiare, pensando che sono incorreggibili disordinati, incapaci di badare a se stessi.
No, non saranno incorreggibili né incapaci. Miglioreranno, cambieranno, ne sono certo, come sono cambiato io, come cambierete voi, prima o poi (speriamo prima, che poi divento vecchio).

P.S. Una cosa. Non cento, non dieci, non cinque. Una. Almeno una abbiate l'intraprendenza e la costanza di metterla in pratica come la convivenza civile richiede. I giacconi ad esempio. Se invece di gettarli sul divano, appena entrati in casa, dedicherete venti secondi ad appenderli su una gruccia e riporli nel guardaroba all'ingresso, voi - ve lo assicuro - non subirete mutazioni genetiche né perderete occasioni uniche per fare qualcos'altro, evitando soprattutto che a vostra madre venga l'esaurimento nervoso.

sabato 19 ottobre 2019

Sono giornalista, dunque Scavo (Onore a Nello)


Del mio mestiere parlo poco: lo faccio e non sento il bisogno di ostentarlo o di usarlo come pretesto ricamandoci sopra, filosofeggiando.
Oggi mi concedo un'eccezione, soltanto per rendere omaggio a un collega che stimo e che sta pagando a caro prezzo le notizie scovate, gli articoli che ha pubblicato.
Ho conosciuto Nello Scavo quindici anni fa, quando ero in televisione, a Como e lui aveva scelto la città affacciata al lago come dimora, pur lavorando a Milano, già allora ad Avvenire.
D'istinto ne avevo apprezzato la serietà, testimoniata fin dallo sguardo, da quell'espressione del volto, mi verrebbe da scrivere "tragica", amara, tipica di molti suoi conterranei, anche quando sorridono, abbinata a una raffinitezza culturale, a una preparazione, a una meticolosità che ne fanno il tratto distintivo e la ragione prima per cui li ammiro (uso il plurale poiché Nello non è il solo di quell'idealtipo, che comprende un ampio spettro, che va da Pierangelo Buttafuoco a Claudio Fava a Gianni Riotta fino a un altro siciliano "adottato" comasco, Dario Campione).
In un tempo in cui il giornalismo viene posto sulla graticola e ci si interroga su quale sia il futuro, Nello insieme a molti altri indica una strada, facendo altresì da argine a quanti - compreso qualche illustre collega - imputano di cialtroneria e pressapochismo e trombonaggine l'intera categoria, considerando tutta l'erba un fascio.
Onore dunque a lui e a quanti come lui considerano il proprio mestiere un sacerdozio e non cedono di un metro e testimoniano nei fatti, oltre che con le parole, l'utilità del giornalismo, di chi si pone domande e cerca risposte, senza protervia ma coltivando sempre il dubbio.

P.S. L'inchiesta che ha portato alle minacce e conseguentemente sotto tutela Nello Scavo riguarda il traffico di migranti, ma un suo pallino riguarda Papa Francesco, per "smontare" molte delle accuse che gli rivolgono. Su questo tema lo avevo intervistato, un paio d'anni fa, a Bergamo, definendolo già allora un "cronista scomodo" (che scomodo poi è l'aggettivo che ad ogni cronista degno di tal nome dovrebbe essere abbinato).

venerdì 18 ottobre 2019

A occhi chiusi (Darsi pace, un dono prezioso)


"Sono un paio di giorni che soffro come un cane" mi hai scritto, per il cruccio che ti porti dentro, "non avere figli, il tormento di una vita, la ferita più grande, il desiderio tradito".
Ascolto ciò che dici, incapace di aggiungere altro, sapendo che nessuna parola potrebbe rammendare lo squarcio che hai dentro, consapevole che in questi casi è già molto stare in silenzio, mettere una mano sulla spalla, idealmente o dal vivo, chiudere gli occhi, come mi capita spesso, replicando tale e quale l'espressione di mio padre, come la ricordo.
Di fronte al dolore altrui sto così, a palpebre abbassate, come se il buio possa contenere lo strazio, fare da scudo.
Ti sono vicino, cerco di esserlo con chiunque condivide con me un vuoto, anche se non sempre ho la capacità di comprendere quant'è vasto, profondo.
La sofferenza, pure per me, come per qualsiasi essere umano, resta un mistero, confido però in ciò che hai chiosato, concludendo il messaggio e aprendo le pagine di quello che potrebbe essere un libro: "Devo soltanto dirmelo a voce alta e darmi pace".
Darsi pace. Un dono prezioso, un riaprire gli occhi, dopo avere pianto tanto. Un regalo d'umanità, che ci meritiamo.

giovedì 17 ottobre 2019

Il signor "Che sarà mai" (Cambiare io, per primo)


Tra i libri che più mi sono piaciuti, negli ultimi cinque o sei anni, c'è senz'altro "Il desiderio di essere come tutti" di Francesco Piccolo.
Ne ho apprezzato il tono, la scrittura, le riflessioni, alcune delle quali - lo scrivo senza imbarazzo - hanno cambiato l'uomo che sono, il modo di intendere il mondo, introducendo un sentimento di tolleranza che prima non avevo.
C'è un altro passaggio che mi è rimasto impresso, quando racconta della moglie, della madre di suo figlio, che lui non chiama per nome proprio, definendola con un atteggiamento: "Che sarà mai?". La signora "Che sarà mai".
Vado a memoria, per spiegare meglio cosa intende: una persona che alla pesantezza preferisce la lievità, al trattenere e covare il lasciar correre, riducendo il tutto all'essenzialità della realtà oggettiva, senza caricare di altro significato.
Alcuni possibili esempi concreti.
"Luigino si è rotto il braccio? Che sarà mai, s'è rotto un braccio...".
"Il bicchiere è caduto e ha sporcato di vino il tappeto? Che sarà mai, s'è sporcato il tappeto...".
"Ci siamo svegliati tardi e abbiamo accumulati ritardi fino a perdere l'aereo? Che sarà mai, abbiamo perso l'aereo...".
In questi mesi, nei confronti delle persone che mi stanno accanto ho espresso spesso il desiderio che siano simili alla signora "Che sarà mai", cioè il contrario di pesanti, grevi, insistenti, pignole.
Da qualche giorno ho intuito che attenderlo dagli altri è arduo prima ancora che sbagliato: l'unico cambiamento che si può pretendere è quello che declinato in prima persona (prima persona singolare, al massimo plurale, ma sempre e soltanto prima persona).

P.S. Giuro, ci sto provando. Non sempre mi riesce, specialmente con le persone che mi vogliono più bene e con le quali sono in confidenza, ma non c'è occasione in cui - quando la metto giù dura e sono pesante, permaloso, complicato - penso che il signor "Che sarà mai" dovrei esserlo io.

mercoledì 16 ottobre 2019

Ti ho visto così (Tenerezza, di spalle)


Ti ho visto mentre tu non mi vedevi, girato com'eri a tirare la tenda oscurante, prima di andare a letto, vestito del pigiama azzurro pallido avuto in dote da Giacomo e Giovanni, minuto come sei, pur se stai diventando alto ogni giorno che passa.
Eppure, in quel frangente, sembravi così piccolo, così fragile, che m'è venuta una tenerezza immensa e un desiderio altrettanto intenso di protezione, pensando che non hai che te stesso, che noi, a cui vuoi bene e che decidiamo di volerti bene senza vincoli di sangue, per un'asola cucita dal destino.
In quell'istante, prima che ti voltassi, ho ripromesso a me stesso di prendermi cura di te, di non lasciarti mai solo, finché potrò, finché avrò testa e fiato.
Abbiamo qualche incomprensione, è vero, io soprattutto fatico a calarmi nei panni della persona paziente, ma tu sei un bambino straordinario, d'una dolcezza e sensibilità che non ha paragone alcuno.
Oggi mi hanno detto che al ritorno da scuola eri scuro in volto e terminato il pranzo ti sei messo subito a fare i compiti, evitando il tiramolla e le perdite di tempo a cui ci hai abituato.
Eri triste per conto tuo, per un cruccio legittimo, per un sentimento che non riguarda noi ma non devi vergognarti di provare e che grazie al cielo hai confidato, non tenendolo dentro, non permettendo che si incistasse, trasformandosi in un dolore difficilmente sostenibile, tumultuoso.
Sostengono che è cosa buona e giusta quando con i tuoi undici anni perdi la calma, quando ti comporti non da "ometto", perché significa che ti fidi di noi, che puoi smettere di recitare con l'obiettivo di essere accolto, perché accolto ti senti già. Perciò non mi arrabbio se ti arrabbi, non divento a mia volta permaloso quando lo sei tu, con quella faccia afflitta, che pare una caricatura da teatro.
Con tutti i miei limiti, i miei sbagli, i miei difetti continuo a ritenerti un dono, un piccolo scrigno da custodire, finché diventerai grande e sarai a tua volta per noi un punto di riferimento.

P.S. Vedevo te, ieri, sentivo mio padre, come ti avrebbe voluto bene lui, come si sarebbe commosso pur senza sceneggiate, che quelle non gli appartenevano. Sei nato tre giorni prima che lui ci lasciasse: continuo a pensarci, come se non fosse un semplice ricciolo del destino.