mercoledì 17 settembre 2014

Amore non fa rima con rabbia

Foto by Leonora
Gira e rigira, oggi gli occhi cadono là, nel pozzo buio dove s'è precipitato un ragazzo di vent'anni, trascinando con sé l'ex fidanzata.
Un fatto di cronaca come tanti e unico insieme, un balzo dal settimo piano che ha infranto la vita di due persone e aperto sull'abisso anche la ragione, incapace di comprendere e timorosa persino di provarci, preferendo volgere lo sguardo e l'attenzione altrove, per un pudore che assomiglia all'istinto di sopravvivenza: quando non si può far nulla e inutile stare a bagnomaria nello sgomento, meglio voltare pagina.
Poi però, insidiosa quanto un tarlo, la curiosità cresce e con essa il desiderio di trovare almeno un appiglio in ciò che appiglio non ha. I dettagli che via via si aggiungono alla vicenda nuda peggiorano la situazione, facendo crescere l'inquietudine, non consentendo di scorgere la fine del pozzo, bensì lasciando l'impressione che quel pozzo un fondo non l'abbia.
Non si spiegherebbe altrimenti la scoperta che quel gesto non è stato frutto di un'stante di follia, bensì era voluto, studiato, calcolato, meditato, come spiegano le parole lasciate in tre pagine di scrittura minuta e fitta, un odio tanto grande da non trovar pace se non nell'annientamento dell'altrui gioia, vita, bellezza.
Ho figli adolescenti, non riesco a fare finta di nulla, a soffocare il timore che uno di loro possa diventare carnefice o vittima, che confonda a tal punto rabbia ed amore da non rispettare l'esistenza altrui né la propria. Magari non con un gesto così estremo, ma con tanti gesti piccoli e grandi che avvelanano le relazioni e le snaturano per gelosia, possessività, per quell'istinto deviato che tutto offusca, acceca.
A loro, a Giacomo, a Giorgia, a Giovanni vorrei dire che non esiste amore né innamoramento che non si accompagni alla gioia, alla serenità, e che chi vuole ottenerlo altrimenti non riceve in cambio che un pugno di ossa. Vorrei dire che l'amore non si prende né tanto meno pretende, bensì si dona, accettando chi non lo accetta, e non esiste passione che non sia buona, generativa.
Non so per quale seme gramo, per quale contagio dannoso invece di volere il bene dell'altro a cui si dice di voler bene lo si tormenti o addirittura distrugga. L'unica cosa che posso fare è alzare la guardia, parlare di questo argomento, invitare chi mi è vicino non soltanto a non fare alcun male ma anche ad esser sentinella nella propria scuola, all'oratorio, in compagnia, affinché non si resti mai soli, né in cima a un palazzo, né nelle troppe occasioni in cui la prepotenza diventa sgarbo, minaccia, violenza.

domenica 14 settembre 2014

Irene

Foto by Leonora
Sul treno era seduta di fronte a me e aveva L'Eco di Bergamo in mano. Lo leggeva con attenzione meticolosa, pagina per pagina, come fosse interessata davvero e non per quel vezzo d'acquistare il giornale e sfogliarlo distrattamente e leggiucchiarlo qua e là, come spesso capita, durante un viaggio. Chiederle se le fosse piaciuto ed iniziare una conversazione è stato un tutt'uno, avviando un rapido ma sincero scambio di opinioni sulla lettura e pure la vita, il lavoro.
Erano anni che non parlavo con qualcuno che non conoscevo, in treno. Sarà che poco prima ero stato in università, per incontrare uno dei massimi conoscitori dell'editoria italiana e internazionale, ma all'università mi pareva di esser tornato di botto, quando ogni giorno era segnato da un'andata e ritorno, in vagoni affollati e spogli, a volte assonnato, altre vigile e sveglio.
Irene. Di lei ho scoperto il nome e anche i libri preferiti, gli studi fatti, il sacrificio nel conciliare a suo tempo la scuola con il lavoro, la passione per le lingue, l'impiego come assistente di un amministratore delegato in una multinazionale, l'avvicendamendo ai vertici dell'azienda, l'esser relegata in un angolo, una nuova opportunità, dodici mesi di contratto, la conclusione di quell'esperienza e da una settimana l'attesa di poter mettere a frutto le competenze che ha maturato, la volontà di non buttarsi via, di cercare ciò che sa fare meglio, parlare quattro lingue (oltre l'italiano), le conoscenze commerciali, i contatti...
Alla fine, giunti in stazione, oltre a un saluto veloce, mi è rimasta la sensazione di aver incontrato una persona speciale, non esente da spigoli, ma con una luce che si irradia, fuori e dentro.
Spero che Irene trovi ciò che merita, un lavoro adeguato. Per ciò che ho intuito mi pare la parte migliore del nostro Paese e sono certo sia un tipo tosto, che non starà molto tempo con le mani in mano, ritagliandosi con le unghie, se necessario, uno spicchio di futuro.

mercoledì 10 settembre 2014

Carne viva (io e i dieci libri che mi hanno cambiato la vita)

Foto by Leonora
Detesto le catene di Sant'Antonio e diffido dei giochetti ciliegia, quelli che uno tira l'altro. Una riottosità raddoppiata allorché alla serialità cameratesca si aggiunge la banalizzazione di qualcosa che mi è caro, a cui tengo. I libri ad esempio. Se c'è un oggetto, un compagno, uno strumento che ha cambiato in meglio la mia vita, il libro si piazza al primo posto, avendo contribuito a formare l'essere adulto che sono. Non a caso ho cominciato a leggere terminata la maturità scolastica, archiviando simbolicamente anche la mia adolescenza (questo lo deduco adesso, allora ovviamente badavo al sodo e non a ragionar sopra le cose).
Una lunga premessa per giustificare un'eccezione breve. Accetto la proposta di Elena Bianchi e di Valentina Lietti, elecando qui dieci libri che ricordo volentieri. Di più. Dieci libri che rileggerei, che porterei con me su un'isola deserta, che mi hanno scosso, appassionato, entusiasmato, cambiato.
Inutile dire che dieci sono pochi, che certo domani mi darò una pacca sulla fronte ricordando proprio quel libro imprescindibile che oggi, chissà come mai, chissà perché, ho dimenticato. Superfluo pure scrivere che in verità, più che un libro, dovrei raccontare dei filoni che di volta in volta mi hanno catturato e che ho spremuto, come arance mature in bocca a un assetato. Non a caso penso ai siciliani. A Pirandello, Sciascia, Camilleri, Bufalino, Verga, Vittorini, Cacopardo, la Maraini... O ai sardi. La Deledda su tutte, ma anche Ledda, Niffoi. E i francesi, con Hugo e Maupassant in testa. Poco, pochissimo i russi, tranne Tolstoj, che ho iniziato e abbandonato sette volte, salvo divorare Guerra e pace in una settimana, un paio di anni or sono. E poi Erri De Luca, tutti i suoi scritti, nessuno escluso. O Simenon e il suo Maigret, che come Tolstoj sono una scoperta della maturità. E tutto ciò limitandomi ai romanzi, escludendo i saggi.
Basta chiacchiere. Ecco i dieci preferiti.
  • Il nome della rosa (Umberto Eco)
  • I miserabili (Victor Hugo)
  • Le memorie di Adriano (Marguerite Yourcenar)
  • Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (Joseph Roth)
  • Il più grande uomo scimmia del pleistocene (Roy Lewis)
  • Il giorno della civetta (Leonardo Sciascia)
  • Guerra e pace (Lev Tolstoj)
  • Novelle per un anno (Giuseppe Pirandello)
  • La malora (Beppe Fenoglio)
  • Quello che certamente mi verrà in mente domani e che aggiungerò nei commenti, appena mi sarò dato la pacca sulla testa.

P.S. I libri si leggono, non si consigliano se non con somma prudenza e anche quando si donano occorre non avere fretta e aspettarsi nulla. Perché ciò che per me oggi è una lettura imprescindibile può esser vacua e tristerrima per colui o colei a cui ne parlo bene o ne faccio dono e viceversa. Essi infatti non sono vestigia né sepolcri, bensì carne viva, che si compie e realizza in relazione al contesto, all'incrocio di spazio e tempo, esattamente come una pianta, un'animale, una persona.
P.P.S. Poi in vita mia ho letto anche Fabio Volo ("Il giorno in più") e mi è piaciuto, ma questa è un'altra storia.

lunedì 8 settembre 2014

Io ci sono

Foto by Leonora
Dopo la pioggia viene sempre il sereno, ma mi piacciono le persone che in silenzio, quando gocciola forte, sanno offrirti un ombrello.
Apprezzo la vicinanza, specie se abbinata alla lievità, e sono grato ai tanti amici che ho, anche quando dicono poco o niente, ma so che sono disposti ad ascoltare e soprattutto che esistono, che se avessi bisogno sul serio potrei contare su di loro, mettendo da parte il pudore e l'orgoglio. Li sento come quella rete sottesa in un circo in cui volteggio al trapezio. Non faccio nomi, perché certo dimenticherei qualcuno, tuttavia sono numerosi e vanno dagli amici di infanzia, ai parenti, ai colleghi con cui ho condiviso un tratto di strada e i compagni di scuola, di università, fino ad alcune persone che ho conosciuto grazie alle nuove tecnologie, scoprendo un'affinità elettiva che sorprende per primo me stesso.
Ciò non toglie - sarei ipocrita se non l'ammettessi - che talvolta ci si sente soli ugualmente.
A me è capitato, pur se quando accade lo maschero, non fosse altro che per una sorta di rispetto dei dispiaceri altrui, considerato che in un'ipotetica fila delle grazie ricevute so di essere se non al primo posto, almeno sul podio.
Ribalto la prospettiva, domandandomi se a mia volta riesco ad esser di conforto per qualcuno, per le persone a cui voglio bene e pure per quelle che semplicemente mi camminano a fianco. Non posso caricarmi sulle spalle le pene di tutti, però potrei fare di più, essere più generoso, attento. Il fatto è che immerso nel fluire del fiume, nove volte su dieci sono troppo pigro e distratto per invertire la rotta o anche soltanto fermarmi, salire sulla riva e tendere la mano. E pensare che per gettare un salvagente non serve molto, basterebbe un pensiero, uno sguardo, un sorriso. Il modo più facile per dire: "Io ci sono".

mercoledì 3 settembre 2014

C'è una crepa in ogni cosa

Foto by Leonora
"C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce".
La frase è di Leonard Cohen, cantaurore e poeta, e in questi giorni mi fa da stella polare, aiutandomi a comprendere meglio il senso del mio lavoro e più in generale suggerendo un approccio fecondo alla vita, un'angolatura differente da cui guardare ciò che ci circonda.
C'è una crepa in ogni cosa. Nelle organizzazioni, nelle comunità, in famiglia, pure in noi stessi. Anche se quasi sempre tendiamo a negarlo, cresciuti con l'ideale del mondo perfetto, dell'efficenza, della funzionalità. E quando non possiamo fare a meno di constatarla il più delle volte tentiamo di chiuderla, di ripararla, di rabberciarla in qualche modo, affinché tutto torni liscio, rassicurante, specchiato, invece di accettare lo scarto e apprezzare la luce che da essa può entrare.
Per questo esercizio doppio (individuare la crepa e scoprirne la luce) occorre un'attitudine mentale, una certa flessibilità e inventiva, ma ancora più arduo è accettare di buon grado che gli altri scorgano le nostre, di crepe, e ce le indichino, con garbo o in modo brusco, infilandoci il dito persino, pur di farci capire che esistono. Quando accadrà, un po' come per le critiche, dovremo esser bravi a guardare al positivo, a considerarlo un dono. Ed è questo già un modo per farci passar la luce dentro.