sabato 31 marzo 2018

La mano nella tua


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Mi hai tenuto la mano nella tua, per tutto il tempo, la pelle morbida quanto quella di un bambino e anche sul volto era distesa, liscia, senza un ruga nonostante gli anni e il male che, dice mia madre, ti ha scavato nel profondo.
Non ci vedevamo da anni, sapevo che ti eri ammalata, ma come al solito ho badato più a correre, rimandando di mese in mese, di giorno in giorno.
Oggi mi sono deciso, ti ho trovato nel letto di un ospedale, debole eppure serena, con gli stessi occhi chiari e mansueti e dolci che ricordavo.
Hai l'età di mia mamma, tuo marito è stato il miglior amico di mio padre, sono cresciuto frequentando casa vostra e andando in vacanza insieme, quando ero piccolissimo. Poi i momenti d'incontro si sono diradati, non a scapito della qualità: bastava una visita, un saluto, un bacio, un abbraccio, per riportare quell'intimità che distingue l'amicizia autentica dalla conoscenza vaga, il bene profondo da quello blando. Le occasioni più piacevoli erano le serate in cui vi venivamo a trovare e si chiacchierava tutti insieme fino a notte fonda, io poco più che ragazzo, al pari dei tuoi figli, tuo marito mattatore indiscusso, come sanno esserlo coloro che non conoscono vie di mezzo ed esiste soltanto il niente o il tutto. Tornando a casa, in auto, con mio padre e mia madre commentavamo i discorsi fatti, tornavamo a ridere delle battute, talvolta mi addormentavo, altre invece finivo per cantare con mio papà, che aveva voce di tenore e quando era allegro non risparmiava il fiato.
Mi hai fatto un regalo oggi, ricordandomi che nella vita più di tutto importa perdonare e voler bene, cominciando da chi ci è vicino. Augurio migliore non potrebbe esserci per la giornata di domani, che è Pasqua di risurrezione e ci rammenta che anche se noi prima o poi ce ne andiamo, sempre vivo rimane ciò che c'è di mite, di buono.

sabato 24 marzo 2018

Alzati e cammina (Contro la tentazione dell'indifferenza)


Tu mi osservi, anche senza guardarmi, e io mi sento in colpa, perché non sono come dovrei essere, perché all'impegno preferisco lo svago, perché rinuncio a mettermi in gioco, perché accampo scuse e quasi sempre taccio, anche quando non sono d'accordo e mi trovo di fronte un'ingiustizia, una scorrettezza, un sopruso.
Labile è il confine tra la pazienza e la rassegnazione, tra la calma e la pigrizia, tra l'equilibrio e l'indifferenza, tra l'ascolto e il silenzio, tra l'essere rispettoso o vigliacco.
Mi vengono in mente le parole di Victor Hugo: "Ogni virtù può sfociare in un vizio".
Tu mi osservi, anche senza guardarmi, mentre il mondo cambia e non so mai se in meglio o in peggio. Vorrei proteggervi, tu e i tuoi fratelli, creare una bolla, fermare il tempo, limitare lo spazio.
Sto fermo. E forse questo è il peccato più grande: rinunciare in partenza, per partito preso, senza rischiare almeno un primo passo, senza prendere posizione per paura di essere giudicato.
Riconosco le buone ragioni di ciascuno, è vero, e di questo spesso faccio vanto, tuttavia è vanità che porta a nulla senza il coraggio di affermare accanto al giusto pure cos'è sbagliato.
C'è un termine desueto ma preciso per definire un simile atteggiamento: ignavia.
Lo scrivo qui, perché ne avverto l'odore, la presenza, come un pericolo di questo tempo, in primis per me stesso.
Tu mi osservi, anche senza guardarmi, e io so cos'è giusto e cos'è sbagliato. Prima o poi, oltre a saperlo, dovrò anche farlo.

P.S. Grazie a Lara, che ho incontrato questa mattina, per caso, e che mi ha dato un consiglio spicciolo quanto prezioso: "Fai quello che ti senti di fare". Ha ragione lei e vorrei essere tanto risoluto da passare dal rendersene conto al cambiare davvero.