sabato 28 maggio 2016

"Anche meno" (La virtù del togliere)

Foto by Leonora
"Anche meno". Mi viene da ridere e insieme riflettere ascoltando l'astronauta Paolo Nespoli a Radio DeeJay (minuto 80.25) quando spiega che "lo Shuttle va in pensione non perché vecchio, bensì è troppo nuovo. Gli americani, così come noi, tendono a rispondere con la tecnologia a tutti i problemi che incontrano. Serve un sensore? Beh, ne mettono due. E poi cinque, dieci. Alla fine diventa una macchina così complessa che è impossibile da gestire. Nelle navicelle russe invece non c'è neanche il computer! Se non c'è, loro dicono, non si spacca. Noi restiamo increduli e dubbiosi, ma si può fare. E valutando la sicurezza, la navicella russa è persino più sicura dello Shuttle".
Più banalmente, tornando con i piedi per terra e senza andare nello spazio, capita anche a me: quando l'auto nuova si blocca non posso far altro che chiamare il carro attrezzi, se invece ha problemi di avviamento la Vespa (anno di immatricolazione 1984) basta spingerla e nove volte su dieci si mette in moto
Lo scrivo con un filo di imbarazzo, essendo pienamente figlio del mio tempo, invaghito, affascinato, intrigato da tutto quel ben di dio di aggeggi che la tecnologia sforna di continuo.
A volte tuttavia togliere è meglio che aggiungere. Vale anche per l'arte (lo scultore con il blocco di marmo, lo scrittore con le parole...) e talvolta pure per la vita.
"Anche meno" potrebbe diventare uno stile, un metodo, una stella polare e un'àncora al tempo stesso.
Ecco allora, tanto per non restare nel vago, alcune indicazioni pratiche che hanno valore e significato di buon proposito per il sottoscritto.
Meno libri ma quelli che restano leggerli.
Meno cibo, gustandolo.
Meno riguardo per il denaro, spendedolo senza avarizia né prodigalità.
Meno fesso: anche se lo siamo tutti prima o poi e - chi non lo è - facile sia un arrogante o un farabutto.
Meno ipocrisia.
Meno carne sotto i denti e nella pancia.
Meno applicazioni nel telefono.
Meno chiacchiere banali.
Meno scatti di nervosismo.
Meno scarpe e vestiti nell'armadio (tanto poi metto sempre quel paio).
Meno tempo libero sciupato.
Meno tentazioni e magari in più qualche vizio o sfizio.
Meno ascensori da prendere.
Meno paranoie di fronte alle novità o al cambiamento.
Meno giudizi prima di "camminare almeno tre lune nei mocassini dell'altro".
Meno consigli inutili e scritti retorici. E qui, per coerenza, mi fermo.

lunedì 16 maggio 2016

Cartoline vista lago (La rabbia e l'orgoglio)

Guardo sempre con sospetto gli album dei ricordi che hanno stampato sulla copertina "Io c'ero". Al rischio di esagerare con la retorica si aggiunge quello di apparire ridicolo, come lo sono i re nudi e i Napoleone da manicomio.
Corro comunque il rischio per una buona causa, riassunta oggi da Giorgio Gandola (qui il suo editoriale): "A Como riparte la battaglia di civiltà per rivedere il lago da piazza Cavour. Dopo otto anni e per merito del giornale La Provincia. Come ai vecchi tempi, quando il cane Pluto scoprì la malefatta. I lettori sono invitati a firmare una cartolina inserita nel quotidiano - martedì, giovedì e domenica - e a consegnarla all'edicola per coinvolgere Renzi. Per abbattere i muri serve sempre una spallata".
Conosco bene l'argomento, non mi dilungherò raccontando nel dettaglio il giorno in cui Innocente Proverbio scrisse al giornale dicendo che avevano costruito un muro (la lettera arrivò sulla scrivania di Pietro Berra che lo richiamò per accertarsi che con un nome così non si trattasse di uno scherzo). Non aggiungerò nulla sul sabato in redazione quando venne il momento di pubblicare le migliaia di nomi e cognomi di comaschi che avevano scritto al giornale chiedendo di abbatterlo (verso le sette di sera il capo redattore Francesco Angelini e il manipolo di valorosi in Cronaca non erano ancora certi di riuscire a metterli in pagina tutti, quei nomi). Non occorre neppure ricordare il lavoro che l'intera redazione svolse per settimane (un grazie però lo meritano Emilio Frigerio, Stefano Ferrari, Gisella Roncoroni, Paolo Moretti, lo stesso Pietro Berra, Anna Savini, insieme con Michele Sada, Dario Alemanno e Alessio Brunialti).
Ricordo tutto questo e molto altro, ma domani compilerò la cartolina de La Provincia per un motivo più banale, concreto: il danno che il progetto funesto delle paratie ha causato al di fuori di Como.
Ne ebbi completa consapevolezza un paio di settimane dopo essere arrivato alla direzione del Cittadino di Monza, quando a quello che consideravo un buffetto rispose incrociando i guantoni da pugilato l'allora prima cittadino brianzolo. Della gragnuola di epiteti incassati, soltanto uno mi mise in crisi davvero. Fu quando mi sentii dire a bruciapelo: "Ma cosa volete insegnare voi comaschi, che avete costruito il muro!".
"Io il muro non l'ho costruito" avrei voluto rispondere, "io sono uno di quei giornalisti e di quei comaschi che il muro l'ha fermato!". Invece stetti zitto. Perché tutti i torti quel sindaco non li aveva, un po' in colpa mi sentivo davvero, avendo fatto molto ma non abbastanza per impedire quello scempio.
Quattro anni dopo siamo ancora qua, fermi come il palo della banda dell'Ortica che "per sentirci ci sentiva poco o niente ma per vederci non ci vedeva un accident". Non so se compilare una cartolina servirà, non so se Renzi ascolterà, non so se potrà combinare qualcosa più del nulla di chi finora ha messo mano, per quello che importa però io ci sono. Con le prime firme abbiamo bloccato il muro, con queste speriamo venga restituito alla città il lago.

sabato 14 maggio 2016

Grazie Bianconiglio (Punti di sutura e cicatrici)

Foto by Leonora
Punti di sutura. Sono quelli che tocco con mano tra l'occhio e lo zigomo sinistro, ricordo di una rissa quand'ero bambino, la prima e non a caso l'ultima in cui mi sia mai cimentato.
"Le ferite si rimarginano ma le cicatrici restano". Me lo disse, con una nota di asprezza ma con tono benevolo, accalorato, l'amministratore delegato poche settimane dopo il mio arrivo alla direzione del Cittadino. Abituato alla lievità e alla schiettezza di Como mi mancava l'esperienza di comprendere che il contesto ha sempre importanza, oltre che significato. Non mi pento di quei giorni di svolta per il giornale, i lettori apprezzarono e vendemmo più copie di quanto fosse accaduto negli anni immediatamente precedenti, ammetto però che avrei potuto essere meno maldestro, più accondiscendente non nello scrivere e tanto meno nel dare notizie, bensì nel tessere buoni rapporti con tutti, perché - parafrasando una frase che mi è cara - "il giornalismo è importante, ma la vita lo è di più".
L'ho presa larga, come al solito, ma l'immagine dei punti di sutura non m'è venuta in mente guardandomi allo specchio né ripensando ai miei primi giorni monzesi.
La terra. La terra, il luogo dove abito e dove il sabato e la domenica vado a correre o passeggio con il cane, i medesimi posti che mi hanno visto crescere, dove andavo ad arrampicarmi sugli alberi o a giocare a due bandiere quand'ero ragazzo. Le coordinate sono le stesse, il paesaggio visto dall'alto pressoché identico, differente è invece osservandolo da vicino: le piante e il verde hanno ripreso vigore sullo squarcio fatto dalle costruzioni negli anni Sessanta e Settanta, ridotto sensibilmente è l'intreccio di rovi e sterpi causato dall'abbandono della campagna a favore delle fabbriche, sempre in quegli anni, lasciando ora posto a un paesaggio più curato, così come nuove piste e vecchi sentieri sono tornati percorribili, accanto al letto dei torrenti e tra i boschi. Sono questi dettagli che ai miei occhi paiono punti di sutura tessuti con l'ago e il filo di una nuova sensibilità, di una maggiore attenzione all'ambiente e alla possibilità di viverlo appieno, senza farne scempio. Punti di sutura che non hanno cancellato le ferite, medicandole però, dando nuova forma, vitalità, armonia. E lo stesso vale per la città. Ogni volta che vado a correre al parco della Trucca, a Bergamo, mi si apre il cuore. E così in quello di zona Loreto, dove non è raro, mentre si cammina, vedersi attraversare la strada da un coniglio selvatico.
E' stato proprio uno di loro, un animaletto non più grande di un palmo e spuntato all'improvviso come il Bianconiglio di Alice, a suggerirmi di vedere le cose in modo diverso. Lo ha fatto senza proferire suono, semplicemente piazzandosi davanti e inducendomi a rallentare e portare la mano al volto, sentendo così il lieve solco lasciato dal medico che mise i punti al mio sopraciglio e rammentando in quello stesso istante, per associazione di idee, le altre ferite, quelle che "poi si rimarginano ma rimane il segno". Ai punti di sutura ho pensato proprio lì, in quell'attimo esatto, realizzando che nonostante gli errori che facciamo non è mai troppo tardi per porre rimedio e se ci mettiamo intelligenza, passione, impegno le cicatrici possono avere pure un che di affascinante, di bello.

giovedì 5 maggio 2016

M di Maggio (e Meraviglia)

Foto by Leonora
Occhi nuovi. Guardano me, senza vedermi. Sono quelli dei ragazzi tra i diciassette e i diciotto anni che riempiono il piazzale antistante il teatro di Colognola. Apparteniamo a generazioni differenti e ho imparato ad essere ignorato esattamente come avviene ai rami di un albero, al selciato del marciapiede, alle auto che sfrecciano sulla via accanto: oggetti qualsiasi che esistono e che rientrano nel campo visivo per un motivo che non li riguarda da vicino.
Non è cattiveria o maleducazione, semplicemente non appartengo al loro mondo, sono estraneo nel senso letterale del termine: una persona fuori dal contesto, che resta assente fino all'istante in cui per una coincidenza o un motivo particolare viene inquadrata e classificata nella categoria degli "adulti", esseri umani di una specie simile soltanto vagamente alla loro.
Occhi nuovi sono pure i miei, che invece li osservo meticoloso, scorgendone i particolari, tentando di indovinare che tipi di persone sono, che uomini e donne diventeranno, con la sensazione perfetta di assistere a un passaggio epocale: vagoncini dell'otto volante al culmine della salita e pronti a tuffarsi nel vuoto, farfalle che spiegano le ali uscendo dal bozzolo.
E' uno sguardo di meraviglia il mio e uno sguardo di meraviglia vorrei avessero sempre quei ragazzi, una continua ed inesauribile capacità di stupirsi di fronte a ciò che è grande, diverso, nuovo.
A loro e anche ai miei figli - Giovanni, Giorgia, Giacomo - che hanno più o meno la stessa età, non ho nulla di imprescindibile da dire: so che la strada, qualsiasi essa sia, la troveranno da soli, sbattendo il muso, se proprio proprio, ma confidando in piedi buoni, testa, mani e cuore per affrontare tutto, compreso il momento in cui saranno loro gli "adulti" e si accorgeranno di essere invisibili per chi ha venti o trent'anni in meno.
P.S. In verità una cosa nell'orecchio di Giovanni, Giorgia e Giacomo vorrei dirla. E' una cosa che anche io ho imparato dai miei genitori, pur se non in modo diretto, perché mio padre e mia madre erano grandi davvero: facevano capire le cose senza bisogno di dirle. Proprio in quel modo ho capito che nella vita non mi sarei dovuto vergognare del lavoro più umile, purché fatto con dignità, ma al contempo avrei potuto ambire al posto migliore, fosse anche ciò che gli altri definiscono "sogno": il calciatore di serie A, il presidente della Repubblica, un premio Nobel, il direttore di giornale, uno scienziato... Puntare in alto, poter aspirare al massimo, senza biasimare il basso, con la possibilità di andare avanti e anche indietro: credo sia stata questa la dote più bella che ho ricevuto in dono. Un dono che merita di essere tramandato.