venerdì 12 luglio 2019

Pollicino (Le passioni salvano la vita)


Ho sempre pensato fossero i libri a salvarmi la vita, a renderla meno noiosa, banale, monotona.
Per questo ne ho sempre uno con me, come la coperta di Linus: quando sono in auto, nella sale di attesa, mentre faccio la coda o attendo un appuntamento.
Per questo ne ho riempito le case che abito, ogni locale, elemento di arredo e tatuaggio sui muri dell'uomo che sono diventato, del bambino che ne aveva una dozzina e del ragazzo che i primi soldi che guadagnava li spendeva in libreria, considerando ricchezza raggiunta il giorno in cui invece di attendere le versioni economiche ci si poteva permettere le copertine rigide dell'edizione prima.
Ho sempre pensato fossero i libri, invece era altro. È altro.
È la voglia di leggere, il piacere di farlo, il desiderio di conoscenza, di vivere altri mondi, altri tempi, altre storie che non siano la mia, ma che con la mia si incrociano, diventando di due una.
Ho letto centinaia, migliaia di libri, non ne ho scritto uno. "Sarei un ottimo scrittore se soltanto avessi qualcosa da dire" ripeto spesso, mentendo per primo a me stesso.
A mancarmi non è la fantasia, né l'ambizione, così come illusorio è attendere una passione forte, un fuoco dentro. La gioia, il dolore, lo struggimento e tutto l'arcobaleno dei sentimenti possono fare da scintilla, ma - ne sono sempre più convinto - la differenza la fanno la determinazione, la caparbietà, la perseveranza, la volontà di farlo. Farlo. Non pensarlo. "La differenza tra fare una cosa e non farla è farla". Scriverlo. Una pagina dopo l'altra, alcune con fatica, altre con leggerezza, come mi ha detto una persona che stimo.
Forse lo farò, forse è giunto il momento. Nel frattempo resta questo blog, briciole di pane sparse alla rinfusa, che a guardarle dall'alto somigliano al percorso un po' strambo ma lineare di un moderno Pollicino e, nel bene e nel male, lasciano una traccia di me, che ai libri e alle parole debbo molto.

P.S. Ho cominciato questo post con altro intendimento, partendo dagli occhi spenti di una donna incontrata per caso, afflitta da un dolore dilaniante, delusa dalla vita, poiché essendosi appoggiata completamente a un uomo, quando lui l'ha lasciata è caduta lei e le è crollato tutto attorno. Mentre l'ascoltavo, mentre avvertivo sotto pelle il suo tormento, pensavo a cosa avesse lasciato scampo a me, al motivo per cui neppure nei momenti più bui dell'esistenza ho avvertito un vuoto tanto tremendo. La prima immagine che mi è venuta in mente sono stati i libri e da lì è partito tutto.

Un anno con noi (Il bene vero)

Sei arrivato ufficialmente a casa nostra un anno fa e hai scombussolato tutto, con quel tuo sguardo vispo, anche se a volte assente, poiché profondo è il vuoto che già da piccolo ti si è spalancato innanzi e lacerante il dolore dell'assenza, dei pezzi che ancora ti mancano.
Vorrei scrivere spesso di te, resisto per pudore, perché c'è un'intimità che non va violata, oltre a una ricchezza di emozioni, di situazioni, di sentimenti che per raccontarla tutta ci vorrebbe un libro.
Hai picchi di dolcezza, di affabilità, di purezza che ti invidio, che raramente ho notato in qualcun altro, così come in alcuni dettagli leggo le cicatrici che le ferite ti hanno lasciato.
Vorrei scrivere più su di te, per un motivo semplice: un giorno passerai di qua e troverai tracce che avevi dimenticato. Lo faccio con discrezione e parsimonia, perché è vero che certe cose le capirai quando sarai più grande, ma il nocciolo di quanto ci lega è chiaro in ciò che viviamo ed esiste un codice non scritto che sono certo si imprimerà in noi, a prescindere da cosa ricordiamo nel dettaglio.
Per adesso lasciami annotare questo: sei una benedizione per la nostra famiglia, per noi, che riceviamo più di quanto diamo e anche se spesso lo diciamo per abitudine o convenzione, il bene che ci vogliamo è un bene vero.

domenica 7 luglio 2019

Meno paure (Siamo più grandi dei nostri errori)


Vi osservo, da lontano. Mi hanno insegnato che l'ideale per chi vuole educare è stare un passo indietro, ne faccio anche due, tre, cento, cercando l'acrobazia più improbabile: esserci, pure quando non ci sono.
Non sono perfetto, lo so, lo sapete, ed è un peso al netto, poiché il peggio di me lo tengo nascosto, un po' per proteggervi, un po' per codardia, perché siamo tutti leoni finché non ci inoltriamo nel bosco.
Penso ai maestri che ho avuto, a mio padre soprattutto, ai suoi molti difetti e al pregio di dare raramente ordini, di imporre nulla o poco, concedendo autonomia, mai sostituendosi a me, neanche quando era certo avessi torto. Riusciva a farsi obbedire, con l'esempio, parlando al momento opportuno, non urlando, abbassando semmai di un tono la voce quando voleva essere ascoltato.
 "Si fa così" è una frase che da lui ho sentito di raro, "devi fare così" ancora meno. Non aveva studiato, non era istruito, aveva la saggezza delle persone di spessore, che sentono ciò che non sanno, che sanno anche quanto non conoscono.
Vi osservo, da lontano. Ciascuno con il proprio stile, con un filo tenue che vi accomuna e che colgo soltanto prestandovi attenzione. Non siete migliori degli altri, dei ragazzi della vostra età, ma il meglio di voi credo abbia origine nell'imperfezione di chi vi ha preceduto, di chi non può essere posto su un altare e inciampa ogni giorno, comprese quelle piccolezze che rendono così piccino l'essere umano. Un trampolino, per voi, uno sprone a essere diversi e nel contempo una polizza d'assicurazione, poiché gli sbagli sono il mezzo attraverso cui impariamo ("Ogni errore è una possibilità educativa" ripete sempre Paolo) e di sbagliare non dovreste aver paura mai, se non per il male che si prova quando si sbatte il muso.
Vi osservo, da lontano. E ad essere sempre più "lontano" da voi, dai miei figli, mi alleno. Perché se è vero - com'è vero - che si diventa adulti soltanto quando si resta senza genitori, le nostre generazioni hanno un problema di sfasamento: rischiamo di rimanere figli - con le conseguenze positive e negative del caso - fino ai sessanta o settant'anni, quando ormai le scelte di un'esistenza sono state prese o rinviate, del tutto, senza appello.
Ecco perché occorre trovare un nuovo equilibrio, un coraggio maggiore nel prendersi responsabilità, nell'ottenere autonomia, nello "stare in piedi" da soli, insomma, con meno timori e nessun imbarazzo.

P.S. Ho citato una frase di Paolo Ferrari. Lavorandoci assieme ormai da anni potrei scriverne un libro, se soltanto avessi più intraprendenza e fossi meno pigro. Anche che "per educare è necessario stare un passo indietro" l'ho imparato da lui. Così come questa: "Se io educatore non credo che l'altro sia più grande dei suoi errori, non posso educarlo, perché non esisterebbe lo spazio educativo, di crescita. Lo spazio educativo lo si offre, rischiando, fidandosi del fatto che l'altro possa crescere".
Fidarsi, rischiare, sbagliare, imparare. Vorrei saperli declinare al presente, ogni giorno, con i miei figli e non solo.

sabato 6 luglio 2019

Meno Social (La rivoluzione esaurita)




Il primo segnale, la prima increspatura, c'è stata un anno fa, ma era troppo lieve, troppo sottile per darvi peso e lasciare traccia.
Lo riconosco ora, che il solco s'è fatto più profondo e quella vertigine iniziale per i social s'è trasformata via via in distanza, circospezione, freddezza.
Lo scrivo qua poiché, dodici anni fa, questo stesso blog era stato diario di un'infatuazione storica, di una scoperta dirompente, di un nuovo modo di relazionarsi con gli altri e di scoprire il mondo, grazie a opportunità soltanto immaginate prima.
I social network sono stati una vera rivoluzione pacifica e sono fiero di averla vissuta non passivamente, bensì da protagonista, cogliendo le novità che di volta in volta si affacciavano dapprima sullo schermo dei computer, poi sui tablet, infini sui telefonini, che hanno permesso un accesso continuo ed immediato, quasi fossero una protesi, un'estensione delle mani, della mente, della parola.
Twitter, Facebook, Instagram... Sono stato tra i primi ad usarli, a viverli, sarebbe meglio scrivere, e Facebook e Instagram li utilizzo tuttora, ma - giusto riconoscerlo - molto più distaccato, molto più disincantato, molto più spettatore e meno protagonista.
Credo sia una circostanza personale, ma pure una tendenza diffusa, un cambiamento che non porterà a una cancellazione di questo tipo di strumenti, ma a una derubricazione d'interessa, a uno dei molti "attori" sulla scena e non più a incontrastato protagonista.
Vale per la mia generazione e ancor più per quelle che la seguono, specialmente per i ragazzi e le ragazze che con i social convivono dalla loro nascita e per i quali la "sbornia" passa anche prima.
Considerando che non siamo i primi ad essere scesi dalla pianta e la storia è maestra di vita, per convincermi faccio l'esempio della televisione. Mio padre l'ha "scoperta" nella sua maturità ed in casa nostra è diventata presto un totem, occupando tutti i momenti lasciati liberi dal lavoro o dallo svago in compagnia. Il televisore era sempre acceso, anche durante il pranzo e la cena e ce n'era uno in cucina, uno in salone, uno in ogni camera da letto. E non solo c'erano i televisori ed erano accesi, bensì catturavano l'attenzione, si guardavano ovunque, e il suono che più ricordo della mia infanzia è stato: "Shhhhh", a indicare silenzio, per fare sentire ciò che si diceva in televisione, per non fare perdere una parola.
Sono cresciuto così, felice e senza trauma apparente, imparando un sacco di cose, non ultimo il lavoro che attualmente faccio e che mi fa alzare contento ogni mattina. Di contro, attualmente a casa mia il televisore resta a lungo spento, non è mai acceso quando si mangia ed è tornato "a misura d'uomo", quasi che io a differenza di mio padre sia stato vaccinato e diventato autoimmune, evitando l'esagerazione di una stortura.
Sono convinto - un'intuizione, senza prova scientifica alcuna - che  lo stesso accadrà con i social. Lo sforzo che faccio è provare ad immaginare cosa grazie è cambiato per sempre e cosa invece è mutato ma non nella sua essenza e passato il bagliore della rivoluzione torneremo a vederlo ed apprezzarlo nella giusta luce, ritrovando un equilibrio che come tutti gli innamorati abbiamo perso, ma alla fine sempre torna.

P.S. Il tema dei social network e della loro evoluzione chiama in causa ciò che reputo adesso, ma pure come la pensavo prima. Qui l'elenco incompleto di qualche post in cui ne ho parlato, in passato.
Ad esempio c'è stato un Giorgio a.F. (avanti Facebook), oppure sulla Generazione Social Network, oppure su Twitter, che è stato il primo che ho "abbandonato", mentre allora mi pareva tanta roba.

venerdì 5 luglio 2019

Meno teoria (Imparare, dalla vita)


Imparo sempre, da tutti. Da coloro con i quali cammino accanto, fianco a fianco, per scelta, così come da quanti incrocio per caso, in un istante che illumina la strada.
Nei giorni scorsi sono stato testimone di storie che per motivi differenti hanno offerto lezioni di vita.
La prima ha per protagonista Mustafà, il portiere della squadra di calcio del San Carlo, che ha vinto il torneo dei rioni al mio paese. Mustafà viene dal Senegal, ha poco più di vent'anni e la pelle colore della notte, ma non la nostra, la sua, quella di quando in Africa non c'è la luna. Mustafà non doveva giocare, qualcuno aveva storto il naso e sulla scia di quanto avviene per questioni simili la discussione sui principi stava portando al muro contro muro o al tavolo ribaltato, della serie: "Se è così ciascuno per conto suo e non facciamo nulla". Poi la squadra in questione non aveva il portiere, la necessità è diventata virtù e quello che la teoria impediva s'è trasformato nei fatti in un'opportunità di comprensione, di integrazione, di crescita. Il San Carlo ha meritatamente vinto il torneo, anche grazie alla bravura di quel ragazzo che non ha cittadinanza italiana ma un talento utile per gli altri e chi prima storceva il naso alla fine ha festeggiato con lui, come meritava.
La seconda riguarda il tennis, tre ragazze del Circolo Città dei Mille di Bergamo, sconfitte l'anno scorso davanti al pubblico di casa nella finale dei playoff nazionali e che quest'anno la stessa finale l'hanno vinta, a Messina. Un successo che corona una stagione intera ma che personalmente mi ha impressionato per la varietà delle giocatrici e nel contempo la possibilità di fare leva proprio sulle diversità per centrare un obiettivo, dimostrandosi una squadra.
Ksenia è una professionista, gioca per denaro, gira mezza Europa per tornei ed è una macchina. Lo sport per lei è uno scalino, uno strumento, e lo approccia con lo stile con cui i suoi avi pescavano nei laghi del Kirghizistan, con metodo e costanza, poca fantasia, molta efficienza, puntando al risultato, senza fronzoli o filosofia.
Chiara, la più giovane del gruppo, è colei che mi ricorda più i miei figli, Giacomo soprattutto. Lo scrivo perché così come per lui ho l'impressione che invece di essere sottoposta a pressione per giocare al meglio abbia bisogno di mente sgombra, di tranquillità, di lasciare che il braccio e le gambe ragionino, non la testa. Il talento non le manca (come ha dimostrato nel tie-break finale e decisivo del doppio), è lo sprone altrui, la carica a molla che per lei rischia di diventare una briglia.
Infine Stefania, una persona speciale, che conosco e ammiro da anni ed è una dimostrazione infinita di cosa significhi non mollare mai, andare oltre l'ostacolo, avere cuore, anima, grinta. Non per caso in due campionati di fila non ha perso una partita, portando a casa pure il singolo di Messina. "Sul campo do tutto, non sempre seguo la ragione, agisco d'istinto e sono impulsiva" ha scritto su Instagram. E' vero, per questo ogni volta che gioca mi emoziona ed è diventata per me un esempio, nel lavoro, nella vita, tanto che quando sono tentato di lasciare perdere - mentre sto scrivendo un articolo oppure quando corro sotto il sole cocente e avverto forte la fatica oppure quando affronto una discussione che non mostra traccia di soluzione alcuna... - me la immagino in campo, con la sua faccia seria, la postura che la fa sembrare più imponente di quanto in realtà sia, e stringo i denti, tengo duro anch'io, scoprendo che per imitazione si possono apprendere doti preziose quanto rare, quali la determinazione, la tenacia, la perseveranza.

P.S. "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero". La fecero. Fatti, non parole. Storie, non teoria. Lo appunto qui, poiché anche io corro il rischio di arrovellarmi sulle idee, di incaponirmi sui principi. Nella vita però è importante sì fissare alto lo sguardo, ma altrettanto tenere i piedi saldi per terra, sporcarsi le mani anche, impastare le idee con il sudore della fronte, i sacrifici, la fatica, l'esperienza. Lasciando che tutto ciò sia come il greto di un torrente, di un fiume, che non lascia mai tali e quali i ciottoli che incontra, ma li leviga, modella, trasforma.