sabato 31 dicembre 2022

Parole senza spine (Felice viaggio)

Con una mano stringo l’asola che chiude il sacco dei mesi passati, con il palmo dell’altra stendo la sabbia sulla quale disegnerò i giorni che verranno, solerte raccoglitore di note a margine senza data di scadenza.
Niente conti oggi, nessuna somma algebrica, zero riassunti, soltanto propositi buoni per tutti, in prossimità dell’anno che inizia.
  • Parlarci con riguardo.
  • Evitare sdegno, indignazione, sarcasmo, scherno, rabbia.
  • Mettere un freno alla lingua.
  • Contare fino a dieci prima di aprire la bocca o scrivere sui social.
  • Non replicare a tono se il tono altrui è quello dell’aggressività, dell’irritazione, del sospetto, della supponenza.
  • Pensare che l’altro o l’altra, qualsiasi altra o altro, hanno una fragilità, una debolezza, un punto di rottura.
Non teoria, bensì buone pratiche prese a spunto da un libro: “Le parole sono finestre (oppure muri)” ovvero l’utilizzo di "un linguaggio che permetta a noi stessi di esprimerci con onestà e chiarezza, prestando verso gli altri un’attenzione rispettosa ed empatica".

P.S. All’anno nuovo non è arrivato, Felice di nome e per parecchi anni di fatto, nonostante la fatica del lavoro, i sacrifici, il morso della malattia. Delle malattie anzi, poiché molte sono state le sofferenze patite, alle quali ha reagito ogni volta con una compostezza e con una dignità che viene da togliersi il cappello pure se un cappello non lo si indossa.
Felice Luraschi, collega e amico di mio padre, ha compiuto l’ultimo dei suoi molti viaggi stamattina. Non guidando un camion o manovrando una gru, come ha fatto per una vita, circondato dalle persone a cui ha voluto bene, a cominciare dalla moglie, dai figli, la sua famiglia.
Di lui non scorderò mai il garbo, l’esser gentile, una finezza soltanto in apparente contrasto con il mestiere di raccoglitore di metalli che si era scelto e che lo ha visto fondare un’azienda.
Ecco, ora che ci penso, nessuno più di lui ha interpretato ai miei occhi una “comunicazione non violenta”.
Proprio per questo che riposi in pace sono certo, avendo egli sempre seminato pace quando era in vita.

giovedì 8 dicembre 2022

Non è mai (Troppo tardi)

Se ne sono andati in molti, con alcuni sono stato anni fianco a fianco, per lavoro.
Antonio Marino, Marcello Dubini, gli ultimi in ordine di tempo, uno a La Provincia, l’altro al Corriere di Como.
Due persone diverse, unite dallo stesso mestiere, il mio.
Se non ne ho scritto prima non è per distrazione o indifferenza, bensì per evitare il rischio che parlando di loro mi mettessi al centro della scena io.
Un pericolo che - non conoscendolo - non corro con il terzo degli “strappati da casa”, Roberto Pelucchi, cinquantenne, bergamasco.
Di lui parecchi hanno raccontato, in troppi con un punto comune: il rimpianto.
Un rammarico di volta in volta e da persona a persona diverso, ciascuno però egualmente intenso: il dispiacere di essersi negli anni allontanati, l’aver lasciato che una sciocchezza dividesse, il rimandare troppo a lungo una telefonata, un messaggio, un degno congedo.
A loro, a tutti loro, il peso d’una sentenza.
Per noi, per tutti noi, la possibilità di essere ancora in tempo, sfruttando magari le feste imminenti per l’occasione che sono, che offrono, che rappresentano, di riannodare i fili, archiviare i malintesi, scrivere, parlarsi, riaprire una porta, chiudere un cerchio.

P.S. Sul rischio dei memoriali ho già detto.
Esistono però le eccezioni, chi - pur parlando inevitabilmente di sé - riesce a trasmettere qualcosa di universale, di buono, di vero. Come ha fatto Mattia (Feltri), scrivendo a Cesare (Zapperi), ricordando Roberto.
Caro Cesare,
vengo qui per ringraziarti dei tuoi ricordi di Roberto, Pelù, come lo chiamavano alla Gazzetta, o Pel, come lo chiamavamo noi a Bergamo Oggi, e per ringraziare Paolo Marabini e gli altri che ne hanno scritto, magari pubblicando quella magnifica foto di gruppo in bianco e nero che credo stia sulle scrivanie di ognuno di noi, e che denuncia gli anni dalle facce di quelli che non ci sono più, il nostro caro Ennio Arengi, e ora Roberto, che era il più piccolo di tutti noi, e quel volto bambino che ha conservato nei decenni, quel sorriso esplosivo sono ormai una coltellata.
Ti vorrei consegnare, caro Cesare, la mia piccola testimonianza di quegli anni con Roberto, che arrivò da noi non ricordo più come, ma tutti lo adottammo – noi lì dentro fummo tutti adottati e tutti adottammo – e per la nostra parte lo prendemmo in cura Alessandro Dell’Orto e io. Come sai, Alessandro e io facevamo coppia fissa, ci eravamo conosciuti al ginnasio nel 1982 e ci eravamo ritrovati nella stessa redazione. Quel faccino di ragazzo transitato dal liceo al giornalismo – allora succedeva ancora – ci aveva, noi poco più che ventenni, come consegnato una dimensione di maturità, ce l’eravamo consegnata da soli, e prendemmo Pelucchi e ce lo portammo con noi nelle nostre lunghe serate fra pizzerie, birrerie, discoteche. 
Sempre in giro in tre, con Roberto che si prende la prima sbronza, fuma la prima (e credo ultima) sigaretta, una specie di esordio nel mondo degli adulti, e oggi qui potrei impilarti una serie di aneddoti strepitosi, come la volta in cui, era la festa della donna, e noi non lo sapevamo, ci ritrovammo in un ristorante, in un tavolo di centro di una sala occupata soltanto da compagnie di donne, e tutte si alzarono e ci portarono rametti di mimosa, una celebrazione al contrario, e Roberto nel tagliare la pizza fece pressione sul piatto malriposto, e la pizza gli si rovesciò sulla camicia, procurandogli un tondo di pomodoro che si portò addosso per tutta la sera.
Potrei, ripeto, raccontartene mille: partivamo alla sera dopo il lavoro, e giravamo in lungo e in largo, in quei percorsi di provincia dove incontri sempre qualcuno che conosci, e rincasavamo non prima delle tre o delle quattro, ogni notte, per poi tornare al lavoro alle otto di mattina, perlomeno io che facevo la giudiziaria. Nel 1992, Roberto, Alessandro e io andammo a Londra. Treno a Bergamo, Tgv a Milano, una notte a Parigi (scendemmo alla Gare de Lyon e prendemmo un taxi per Place de la Bastille, ignorando che distasse cinquecento metri, e il tassista impazzì, cominciò a ripetere a raffica “Dieummerde, dieummerde”, e andò a rifarsi un parafango su una barriera di cemento), la mattina dopo treno per Calais, traghetto per Dover, treno per Londra, metropolitana per Highbury and Islington, dove eravamo ospiti di un amico che aveva affittato casa da un ex fidanzato di Holly Johnson, il grande frontman dei Frankie Goes to Hollywood. 
Una volta si viaggiava così. Non so se fosse meglio o peggio, ma per noi fu una irripetibile e fantastica festa mobile, e sarei un farabutto se negassi che Alessandro e io facemmo a Roberto scherzi di ogni tipo. Sul Tgv lo convincemmo a dire “cochon” alla hostess, spiegandogli che significava tramezzino al prosciutto, e quella si trattenne a stento dallo schiaffeggiarlo. O quando a Londra prendemmo degli hamburger, credo a Covent Garden, e siccome lui lo voleva senza cipolle gli dicemmo che doveva dire “with onions”, e più quella gli metteva cipolle più lui gridava “with onions”, e infine si arrese e arrivò al tavolo con mezzo chilo di cipolle nel suo panino. 
Se devo pensare ai dieci giorni della mia giovinezza, sono quei dieci giorni londinesi, che sacralizzarono la nostra amicizia. 
Andò avanti così per qualche anno, in una frenesia, in un’ansia assurda di vita, finché Roberto non decise che era tutto finito. Scrisse una lettera ad Alessandro e a me, una lettera magnifica che mi maledico di non trovare più. Scrisse che quella fra noi tre era stata un’avventura straordinaria, ed era felice d’averla attraversata, ma per lui era chiusa lì. Troppo piena, troppo tambureggiante, e con noi due, con Alessandro e me, che eravamo e continuiamo a essere fratelli, si sentiva sempre un po’ troppo ai nostri margini o sempre un po’ troppo nel nostro fuoco. Doveva riprendere fiato.
Ormai ci si vedeva solo al lavoro, e si rideva e si cazzeggiava come sempre, ma una stagione era scivolata via. Il giornale chiuse. Io sono andato prima a Milano, poi a Roma, e non ho mai più rivisto Roberto. Mai più. Ho pensato a lui tante volte, e ogni volta ho rinviato. 
Una settimana fa, proprio mercoledì scorso, sono venuto a Milano per lavoro e a una cena sono stato avvicinato da una collega di Roberto alla Gazzetta. Mi ha spiegato tutto, mi ha detto che era ricoverato, che l’operazione era andata bene, che se gli avessi mandato un messaggio ne sarebbe stato felice. Ho aspettato qualche giorno, ma qualche giorno di troppo. Un’altra volta.
C’è un’espressione banale che adesso mi sembra avere una forza dirompente: con Roberto se ne va un pezzetto di me. Ma sono stati anni grandiosi, Robertino. E queste poche righe sono quanto resta di noi.

giovedì 1 dicembre 2022

Cosa conta davvero (Scriviamoci)

Lo spunto me l’ha dato una lettera di Giorgia, qualche giorno fa, in cui mi elencava ciò che ha imparato stando là, dall'altra parte del mondo, in particolare da amici e parenti che la ospitano.
“Sii gentile con tutti quelli che incontri; interessati e prenditi cura delle persone, di tutti; dialoga con gli estranei, essendo la prima persona ad avviare il dialogo; chiama le persone se ci pensi, anche solo se vuoi condividere con loro la migliore pasticceria di cannoli di Boston; fai sentire importante chi ti è accanto, ad esempio comprandogli dei fiori, portandoli in stazione come benvenuto o condividendo con tutti ‘sono i miei cugini d'Italia’, essendone fieri”.
Quando l’ho letto, lo ammetto, mi sono commosso.
Fosse anche soltanto per ciò quell’essenziale dettaglio, è valsa la pena saperla così lontana, a lungo.

P.S. L’importante è il pensiero.
Sì? È vero? Vero vero vero?
Allora facciamolo, spremiamoci le meningi, mettiamolo per iscritto, come “presente” di Natale o in generale per i giorni che stanno arrivando: un biglietto.
Biglietti o lettere da recapitare con generosità, mettendoci il cuore, senza troppo calcolo, risparmiando soldi e ricambiando con un valore vero, assai più prezioso: il tempo dedicato per pensarci appunto, lo sforzo di mettere i propri sentimenti nero su bianco.
Mancano settimane, possiamo farlo.
Un - ampio - elenco di persone a cui scrivere, accompagnando gli auguri con qualcosa di personale, intimo, condiviso.
Non è un’idea originale, credo sia giusto rinnovarla, ogni anno, a prescindere che le feste piacciano o si provi l’irresistibile desiderio di saltarle a piè pari e ritrovarsi a gennaio.

sabato 26 novembre 2022

Il gradino più alto del podio (A sostegno)

Si dice sarete il mio sostegno.
Non è vero. Io sto in piedi da me e da me voglio continuare a restarci, neppure troppo a lungo, andandomene un secondo prima dell’istante in cui dirò o sarò tentato di pensare: “Ai miei tempi sì che…”.
Piuttosto, voi siete spunto di partenza, trampolino, gancio in mezzo al cielo: andando avanti costringete me ad inseguirvi, a non sedermi, a restare aggiornato, cura naturale al decadimento, ch’è ineluttabile, insito nella condizione umana, non può essere evitato.
Affrontato con dignità però sì, invecchiando bene, senza tasso di acidità elevato.
Non è questione di figli, che quelli si hanno o non si hanno e a volte pure chi li ha è come non li avesse, tanto procede nella vita ripiegato su stesso, tronfio delle proprie certezze, incapace di mettersi in discussione, su tutto.
È questione di giovani, di stare loro accanto, di avere la possibilità di frequentarli in qualche modo, nelle famiglie allargate, come vicini di casa, sul lavoro…

P.S. Una nota speciale a margine la voglio mettere collegandomi all’inizio. Sulla bella parola “sostegno”. Sulla grandezza di uno Stato e di una scuola, spesso criticata, con cognizione di causa, da me per primo, che anni fa ha però deciso di introdurre la figura dell’insegnante “di sostegno”.
Certo, l'istituzione dovrebbe fare di più, non limitarsi alla forma, fornire più risorse, liberare dall’assurda burocrazia, dare compimento concreto a un’enunciazione di principio.
Però il poterlo fare meglio, il doverci credere di più, non deve sminuire il valore dell’inclusività, la promozione della diversità, il tentativo di eliminare o almeno attenuare le conseguenze della sfortuna o del destino o del caso o come si vuole chiamarlo, dando appunto supporto, sostegno.
Proprio per questo, per la bontà del proposito e per la fatica nel renderlo concreto, sono ancora più grato a chi l’insegnante di sostegno lo fa, a cominciare dalle molte persone che conosco, di cui sono parente, conoscente o amico: medaglie d’oro di una corsa ad ostacoli altrui, esse occupano - per quel poco o nulla che conta la mia considerazione - il gradino del podio più alto.

venerdì 11 novembre 2022

Decidi tu (Cinquant'anni qua)

Mi manca tutto di te. I gesti, ancor più delle parole.
Conosco il modo in cui pensavi, di ragionare, pure le increspature, le ossidazioni, le gabbie mentali figlie del tuo tempo, della storia, del tondo in cui sei nato o cresciuto.
Posso evocarli e attualizzarli, contestualizzarli al bisogno, con margine di errore in superficie, non all’osso.
I gesti invece, le abilità, la sapienza del fare, dei tuoi molti mestieri, è un vuoto che stride e urla e rode e grava: so che non si potrà colmare, ho consapevolezza piena di un patrimonio svanito, per sempre, perduto.
Mettere a dimora un albero, piantare un chiodo, riparare un guasto, intrecciare corde, stringere un nodo, alzare un peso, oleare un giunto, avviare un motore, manutenere un macchinario, vangare l’orto, sistemare tegole e coppi del tetto, cambiare una gomma, accudire animali, impilare mattoni, tagliare la legna, impastare sabbia e cemento…
Ho scarsa abilità tramandata, ma memoria su tutto, anche per la scelta di abitare nella casa che con le tue mani hai costruito e che respira ancora di te, in ogni angolo.
Oggi, proprio oggi, nel giorno di San Martino, esattamente cinquant’anni fa, entrammo per trascorrerci la prima notte, pur se non c’erano ancora porte e finestre e per riparare dal freddo avevi messo dei cellophane, alzando al massimo il riscaldamento, con il gasolio che allora costava pochi centesimi, niente rispetto adesso.
Prendermene cura e mantenerla almeno per un’altra generazione è la promessa che ti ho fatto la sera prima che lasciassi questo mondo.
Anche in quel momento hai saputo darmi esempio della tua lezione più importante, quella della libertà di scelta, dell’assenza di vincolo, chiudendo gli occhi, prima di iniziare a parlare, a tuo modo, e poi dicendo, con voce bassa, piana: “Non importa. Decidi tu. Io sono contento così”.
In quelle otto parole e l’accenno di un sorriso sta tutto il tuo testamento, il lascito di un uomo qualunque, per fortuna non esente da difetti, per me, soltanto per me, unico.

P.S. Questa non è una storia triste. Nessuna lo è, se ti riguarda. La sofferenza per la malattia, negli anni in cui ci hai convissuto, ha temprato il carattere e reso meno urticante l’ineluttabile distacco.
È una ruota che gira. Lo ripetevi spesso tu, è vero in generale e anche nello specifico.
Avrai piacere perciò nel sapere che sono andato avanti e procedo tuttora, ricordando con dolcezza il passato, ma senza aggrapparmici, cosciente che il futuro non è mai alle nostre spalle ed è giusto che siano altre generazioni a incontrarlo, comprenderlo, costruirlo, con altre abilità, spero però lo stesso stile del buono che hai lasciato.

venerdì 28 ottobre 2022

Il posto più sicuro (Ora e qui)

"La memoria è vita"
Saul Bellow

Seguo passo passo impronte delle persone a cui tengo e mi trovo a tastare con le dita il loro calco, nel punto esatto in cui s'intrecciano.
È capitato anche oggi, in occasione di un anniversario identico, pur se traslato nel tempo, tra due amiche che non si conoscono e che hanno perso il padre a quindici anni di distanza, lo stesso giorno.
Riporto qui le loro stesse parole, poiché non saprei descrivere meglio il sentimento che provano e ch'è comune a molti, a tutti coloro che hanno sperimentato la vicinanza della morte e l'eco di un dolore affine, gemello ad ogni essere umano.

Un anno senza più vedere il tuo viso, senza più sentire la tua voce, senza che il telefono suoni cento volte al giorno e dall'altra parte senta "Anto...".
Un anno lungo e faticoso, un anno vuoto, nonostante pieno di mille impegni e cose da sbrigare.
Un anno in cui non c'è stato un solo giorno in cui non ti abbia pensato, non Vi abbia pensato.
La sera soprattutto, nel mio letto, dove le lacrime possono scendere liberamente senza che nessuno mi veda.
Mi sento sola anche se sola non sono, piccola anche se piccola non lo sono più.
Vado avanti sì... Per forza... Perché devo farlo e perché il tempo scorre inesorabile e non posso fermarlo anche se lo vorrei tanto.
Ma è tutto diverso, tutto più difficile, tutto più vuoto... Anche i miei sorrisi non sono più gli stessi.
Ho perso il mio ruolo di figlia e non posso più chiamare né mamma né papà.
Invidio chi lo può ancora fare.
Vi porto sempre con me, nel mio cuore, che è il posto più sicuro in cui lasciarvi e da cui non Ve ne andrete mai.

Oggi sono sedici anni che mio papà è mancato.
La sera prima che morisse l’ho visto piangere... Per la prima volta nella mia vita. Ma le sue non erano lacrime di paura per quello che sapeva succedere di lì a poco.
In quelle lacrime c’era il suo tornare “umano”, perché un figlio vede sempre nel proprio padre un supereroe.
Ho trascorso l'ultima notte accanto a lui e le sue ultime ore a carezzargli il viso, cercando di liberarlo dal “peso” di dover essere il nostro supereroe fino alla fine.
Era giusto che potesse sentirsi umano... figlio... bambino... come forse per la vita che aveva vissuto non aveva potuto concedersi di fare fino a quella sera... Non potrò mai dimenticare la lezione che mi ha dato con quelle lacrime.
Non sono triste, perché lui è qui. E qui continua a vivere.

P.S. La morte dispiace sempre e ciascuno l'affronta a modo proprio, senza risposta al perché d'un tale dolore, che resta un mistero. Unica consolazione, pallida e vivida al tempo stesso, è la possibilità che concede la memoria, di tenere chi è caro con sé, nel modo più intimo: un dono inestimabile, che però paghiamo caro, finché la ferita diventa cicatrice e il dolce si mangia l'amaro.

giovedì 27 ottobre 2022

Sua Altezza (Milan l'è un gran Milan)

"L'umiltà è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla".
Mario Soldati

Alto non è soltanto quanto sei, ma il punto esatto in cui inviti tutti noi a guardare: oltre, sempre, all'orizzonte.
Hai il cuore più gentile che abbia conosciuto, a pari merito con altri, tu tra i pochi tuttavia a detenere sulla carta il diritto di conservarlo chiuso, cocciuto, con la vita che ti ha messo a dura prova quando eri ancora bambino, per vicende che in altre pagine ho raccontato.
Invece no. Invece la privazione e la sofferenza non ti hanno corrotto, il bene ha saputo prendersi in carico il male e tramutarlo.
Partire da lì sarebbe facile per spiegare il motivo che oggi mi rende felice, orgoglioso: la storia del ragazzino a cui è dato molto, viene tolto altrettanto e arriva in cima, ripartendo da capo.
Voglio evitare però di essere scontato o, peggio, retorico.
Preferisco sottolineare i sacrifici, la fatica, il peso che hai portato sulle spalle in questi ultimi anni, facendo carriera e gestendo una posizione di ardua responsabilità sul lavoro e nel frattempo studiando intensamente, investendo ore ed energie alla famiglia, a Dina e a Viktor, allo svago, al tempo libero.
Ecco perché vederti lì, con la stola e il cappello e il diploma dell'Executive Master in Business Administration, in gruppo con gli altri - tu, sempre il più alto - mi ha commosso nel profondo e reso ancor più orgoglioso di esserti amico, "fratello" maggiore che impara da quello più piccolo come stare al mondo.

P.S. Riporto qui ciò che hai scritto tu, a corollario delle foto della cerimonia di assegnazione del diploma. Perché le parole che hai scelto, caro Milan, spiegano l'uomo che sei, più di un ritratto.
"Executive MBA alla Dublin City University. Sì, ce l'ho fatta! Tuttavia questo post non riguarda me, riguarda le persone dietro le quinte che hanno reso possibile tutto questo per me.
Questo post riguarda la resilienza e i miei cari che hanno altruisticamente sostenuto la mia ambizione - Grazie!
Il mio più profondo apprezzamento ai miei colleghi, ai miei professori Dublin City University per tutto il supporto e le conoscenze trasferite negli ultimi 2 anni.
Un ringraziamento speciale a Alexion Pharmaceuticals, Inc. a tutti i miei mentori e leader organizzativi che mi hanno supportato e riconosciuto l'opportunità.
Grazie a tutti!".

mercoledì 26 ottobre 2022

Il passo in più (Cambia la vita)

"Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L'audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora".
Johann Wolfang Gothe

La casa è spoglia, ma non di arredi, né oggetti.
Mancate voi, che con tempi e modi differenti avete preso il volo per un'esperienza di lavoro (in Irlanda, Giacomo) e di viaggio (negli Stati Uniti, Giorgia).
Tralascio il resto, il nodo di sentimenti contrastanti - apprensione e orgoglio, gioia e malinconia... - che condivido con vostra madre, puntando piuttosto alla constatazione di quanto il bello, il buono, il giusto, il vero importino più dell'utile, del profittevole.
Non che il profittevole e l'utile non esistano, tutt'altro, compiendosi però come nota a margine, conseguenza diretta e non scopo primo. Così come accessorie risultano le nozioni, comprese quelle principali, l'apprendimento di una nuova lingua, l'incontro con una diversa cultura.
Piuttosto, se un rendiconto di autentico valore occorre trovare, lo indicherei nelle conoscenze umane, nelle relazioni, nei legami forti e ancor più in quelli "deboli" che si incrociano e instaurano.
Ecco perché mi permetto di sottolineare un consiglio: osate.
Sì, osate. Siate audaci, impertinenti persino, curiosi, coraggiosi, spavaldi.
Bussate alle porte, suonate i campanelli, chiedete.
Con buona educazione, ovvio. In punta di piedi o comunque con lo stile che vi distingue. Ma osate. Fate quel "passo in più" in continuità con il cammino che avete scelto, uscendo dalla zona di conforto, non semplicemente lasciando casa, ma rendendone più ampio il recinto.

P.S. Il passo in più, "The Extra Step", è anche il titolo dell'ultimo libro di una persona che stimo, il professor Mauro Cavallone, docente all'università di Bergamo.
E' stato lui a raccontarmi un episodio che mi ha colpito e affascinato. Lo si è può ascoltare in questo video, provo a riassumerlo io, con i due aspetti che - a mio parere - contano.
Il primo è che ogni sconfitta o delusione o amarezza o inciampo contiene il seme del possibile riscatto. Nel suo caso, essere escluso da una borsa di studio universitaria per gli Stati Uniti.
Il secondo è che essere audaci, osare, offre opportunità maggiori delle intenzioni iniziali, inimmaginabili quando si compie il primo passo, si chiudono gli occhi e ci si getta, come in un tuffo. In questo, stupendo e mirabile è quel giovane italiano che a Philadelphia si imbuca nella sede di una mega banca, sale le scale e chiede di essere ricevuto, di poter parlare con il responsabile dell'ufficio, incontrando il mentore che gli cambierà la vita, trasformando il caso in destino.

lunedì 24 ottobre 2022

La sindrome di Giove (E se…)

E se, come gli alberi che sotto stress (per siccità, malattia, attacco di un fungo…) temendo per la loro sopravvivenza, producono sovrabbondanza di frutti, di semi, anche gli esseri umani presagendo o ritenendo inconsciamente di intendere una fine imminente, fossero portati a rispondere al richiamo della specie, al desiderio atavico e fortissimo di riproduzione…
E se la mente non conoscesse ciò che invece il resto della persona (“il cuore”, “le viscere”, uno dei molti nomi con cui la sapienza antica ha chiamato il “sentire senza sapere”) avverte, percepisce…
E se davvero l’essenza della vita passasse dal tallone di Achille, dal gomito di Àmico, dal fianco sotto il braccio di Aiace, da quei pochi o da quell’unico elemento di vulnerabilità, di fragilità, di debolezza che ci caratterizza, ben più profondo e più vero del lato migliore di noi, "quello che - come scrive Alessandro Gelain - non sbaglia mai, che ha sempre successo, che non teme nulla e che non ha bisogno di nulla. Mentre anche la persona più forte, più sicura di sé, ha un piccolo, limitato, circoscritto spazio della pelle in cui è vulnerabile. Noi cerchiamo di nascondere questa debolezza e ce ne vergogniamo, mentre dovremo andarne orgogliosi, in quanto in tutta l'inflessibilità della nostra vita, quella piccola vulnerabilità rappresenta il luogo dove possiamo essere veramente feriti, abbattuti, dove possiamo tornare ad essere degli esseri umani"...

P.S. A proposito di vulnerabilità. “L’animale che mi porto dentro” di Francesco Piccolo è un romanzo piacevole da leggere e nel contempo custode e rivelatore di una profonda verità, su noi, sui maschi: il resoconto parziale e insieme sostanziale di un genere che risponde a istinti atavici, forgiati in milioni di anni, e a strutture culturali che di anni ne hanno soltanto migliaia, ma comunque tanti.
“Sopravvivenza e riproduzione” quelli principali, detti appunto di “specie”.
Io la chiamo “Sindrome di Giove”, prendendo a spunto i racconti dei miti greci e romani, con l’insaziabile voluttà del maggiore tra gli dei, colui che ha saputo aggiogare l’inesorabile trascorrere del tempo (Cronos) sopravvivendo più a lungo possibile e soprattutto spargendo seme, fecondando, riproducendosi.
E se la cultura ha posto distanza tra istinto e azione, l’istinto comunque rimane: non nasconderlo, ammetterlo, è il primo passo per contenerlo o almeno conviverci, serenamente, senza lacerazioni o  insanabili fratture.

domenica 23 ottobre 2022

Il cuore in pace (Per fortuna)

"La fortuna guida dentro il porto anche navi senza pilota".
William Shakespeare

“È una questione di fortuna”. Lo hai detto così, come s’appoggia la vanga in un angolo dell’orto o si ripone il mestolo nel lavandino, senza quasi pensarci, senza darvi troppo peso.
Una constatazione quasi ovvia, scontata, senza pretese di insegnamento, con la spontaneità delle certezze che si hanno, che si sentono.
Sei la persona che stima se stessa di meno e quella che ammiro di più, che considero fondamento del buono che ho combinato, spessore e sostanza delle famiglie a cui abbiamo dato continuità, anelli di catena che si intrecciano man mano.
La domanda che ti ho fatto riguardava proprio questo, la famiglia, i figli.
Da cosa dipende se sono “bravi” o meno? Come mai alcuni crescono sereni e se la cavano senza problema ed altri inciampano, s’affannano, restando impigliati in reti e in lacci che soltanto all’ultimo, quando ormai è tardi, vediamo? Perché a noi, per il momento, all’apparenza, finora è andata bene ed altri, non tanto distanti, non così diversi da noi sembra vada peggio, con pene e preoccupazioni e patimenti che schianterebbero un mulo?
“È una questione di fortuna”. Hai ragione tu.
“È una questione di fortuna” perché la fortuna - la disposizione naturale, le circostanze, le compagnie che si incontrano… - conta altrettanto, se non più dell’impegno, dell’intelligenza, del merito.
Riconoscerlo, esserne consapevoli, è fondamentale per osservare la realtà nella giusta luce ed evitare di restare schiacciati dalla responsabilità quando le cose vanno male o non girano per il verso giusto.
Noi contribuiamo al destino nostro e delle persone a cui teniamo, ma quello stesso destino non dipende da noi, dalla nostra bravura, dalla nostra volontà.
Mettiamoci il cuore in pace. Riconosciamolo.

P.S. Di “merito”, complice la nuova denominazione del ministero della pubblica amministrazione, si parla e si scrive parecchio in questi giorni, non sempre a sproposito, tendenzialmente però schierandosi, come sempre, com’è facile, o di qua o di là, giusto o sbagliato, bianco o nero.
Da parte mia, resto convinto che il merito sia cosa buona e giusta, a patto di non considerarlo l’unico criterio discriminante, il solo santo, un totem a cui inchinarci o, peggio, una clava da brandire.
Per chi vuole approfondire davvero l’argomento consiglio “La tirannia del merito” di Michael J. Sandell.

sabato 22 ottobre 2022

Tu lo chiami (Invece io)

Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti.
Platone

Tu lo chiami "eccesso di democrazia", io "partecipazione al processo di decisione" (che solo se ci passi, da lì, se ti sporchi le mani e ci sbatti la testa, a discutere, esce qualcosa di bello o almeno di meglio, rispetto al punto in cui eravamo partiti).
Tu lo chiami "non sapere niente", io "sentire tutto" (che si sente anche ciò che non si sa e, per farlo, per sentirlo, non basta la testa, occorre tutto il corpo, il cuore, la pelle, le viscere, esattamente come racconta Omero di Ettore, che avvertiva il pericolo funesto che gli incombeva sul capo pur senza vedere ancora nemici all'orizzonte).
Tu lo chiami "poco rispetto del mio lavoro", io "libertà reciproca e responsabilità di svolgere il mio" (con tutti i miei limiti, le difficoltà, gli errori, mai certo di nulla e insicuro su tutto, sapendo però che qualcuno deve decidere e che decidere vuol dire tagliare e che tagliare comporta un dolore, e se quello è il mio compito non posso scansarlo, tanto vale farlo di testa mia, ascoltando tutti, senza voler tutti accontentare).

P.S. Se c'è un comportamento di cui sono grato è la sincerità di chi mi parla schiettamente, di non risparmia critiche, di chi non è più realista del re, di chi muove accuse palesi, delle voci fuori dal coro, di chi osa criticare. Grazie a loro, infatti, grazie al loro essere martello, la mia lama si affila sull'incudine, mettendo alla prova le certezze, permettendomi di cambiare opinione, se il caso, o restando della mia, conscio però di eventualmente sbagliare, ma per convinzione, non per sciatteria, sciocchezza o distrazione.

venerdì 21 ottobre 2022

In panchina (Divertendosi)


"Scrivo meno, è vero, ma non del tutto. Da molti mesi a questa parte, ogni giorno, dal lunedì al venerdì, do il buongiorno commentando una fotografia sulla pagina Fb di Storylab. Immagini che sanno essere un piacere e un pretesto, per raccontare un pezzetto di storia, di mondo e anche di me stesso".

Lo scrivevo esattamente sei anni fa, in un tempo che - è il colmo - pare sparito dalla memoria, almeno nel mio orizzonte privato. Invece c'è stato, invece per mesi e mesi ho fatto quello, sentendomi come in panchina ma dilettandomi in ciò che mi piace di più: scrivere, raccontare, inventare, restando in relazione con una comunità, rendendomi utile in qualche modo.

P.S. Questo è il testo che accompagnava la foto qui sopra.

 "Dimmelo tu cos'è. Quello che ancora ci manca, e che ti prende alle spalle e non ci fa tornare indietro. Dimmelo tu cos'è".
Lo domanda Venditti, provo a rispondergli io, mentre osservo questa fotografia e vorrei con buona parte delle mie forze essere lì, tornare bambino, mettere le calze bianche traforate a gambaletto e i sansaletti blu con quattro buchi, i calzoni corti e la maglietta della Susanna, del formaggino Tigre o del Plasmoniano.
Vorrei anche soltanto per un istante provare l'emozione di allora, con un pallone tra i piedi o giocando a nascondino ad un angolo di strada che potrebbe essere questa, tra via Maglio del Lotto e la strada provinciale 591, in barba ai - rari - pericoli e alle auto che passavano. E vorrei accarezzare il viso di quella bimba bellissima, con il vestitino bianco, vorrei sussurrarle quattro parole all'orecchio, piano piano, le uniche che mi sarebbero venute in mente allora, con cuore grande, come ogni bambino: "Vuoi essere mia amica?". E non importa se non mi avrebbe risposto, sarei stato già felice per un sorriso, uno sguardo, un sospiro. I silenzi dei piccini dicono più di un romanzo.
Cosa manca allora, cosa ci prende alle spalle e non ci fa tornare indietro?
Credo non sia qualcosa che manca, bensì il troppo che abbiamo, che conosciamo.
Il desiderio di diventare grandi ci ha fatto crescere ma anche corrotto, sottraendo dal conto dei nostri giorni l'innocenza, lo stupore nell'osservare il mondo. Una meraviglia che non è scomparsa del tutto, a volte la proviamo ancora, come adesso, guardando questa fotografia e chiudendo gli occhi, di scatto, immaginando di essere noi quei bambini e tornando per il tempo di uno schiocco di dita esattamente come loro.

giovedì 20 ottobre 2022

A pian terreno (Ogni tanto mi fermo)

“Tutte le cose cambiano. Coltiva la flessibilità piuttosto che la perfezione.”
Jewel Kilcher

Era l'inizio giugno del 2008. Il 6, ad essere esatto. Scrissi una mail alla redazione della cronaca, a quei colleghi che avevo da poco. L'ho ritrovata oggi, per caso o forse - sarebbe più corretto dire - per ostinazione, a conferma che a volte non fare completa pulizia ha un proprio positivo tornaconto.
La riporto qui, pari pari, come documento.
Carissimi,
due o tre cose, dopo i primi due giorni di apnea.
Innanzi tutto, grazie ancora per la generosità con cui mi avete accolto. Mi rendo conto (non era difficile immaginarlo, per altro) di avere la responsabilità di un capo servizio e le “conoscenze macchina” di uno stagista. Cercherò di apprendere il più possibile in questi primi mesi riguardo quello che non so e di mettere a disposizione invece già da subito le competenze per cui mi hanno voluto qui.
Come avete notato, io per primo cerco di essere molto disponibile al dialogo, al confronto, sia sui massimi sistemi, sia sul senso di una notizia, sia sulla confezione di un articolo, di una pagina o sulla decisione di una foto o di un titolo. Come ogni azienda le decisioni si prendono in base alle responsabilità, ma il metodo partecipativo nella fattura di un giornale, è quello che secondo la mia esperienza garantisce i risultati migliori.
Nelle intenzioni c’è di entrare “a pieno regime” redazionale dalla seconda metà di settembre, nel frattempo però ogni giorno è buono per affinare la conoscenza reciproca e cominciare a introdurre qualche novità (lo so, la novità è sinonimo di cambiamento e il cambiamento è sinonimo di stress, ma ce la possiamo fare).
La mia idea è quella di introdurre ogni giorno, nel pomeriggio, un incontro di tutti i redattori della Cronaca presenti in giornata in cui si prende in esame il giornale pensato al mattino, per ricalibrarlo in base alle novità emerse o emergenti e per definire i carichi di lavoro. Durata massima del tutto: mezz’ora. Orario: da definire (potrebbe essere le 16)
Prima di testarla, volevo però raccogliere da voi – se ce ne sono – pareri, proposte, pro e contro, a cominciare dall’orario meno indolore e più utile per farlo.
Grazie
Giorgio

P.S. Ho salito i gradini due a due, spesso di corsa, senza rendermene conto. Ogni tanto mi fermo, guardo giù e richiudo gli occhi lesto, per evitare un capogiro. Eppure, nella scala infinita della vita, mi sento sempre a pian terreno.

mercoledì 19 ottobre 2022

Bandiera rossa (Il mondo capovolto)

"Nelle grandi aziende il divario salariale tra lo stipendio medio dei dipendenti e il top management è passato da venticinque volte tanto del 1975 al duecentosettantadue volte dei giorni nostri".
Mehlman Castagnetti, "De Global: Ten Trends Defining The New World"

"La lotta di classe è morta e hanno vinto loro" sostiene Barbero. Loro però sono altro rispetto alla contrapposizione in compagnia della quale sono cresciuto, con gli imprenditori da una parte e dall'altra l'operaio, l'impiegato.
Loro sono la finanza, i grandi patrimoni, una ricchezza sempre più grande nelle mani di sempre meno persone.
Tutto il resto, sta sotto. Ed è quel sotto che occorre avere l'ambizione di mettere in dialogo, a confronto, dando ad essi voce, a prescindere se si trovino sull'ultimo gradino o sul primo: la scala è comunque la stessa e non separa granché né porta in paradiso.

P.S. Raccontare, conoscere, mettere in dialogo è la costante di questi mesi del mio lavoro, nei programmi che conduco o dirigo, nelle iniziative a cui partecipo.
Lo spunto me l'ha dato Valentina Boschetto Doorly, che nel suo saggio "La terra chiama" ha scritto una pagina intitolata: "Una nuova par condicio in televisione".
La riporto per intero, anche se il suo invito si potrebbe riassume in: occorre dare voce a intellettuali, scrittori, politici, ma anche chi tiene in piedi l'economia reale del nostro paese.
"Vorrei che qualcuno, invece di preoccuparsi di pesare al nanosecondo il tempo televisivo suddiviso per partiti politici, si preoccupasse di pesare allo stesso modo il tempo televisivo dedicato, da un lato a intellettuali, scrittori e politici e, dall’altro, a chi tiene in piedi l’economia reale del paese: chi produce trattori, chi produce mobili, chi disegna gioielleria, chi disegna moda, chi coltiva zucchine e chi fa le serre idroponiche, chi apre e gestisce alberghi, chi inventa apparecchi elettromedicali, chi controlla la stagionatura del parmigiano. Pensate che non sarebbero abbastanza eloquenti da comparire in televisione? Dategli il microfono, sarete stupiti. Questa è la parte del paese che crea valore, che sta in trincea in mezzo alle pallottole che fischiano, che ipoteca la casa per proteggere l’azienda in tempi di crisi. Ciò nonostante, oggi solo un paio di programmi sulle reti nazionali trovano interesse a farli parlare, raccontare, spiegare i loro mondi - che, incidentalmente, rendono possibile il nostro - e articolare le loro distanze (e comunque mai in prima serata). Eppure, amici, tutti gli altri sistemi dovrebbero essere altro che un supporto a tutto questo. Il resto, davvero, è puro contorno".

martedì 18 ottobre 2022

Le ragioni degli altri (Spiegate bene)

“Si misura l'intelligenza di un individuo dalla qualità d'incertezze che è capace di sopportare.”
Immanuel Kant

I fatti contano più delle parole, ma è con le parole che vivo.
Anche guadagnandomi il pane, facendo un mestiere che mette la parola, il racconto, al centro.
Nessuno me lo ha chiesto - ed è indice di quanto possa importare - lo scrivo lo stesso, come sempre, a futura memoria, per lasciare traccia di un programma che conduco e di ciò su cui poggia, cosa sta sotto e dietro.
"Le ragioni degli altri" è un titolo e insieme uno stile, un modo di guardare il mondo, un invito.
L'obiettivo, come ripeto spesso quando sono in compagnia degli ospiti, è provare a mettersi nei panni altrui, proporre le proprie convinzioni e cercare di comprendere quelle di colui o colei o coloro che stanno di fronte, gli altri appunto.
Se poi mi potessi allargare, spiegherei che è il rifiuto del "metodo eristico", cioè ciò che propongono nove trasmissioni su dieci: discutere cercando di aver ragione sull’avversario, e il tentativo di proporre il "metodo veritativo", che - spiega Umberto Galimberti - "prevede che coloro che discutono si amino e si mettano insieme per cercare la verità, l’opinione che sta su da sé, l'episté, ciò che sta su, come una colonna".
Si parte da tanti "secondo me" e insieme si cerca di individuare un "secondo noi".
Per farlo occorre essere tolleranti, ritenere che l'altro abbia un "gradiente di verità" pari o superiore al mio, entrando così veramente in dialogo, un confronto con chi è veramente diverso da noi.
Altrimenti sono solo pacche sulle spalle e crescita zero.

P.S. Chi ha figli sa che si amano tutti con intensità uguale e maniera differente. Lo stesso vale per gli ospiti che hanno di volta in volta accettato di mettersi di fronte a me e cercare insieme di conoscere e conoscersi, un po' meglio. Ecco perché non ne scelgo nessuno e indico dove potete trovarli tutti (cliccando qui), neppure in ordine sparso.

lunedì 17 ottobre 2022

Vocal (Coach, di me stesso)

“La velocità è cosa buona, ma l'accuratezza è tutto.”
Wyatt Earp

Ho scoperto di recente l'ovvio. Una delle tante ovvietà, meglio, cioè che esiste una velocità di crociera - quattro chilometri all’ora - superata la quale è più difficile pensare, riflettere, ragionare.
Camminare è un ottimo modo per concentrarsi, per elaborare pensieri, pure per dialogare con l'altro, farlo a passo sostenuto è più difficile, se poi si corre addio del tutto.
Una condizione, quella della lentezza, dell'andare adagio (ad agio), non sufficiente ma necessaria per far funzionare a pieno regime il cervello. Il nostro almeno, di noi esseri umani a cavallo di questo scorcio di millennio, il primo che introduce la velocità non soltanto dal punta di vista fisico, ma pure mentale, grazie alla tecnologia, ai computer, alla rete. Una rapidità tonante, un guizzare di informazioni di cui non sempre ci accorgiamo, se non indirettamente, essendoci immersi, continuamente sollecitati a risposte che siano all'altezza di tale stimolo, allenandoci a nostra volta ad essere svelti, lesti, spicci, pronti.
Me ne sono accorto ieri l'altro, notando che sempre più spesso evito di rispondere ai messaggi in forma scritta, optando per i vocali, che accorciano i tempi necessari ad esprimere un concetto, senza la scocciatura - la perdita di tempo - del conversare tradizionale, al telefono.
Però, per quel barlume critico che mi resta appiccicato addosso, nonostante il rischio di diventare noioso per primo a me stesso, non riesco a ignorare in questa modalità un rischio, un pericolo.
Esattamente come se si corresse sempre, togliere il tempo dell'attesa imposto dalla scrittura non è esente da limiti, presenta sempre un conto, fa perdere qualcosa, cambiando la forma stessa del comunicare e non  facendoci soltanto risparmiare qualche secondo.

P.S. Sono ovvietà, lo so. Esperti e studiosi ben più competenti avranno già riflettuto (senza fretta, spero), meditato, scritto, dibattuto. Io però lo appunto qui lo stesso, come promemoria, come sempre, primo per me stesso.

domenica 16 ottobre 2022

Una seconda possibilità (Riconoscenza)

“Umuntu ngumuntu ngabantu. Io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”
Proverbio africano

Riconoscere mi piace come verbo, poiché anche ai distratti, ai superficiali, ai supponenti, concede una seconda possibilità.
Sono riconoscente verso molti, una schiera che pure a quella degli angeli e dei santi farebbe concorrenza, tanto che se dovessi prenderne intera consapevolezza finirei con il restare schiacciato, rendendomi conto di aver ricevuto assai più di quanto abbia mai dato e possa in futuro dare.
Debbo gratitudine nei più svariati ambiti, da quello famigliare a quello professionale, passando per amicizie, passioni, amori, passatempi, svaghi...
Quando mi definisco "un uomo fortunato" non millanto, non esagero, non pecco di immodestia. Mi limito a guardare con lucidità alle mani che mi sono state tese, agli buoni che ho incrociato, alla compagnia e ai favori di chi ha messo me al primo posto, fosse per un istante, in coda allo sportello delle poste, o per una vita.

P.S. Scegliere uno, in casi come questo, non è fare torto a tutti gli altri, bensì estrarre semplicemente dal mazzo una carta, portare esempio per evitare di ricorrere a un elenco.
Angelo Curtoni è stato il mio primo direttore - non ne ho avuti molti e a tutti sono grato - forse il meno potente, tuttavia colui che per primo ha investito su di me, concedendomi dapprima fiducia e poi stima, ricambiata. Con il passare del tempo e per uno di quei riccioli del destino che rendono la vita sapida, m'è capitato poi di passare dall'altra parte della barricata ed essere io a commissionargli articoli, che lui puntualmente consegnava. Ieri l'altro, per caso, me n'è capitato sotto occhi uno, spuntato per caso - se il caso esistesse - dalla posta elettronica. Si intitolava: "Storie ferragostane: il guaito del cane e il pianto dell'uomo" ed è stato pubblicato su La Provincia il 17 agosto di quattordici anni fa, nel 2008.
Lo copio e incollo qua, a futura memoria.

L'estate è stanca e consumata e vuol ritirarsi. E con essa se ne vanno anche le vacanze. In compenso esce ancora acqua fra i lastroni di piazza Cavour: responsabile una falda acquifera su cui, sembra, poggia la città murata. Tanto per complicare le cose. Ma lasciamo che i problemi comaschi decantino e rilassiamoci con un apologo estivo.
Ero andato in questi giorni a far la spesa in un supermercato e ad un palo metallico dove si allineano  i carrelli vi era, legato con il proprio guinzaglio, un bastardino. Si agitava ma adagio, come rassegnato, e guaiva. Faceva pena.
Dopo circa mezz'ora avevo riportato il carrello e, stupito, avevo notato una ragazza che stringeva fra le braccia il cane, che non si agitava più ma tremava, come avesse la febbre. Incuriosito, avevo chiesto alla ragazza se il cagnolino era suo e lei mi aveva risposto di no, che l'aveva notato al mattino legato a quel palo e, tornata nel pomeriggio, l'ha trovato ancora lì, spaventato e piangente. E allora aveva capito. I suoi proprietari l'avevano legato a quel palo poi, invece di entrare per la spesa, erano risaliti in macchina e se n'erano andati in vacanza. Insomma, aveva concluso, l'avevano “scaricato”.
Più o meno nello stesso tempo m'ero accorto di non incontrare più un mio vicino di casa a passeggio col suo cane. Era una coppia che dava nell'occhio per la sproporzione fra l'uomo e l'animale. Lui, circa uno e novanta spalle larghe e pancia incipiente, il cagnolino un pugno di peli color champagne lunghi e setosi, piccolo come un peluche, quattro etti di cane o giù di lì. L'uomo camminava a passi lenti e pesanti per adeguarsi al cagnolino che zampettava veloce. Poi, al rientro, prendeva in braccio quel pugno di peli che sembrava un giocattolo ma era vecchio e non riusciva più ad arrampicarsi sulle scale che, per lui così piccolo, sembravano l'Everest.
Ora è morto perchè era giunta la sua ora. Me l'ha detto il mio vicino che non è riuscito a trattenere le lacrime. Un pianto inconsolabile. Nonostante la sproporzione fisica, o forse anche per quella, si volevano bene. 
Due storie tristi. Che dovrebbero insegnare qualcosa. Anche nel bailamme di Ferragosto.

sabato 15 ottobre 2022

Oltre lo steccato (Il legame creato)

“A stare tra sorelle e fratelli si può continuare a essere bambini in eterno.”
Banana Yoshimoto

Aggiungo una postilla, al post di ieri l'altro,  per raccontare un pezzetto importante di te, una caratteristica che ti distingue e mi auguro tu non perda mai: la sensibilità.
Nonostante i tuoi silenzi, le tue asprezze, alcuni infantilismi, nonostante il tuo essere permaloso, l'ammettere raramente il torto, il fare spesso l'offeso, nonostante le distese di vuoto che a volte mi pare di intuire oltre lo steccato che poni a difesa di ciò che provi veramente, c'è un cuore buono, che sa mettersi nei panni altrui, che tende a rammendare strappi, a medicare ferite.
Un'impressione che ha avuto conferma stamane, un sabato in cui - a differenza degli altri - non hai potuto dormire a lungo, a riposo dalla scuola, poiché in calendario era prevista una mattinata di "motoria", a Cernobbio, fuori portata di corriera.
Così mi sono svegliato anch'io, per accompagnarti, poco dopo le sette di mattina, e quando sono sceso, la prima cosa che ti ho detto è stata: "Dura eh, alzarsi presto?", sentendomi rispondere: "Sì sì, ma mi spiace per te, perché ti sei dovuto alzare anche tu".
Anche tu. Anch'io. Che mi sono sciolto sentendotelo dire, senza retorica, senza voler lisciare il pelo, soltanto perché era ciò che sentivi, con quella bontà spontanea che vorrei ti distinguesse sempre come ora.
Ti ho abbracciato, ti ho detto che non c'era problema, perché problema non c'è davvero e mai ci sarà: lieve infatti è il peso quand'è condiviso e tu, rispetto a me, non sarai mai "altro".

P.S. Più difficile è il rapporto con i tuoi "fratelli", ma proprio perché fratelli e sorella sono. Se n'é accorta Giorgia, che ora, vedendoti "da lontano", apprezza di più il legame creato e fa meno caso alle incongruenze, alle fatiche, alle preoccupazioni della tua età. Si sente più sorella e meno mamma, insomma. Com'è giusto che sia, per non essere schiacciati da un ruolo che non appartiene e che finirebbe per togliere luce, oltre che equilibrio.

venerdì 14 ottobre 2022

Fra' Martina (Quanta lieta giovinezza)

"Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare".
Winston Churchill

C’è un dono, grande, che ha portato in dote il mio lavoro e che mi ha cambiato radicalmente, nel profondo, regalandomi uno sguardo nuovo, diverso.
Da quando il gruppo Sesaab ed Edoomark, insieme, hanno aperto il Mediacenter, ospitando ogni anno migliaia di ragazzi e ragazze, ho infatti la possibilità di un contatto con i giovani, un’immersione, la definirei, che altrimenti sarebbe inimmaginabile. È così che posso conoscerli, frequentarli, comprenderli ed essere compreso, apprezzarli, stimarli, imparare da loro.
Ecco perché ogni volta che mi capita di sentire una generalizzazione o discorsi nostalgici sul “noi eravamo meglio” balzo sulla sedia, mi si corruga la fronte, sento un fastidio quasi fisico, come di dita che pizzicano.
I giovani, le ragazze e i ragazzi sono speciali, sempre, in ogni epoca e in ogni luogo, portano una freschezza e uno sguardo sulla vita, sul mondo, necessari quanto l’acqua, l’ossigeno.
E non sarò mai abbastanza grato di diventare vecchio - sì, vecchio, un “boomer”, come direbbero loro, proprio dentro - avendoli però per compagni di viaggio, a darmi orizzonte e speranza che non tutto finisce, che siamo in buone mani, che non è il rumore di un albero che cade a determinare il destino, bensì i giovani alberi della foresta che cresce, senza che quasi ce ne accorgiamo.

P.S. Una di quelle giovani, Martina Fidanza, ospite da noi quattro anni fa, nel frattempo ha continuato a pedalare, diventando ieri l’altro campionessa mondiale e aggiungendo medaglie e titoli, uno in fila all’altro. Riporto volentieri qui l’intervista di allora (anche se mi vergogno un po’, nel vedere come era calma lei e agitato io) anche in omaggio ai ragazzi e alle ragazze che avevano preparato quella puntata e che non so dove siano, se all’università o al lavoro, in Italia o all’estero, pur se sono certo che non ci hanno dimenticato.

giovedì 13 ottobre 2022

L'età in bilico (Destino o baratro)

E se crescere non significasse affatto conoscere se stessi, e il dono portato dall'esperienza consistesse solo nel doverci mettere un bel "non", davanti a "so chi sono"?
Sandro Veronesi

Scrivo di te, di raro, ma costantemente. Tengo traccia sporadica del ragazzo che sei, dei tuoi quasi quindici anni trascorsi in un bozzolo, pur avendo tu vissuto ciò che la maggior parte di noi vivrebbe come incubo.
Cresci in fretta, i piedi, prima di tutto, ma pure gambe, braccia, tronco. Hai cominciato una nuova scuola, ti stai sempre più appassionando al basket, guardi serie tv e film quasi sempre da solo, nel rispetto della nostra tradizione familiare, che vuole educare alla libertà e alla responsabilità più che puntare su regole ferree e controllo. Potremmo fare più cose insieme, è vero anche questo, e mi sento un poco in colpa, mitigata appena dalla circostanza che anche con gli altri figli è stato non stesso.
A volte pari assente, freddo, distaccato. Non lo imputo al carattere, bensì a ciò che da piccolo ti è capitato, a un vuoto che nessun velo può coprire o nascondere, specialmente a te stesso, soprattutto adesso, pozzo profondo di domande senza risposta, crepaccio di giustizia assente, a meno che si creda in un tutto e in un destino.
Troppo, per affrontarlo adesso. Poco, per cominciare a guardarci seriamente dentro. Prima o poi tirerai le somme e deciderai da che parte stare, se ribellarti per rabbia o risolvere i conflitti voltandoli in positivo. Che volere è potere, sempre. E tu, già così, ancora piccolo, mostri qualità e maturità per farmi essere ottimista, confidando che tanto dolore, tanto vuoto, non verrà sprecato, né ti farà restare appiccicato addosso l'amaro.

P.S. Quando ti vedo giocare a basket, tirando il pallone nel canestro appeso sopra la porta del garage, mi commuovo e insieme diverto. Sono fiero di te, davvero.

mercoledì 12 ottobre 2022

Il lavoro che verrà (Oltre il mercato)

"Finché i leoni non cominceranno a raccontare le loro storie, i cacciatori saranno sempre gli eroi"
Proverbio Africano

Nell'ultimo arrivo massiccio di migranti, mi sono trovato di fronte a un dilemma teorico (teorico, poiché non avendo incarichi istituzionali o ruoli di responsabilità, fondamentalmente non avevo né ho potere alcuno).
Da un lato l'ipotesi di ospitare chi tende la mano senza chiedere nulla in cambio, smentendo così la convinzione secondo cui il lavoro è utile poiché dà dignità all'essere umano, ne soddisfa un bisogno di realizzazione personale.
Dall'altro l'opportunità di trovar loro un'occupazione, sfidando la magmatica burocrazia e soprattutto il rischio che venisse fatta concorrenza sleale, poiché non retribuita il giusto, con chi quei possibili lavori li svolgeva già per conto suo (penso alla manutenzione del verde, ad esempio).
La risposta che mi diedi allora e che considero tuttora valida fu questa: occorrerebbe "inventarsi" professioni, mestieri che ora non ci sono o che, se anche ci fossero, non otterrebbero facilmente nicchie di mercato.
Il "memorialista" ad esempio. Colui o colei che raccoglie in forma scritta o audio video i ricordi delle persone anziane. Oppure il cantastorie, il "raccontatore" professionista. O ancora Il censore di alberi. L'intrattenitore alle fermate del bus. Il giocoliere. Il lettore a domicilio. Il conversatore.
Tutti mestieri con un senso, con un valore, non un mercato. Perciò ancora più attraenti, davvero a misura di essere umano.

P.S. Sempre anni fa, partecipando a un incontro di orientamento per ragazzi e ragazze delle scuole superiori, l'interlocutore che avevo accanto disse che negli anni a venire sei mestieri su dieci sarebbero stati nuovi, non erano dunque ancora stati inventati. Mi sembrò un'esagerazione. Con il senno del poi ammetto che è vero, che aveva ragione. Quel mondo, lo riconosco, è diventato il mio.

martedì 11 ottobre 2022

Ius vitae (Viva l'Italia)

“Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio paese, con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti.”
(Enzo Biagi)

Tra un paio di giorni si radunerà il nuovo parlamento, il centro politico di un Paese che spesso, noi per primi, italiani, denigriamo.
Abbiamo molte responsabilità, altrettante colpe, come comunità, come popolo. Prima di tutte, forse, il cuore chiuso per la troppa abbondanza, per una ricchezza diffusa che mai abbiamo avuto, anche se la memoria dei contemporanei è sempre corta, guarda miope alle spalle, preferendo la punta del naso.
Di contro, proprio per questo, giusto non fare di tutte le erbe un fascio. Alla sordità che impedisce di udire il grido di dolore di chi emarginiamo fa eco la grandezza di gesti apparentemente scontati, banali, ma che banali e scontati non lo sono affatto.
Prendo esempio da parte di uno scritto ritrovato per caso, a narrazione della festa finale dell'anno scolastico nel mio paese, Lurate Caccivio. È di dodici anni fa, potrebbe essere di ieri l'altro. 
Le maestre "Mariella, Luisa, Manuela e Maria hanno portato quest'anno a termine il ciclo delle elementari in una scuola pubblica, organizzando uno spettacolo finale per tutte le classi quinte. Per due ore e mezzo bambine e bambini hanno intrattenuto la platea di un teatro. Se ne sono viste di tutti i colori, con ragazzi venuti dalla Tunisia e dal Ghana che hanno ballato sulle musiche di Michael Jackson ed altri che hanno preparato scenette in dialetto comasco, qualcuno s'è esibito in un'appassionata 'O sole mio, il tutto farcito di diapositive che hanno riepilogato cinque anni insieme, fianco a fianco. A un certo punto, a metà serata, tutti insieme hanno cantato l'inno di Mameli e noi, a cui viene il prurito per ogni retorica, siamo rimasti ugualmente stupiti e commossi di quell'andare in coro: bambini dai colori differenti ma accolti e cresciuti dalle insegnanti nello stesso modo. Ognuno sa da dove proviene, se da Trapani, dal Senegal o da via Umberto. Le radici per fortuna non sono recise di netto, ricordandoci che siamo frutto di una tradizione, di una cultura differente, che può essere d'ostacolo ma anche arricchire l'un l'altro. Su quel palco, cantando quell'inno, ognuno dichiarava un'appartenenza condivisa, che non rinnegava le differenti radici, semmai le radunava. Lo diciamo schietto: non ci siamo mai sentiti così orgogliosi di essere italiani, figli di un paese che offre una scuola e insegnanti capaci di far sentire ogni bambino a casa. La sua, la nostra".

P.S. Chiedo perdono per interesse privato in racconto d'ufficio se cito una contraddizione che conosco e vivo, da vicino. L'Italia è quel Paese che non riconosce a K., nato nel nostro paese e cresciuto qui, secondo le nostre tradizioni, senza metter mai piede oltre confine, diritto di avere una cittadinanza e un passaporto o anche una semplice carta d'identità valida per l'espatrio, fosse una vacanza in Spagna o accompagnarmi a camminare a sette chilometri da casa nostra, dove la Lombardia diventa Svizzera, Ticino. Al contempo, è lo stesso Paese che ha permesso a K. non soltanto di studiare, ma pure di vivere una vita dignitosa, assumendosi la maggior parte delle spese, in certi casi gravose, per farlo crescere, accudirlo.

lunedì 10 ottobre 2022

Eppure ci trovavamo (La vita, senza cellulare)

“Il futuro ha un cuore antico”
Carlo Levi

La mano di un nonno sulla guancia della nipote mi riporta avanti e insieme indietro, nel tempo, a quando quel bimbo ero io, anche se nessun nonno ho mai conosciuto. Nonne sì, per poco, a sufficienza per restare impressa nella memoria l'impronta del loro palmo, il caldo di quella pelle lisa, sul dorso del braccio.
Ripenso alle carezze che furono guardando dal finestrino dell'auto, seduto come allora, dietro, che ormai al volante possono stare i miei figli e io godermela senza affanno, inseguendo i pensieri, con l'unica distrazione del cellulare, la vera rivoluzione - insieme ad Internet - dell'ultimo scorcio di secolo.
A rifletterci ora, pare impossibile non soltanto tornare indietro, ma pure che così avanti siamo arrivati, senza perderci, senza restare costantemente in contatto, senza consultare ogni istante lo schermo di un telefonino.
Eppure c'è stato un tempo in cui non c'è stato, eppure c'è stato un tempo - neppure troppo lontano - in cui nonostante non ci fosse, ci trovavamo, eppure c'è stato un tempo nel quale restavamo in contatto, non ci perdevamo, non rimanevamo inermi ore dispersi, novelli naufraghi in mezzo all'oceano.
Lo so, crederlo adesso, in uno spazio sempre interconnesso, con tracciabilità immediata e tutti a portata di clic, in un secondo, pare impossibile.
La tecnologia tanto ci ha mutati che prescinderne sembra un azzardo, un salto nel vuoto, uno smarrire la bussola.
Non è così. Giuro. Io l'ho provato, io sono esistito in quegli anni e, se devo dire la verità, capita che mi senta più "perso" adesso.

P.S. Tra gli anni in cui non c'era nulla e questi, nei quali i dispositivi mobili sono praticamente innestati al nostro corpo, è esistita una terra di mezza: quella del telefono di casa, con la rotella dei numeri, oppure a gettoni, nelle cabine dislocate in uno o due punti del paese e più numerosi in città.
Con il telefono, lo ammetto, non ho mai avuto un buon rapporto. Tuttora fatico a rispondere, mi crea sempre un senso iniziale di disagio. Da ragazzo era anche peggio, soprattutto le (rare) telefonate a casa di ragazze che mi piacevano. Eppure pensare di farlo, recuperare il numero, prendere coraggio, farlo, cioè comporlo, e attendere che dall'altra parte rispondessero, è stata una delle prove di maturità, uno dei riti di passaggio che mi ha reso adulto. Che poi capitasse di sentirsi rispondere: "No, sono suo padre" e non appendere immediatamente la cornetta (sì, cornetta si chiama, lo preciso per i diversamente boomer) ma tenere il colpo, sussurrare il proprio il nome deglutendo e attendere i secondi infiniti di silenzio che intercorrevano tra la frase maschile "Un momento" e quella femminile "Pronto", credo sia equivalso al tuffo a terra da sei metri dell'iniziazione per i giovani di Sa, sull'isola di Pentecoste, chiamata “Naghol”.

domenica 9 ottobre 2022

L'albero temerario (Ragionar per specie)

"L'uomo non muore per il fatto di essersi ammalato, ma gli capita di ammalarsi proprio perché fondamentalmente così può morire".
Michel Foucault


Ho fatto una scoperta curiosa: le piante possono essere paurose. Oppure avere coraggio, a seconda del caso. 
Come racconta Peter Wohlleben: "Lasciar cadere le proprie foglie è una decisione che dipende dal carattere dell'albero: il pauroso (o a seconda dell’interpretazione, il saggio) se ne sbarazza per sicurezza una o due settimane prima. Questa prudenza, però, la paga con la sospensione anticipata della produzione di zucchero, perciò dovrà cavarsela con meno scorte per l’inverno. Se la primavera successiva dovesse ammalarsi, potrebbero mancargli le riserve.
Il temerario, invece, lascia le foglie sui rami fino a quando gli è possibile. Ogni giorno di ottobre è un guadagno: l’albero mette da parte il raccolto a palate, mentre il pauroso vicino a lui sogna la primavera successiva. Se tira troppo la corda, però, verrà accolto di sorpresa della prima gelata notturna, che lo farà cadere nel primo torpore invernale, con le sue foglie brune attaccate per tutto l’inverno", dunque in balia di intemperie e colpi di vento.
Una rivelazione che, lo ammetto, mi ha emozionato. E da qualche giorno guardo il placido faggio che presidia il giardino di casa con altro occhio, cercando di capire se mi somiglia, per carattere, oppure se è diverso da me. Come se guardandolo potessi vedermi a specchio, intuendo di me qualcosa di nuovo o imparando da esso a cambiare sguardo, atteggiamento.

P.S. Ho scritto che guardo il faggio con occhi nuovi, ma non è vero. Guardo con occhi nuovi tutto, da quando "La saggezza degli alberi" è diventata compagna di viaggio.
In particolare, ad affascinarmi, è il loro "ragionare" in termine di specie, senza il predominio dell'individuo che noi esseri umani, mettendo al centro l'io, da millenni abbiamo maturato.
La specie o la natura, come potremmo definirla, ha priorità contrastanti rispetto al singolo.
"Rispetto alla specie - spiega serafico Umberto Galimberti - noi siamo dei funzionari. Veniamo fatti nascere, crescere, ci viene fornita sessualità per essere generativi, aggressività per la difesa della prole, poi ci viene tolta l'una e l'altra cosa e veniamo fatti morire. Noi interessiamo esclusivamente come ricambio organico. La specie vive della morte degli individui. Noi resistiamo a questo evento, ma è il nostro destino. La natura, la specie, è caratterizzata da una crudeltà innocente".
Crudeltà, è vero.
Eppure non sono inquieto, sgomento, impaurito - ne sarà fiero, il faggio - perché almeno vista così, da quel punto di vista, pure la malattia, la sofferenza, la morte, hanno un senso.

sabato 8 ottobre 2022

La propria parte (Femmine e maschi)

“Il maschilismo è una malattia che attacca gli uomini, ma è trasmessa dalle donne.”
(Shirin Ebadi)

Sei tu che me ne parli spesso, sei tu che mi spingi a pensare, a non dare nulla per scontato, a interrogarmi su tutto.
Sei tu vera filosofa, se filosofia è ciò che racconta Umberto Eco: “Prendere tutte le cose sul serio e farsi domande, cercare risposte”.
Ieri, a un continente di distanza, mi hai chiesto a bruciapelo: “Papà, sto vedendo le interviste che hai fatto. Secondo te, perché quando chiedi ai tuoi ospiti di presentarsi, le donne spesso dicono: ‘Sono una mamma’ o ‘Sono moglie’, mentre quasi gli uomini parlano del loro lavoro, di ciò che fanno, delle qualifiche professionali o di riconoscimento sociale che hanno?”.
Non lo so. Sono stato onesto con te. Abbiamo innanzi tutto pochi esempi per farne un caso (bisognerebbe ascoltare molte più interviste), anche se il sospetto è che nel presentarsi si scelga ciò che tradizionalmente, storicamente, pensiamo ci definisca. E in un passato che è tuttora presente, pur se non più rigidamente strutturato, le sfere di competenza sono divise e distinte, con la sfera delle professioni che appartiene al maschio e quella famigliare che attiene più alla femmina.
È giusto? È sbagliato? Io direi che per ora è così, punto. Il resto è partenza di una riflessione, di un cammino, di un cambiamento possibile in entrambi i campi, con i ruoli sociali non eliminati, ma nemmeno appannaggio di questa o quella metà della luna.

P.S. Sulla parità di genere, aggiungo qui come appunto due pensieri ascoltati nei giorni scorsi.
Uno è di Paolo ed evidenzia come esista una parte maschile e una femminile, in ciascuno di noi: riconoscerle e dare a entrambe valore è importante per superare la netta divisione a cui siamo abituati.
L'altro è di Nunzia e sottolinea come troppe donne emergono nella società, negli affari, nella politica, non in virtù della loro sensibilità, bensì mostrando i muscoli, adottando gli stessi comportamenti del maschio (spesso lo si sottolinea pure, come elogio: “Quella donna ha gli attributi”), abdicando perciò alla loro specificità, diversità, unicità, a favore di un'omologazione sessista e muscolare.

venerdì 7 ottobre 2022

Ben venuti (Manuale di accoglienza turistica)

“Felice la casa che ospita un amico.”
(Ralph Waldo Emerson)

Lampedusa e il Salento confinano, nonostante ci sia un mare di mezzo.
Il Salento e Lampedusa, d’un lato, sul versante opposto Sicilia, Napoli, Umbria, Abruzzo.
Nella classifica dei “miei” luoghi italiani a misura di viaggio, metto i secondi al primo posto e i primi all’ultimo.
Non che come meraviglie di natura non meritino, semmai è il tipo di offerta ad accomunarle e - nella mia percezione - a lasciarsele alle spalle senza pentimento per l’atteggiamento, con i turisti da mungere o spennare, a seconda del caso.
Come sempre - sono fissato - considero il denaro dirimente, responsabile di prevalere su ciò che invece dovrebbe contare davvero: lo spirito di accoglienza, il senso di ospitalità, la bellezza e il buono dell’incontro, della conoscenza, dello scambio reciproco.
C’è una deriva, un’onda di corrente che tende verso lo sfruttamento intensivo di località prima incontaminate e ora prese d’assalto. Sono certo, essendoci stato, che trenta, venti, dieci anni fa il Salento non fosse così e, per sentito dire da testimoni credibili, neppure Lampedusa.
Confido che, essendo un processo, un divenire, possa prima o poi mutare, recuperando alcuni valori e arginando la sete di ricchezza, di accumulo.
Non ne ho prova, non mi vengono in mente esempi, anche perché viaggio poco, tuttavia “politicamente” mi piacerebbe fare un esperimento: individuare una località prima anonima, poi in auge, ora magari caduta nel dimenticatoio, provando a mettervi nuovo seme non puntando su nuove attrazioni o infrastrutture faraoniche, bensì sulla meraviglia e il bene della scoperta, dell’incontro, dello scambio.

P.S. Chiedo scusa se astraggo, se non accompagno il pensiero a situazioni concrete, che sarebbero utili per spiegarmi meglio. Ci provo qui, riducendo il termine di paragone alla cena. La differenza è tra chi importa prezzi e ricercatezza, ma pure calcolo puntiglioso del servizio da Milano (tranne che a Milano rapidità e qualità sono reali, davvero) e chi invece conserva quel "pressapoco", quel "dai, che ci veniamo incontro" tipico dei posti in cui l'economia è domestica, non orientata alla massimo profitto, e dove nessuno è un bancomat, bensì si apre la porta di casa a un amico.

giovedì 6 ottobre 2022

Sette e quindici (Più uno)

“Fu festeggiato l'anniversario di un uomo molto modesto. E soltanto alla fine del pranzo ci si accorse che qualcuno non era stato invitato: il festeggiato.”
Anton Cechov

Questa, in tv, è una settimana non banale. Ricorrono infatti i quindici anni di "Colazione con... Radio Alta".
Quindici, come la posizione che con il cambio del sistema di trasmissione digitale terrestre e il riordino delle frequenze, da sette mesi Bergamo Tv occupa sul telecomando e soprattutto sui televisori di tutta Lombardia, dunque pure nella provincia di Como, dove abito.
Quasi un "ritorno a casa" che un poco mi emoziona, lo ammetto.
Sette sono anche gli anni di lavoro qui, avendo firmato il contratto a Bergamo Tv a inizio marzo del 2015, con il sollievo di tornare ad occuparmi di qualcosa che conoscevo, che mi procura piacere tuttora, pur se comincio ad avvertire i segni del tempo.
Quindici e sette, due numeri, un mondo di significati, in quella terra di mezzo che è parte di me e non soltanto "altro".


P.S. Non smetto mai di imparare. Davvero. Ogni giorno è questo ciò che più mi appassiona, mi intriga, mi infonde gioia persino. Non smetto mai di imparare, di mettermi in discussione e di apprezzare la maggior parte delle persone che ho attorno, sentendomi parte di qualcosa di ampio, finito lì non per caso, bensì per destino, un disegno (anche se quale non so ancora dirlo).

mercoledì 5 ottobre 2022

È destino (In bilico)

Spesso s’incontra il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo.
(Jean de La Fontaine)

Puoi anche alzarti molto presto, ma il tuo destino s’è alzato un’ora prima.
(Anonimo)

Ho notato che anche le persone che affermano che tutto è già scritto e che non possiamo far nulla per cambiare il destino, si guardano intorno prima di attraversare la strada.
(Stephen Hawking)


Equilibrio. L’equilibrio è ciò che cerco quando vado in bicicletta, quando la mole di lavoro mi spaventa, quando le emozioni spodestano la ragione, quando il morale in un battito di ciglia passa dall’entusiasmo alla paura, dalla carica alla stanchezza, dal cielo blu al grigio delle nubi, dal sorriso allo sguardo mesto.
Quasi sempre l’avverto condizione precaria, come camminassi lungo una lama sottile, senza corda di protezione o rete elastica sotto, oppure di sedere su un castello fatto con le carte da gioco e il timore tacito e tragico che crolli tutto, nel caso d’imprevisto o, peggio, di qualcosa fuori dal mio controllo che portasse dolore, incomprensione, sofferenza, lutto.

P.S. La sensazione di precarietà è sovente abbinata al desiderio di tenere tutto sotto controllo, alla mania di gestire ogni cosa, alla paura di “lasciare che sia”, mollando la presa, affidandosi alla corrente, al mare aperto.
Altrettanto spesso, specie in questo tempo, mi conforta e fa da bilanciere la lezione delle tragedie greche, di Elettra, di Edipo, sull’ineluttabilità del destino, la circostanza che nulla dipende veramente da noi e che dunque darsi troppa pena, oltre che sciocco, sia vano.