“Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio paese, con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti.”
(Enzo Biagi)
Tra un paio di giorni si radunerà il nuovo parlamento, il centro politico di un Paese che spesso, noi per primi, italiani, denigriamo.
Abbiamo molte responsabilità, altrettante colpe, come comunità, come popolo. Prima di tutte, forse, il cuore chiuso per la troppa abbondanza, per una ricchezza diffusa che mai abbiamo avuto, anche se la memoria dei contemporanei è sempre corta, guarda miope alle spalle, preferendo la punta del naso.
Di contro, proprio per questo, giusto non fare di tutte le erbe un fascio. Alla sordità che impedisce di udire il grido di dolore di chi emarginiamo fa eco la grandezza di gesti apparentemente scontati, banali, ma che banali e scontati non lo sono affatto.
Prendo esempio da parte di uno scritto ritrovato per caso, a narrazione della festa finale dell'anno scolastico nel mio paese, Lurate Caccivio. È di dodici anni fa, potrebbe essere di ieri l'altro.
Le maestre "Mariella, Luisa, Manuela e Maria hanno portato quest'anno a termine il ciclo delle elementari in una scuola pubblica, organizzando uno spettacolo finale per tutte le classi quinte. Per due ore e mezzo bambine e bambini hanno intrattenuto la platea di un teatro. Se ne sono viste di tutti i colori, con ragazzi venuti dalla Tunisia e dal Ghana che hanno ballato sulle musiche di Michael Jackson ed altri che hanno preparato scenette in dialetto comasco, qualcuno s'è esibito in un'appassionata 'O sole mio, il tutto farcito di diapositive che hanno riepilogato cinque anni insieme, fianco a fianco. A un certo punto, a metà serata, tutti insieme hanno cantato l'inno di Mameli e noi, a cui viene il prurito per ogni retorica, siamo rimasti ugualmente stupiti e commossi di quell'andare in coro: bambini dai colori differenti ma accolti e cresciuti dalle insegnanti nello stesso modo. Ognuno sa da dove proviene, se da Trapani, dal Senegal o da via Umberto. Le radici per fortuna non sono recise di netto, ricordandoci che siamo frutto di una tradizione, di una cultura differente, che può essere d'ostacolo ma anche arricchire l'un l'altro. Su quel palco, cantando quell'inno, ognuno dichiarava un'appartenenza condivisa, che non rinnegava le differenti radici, semmai le radunava. Lo diciamo schietto: non ci siamo mai sentiti così orgogliosi di essere italiani, figli di un paese che offre una scuola e insegnanti capaci di far sentire ogni bambino a casa. La sua, la nostra".
P.S. Chiedo perdono per interesse privato in racconto d'ufficio se cito una contraddizione che conosco e vivo, da vicino. L'Italia è quel Paese che non riconosce a K., nato nel nostro paese e cresciuto qui, secondo le nostre tradizioni, senza metter mai piede oltre confine, diritto di avere una cittadinanza e un passaporto o anche una semplice carta d'identità valida per l'espatrio, fosse una vacanza in Spagna o accompagnarmi a camminare a sette chilometri da casa nostra, dove la Lombardia diventa Svizzera, Ticino. Al contempo, è lo stesso Paese che ha permesso a K. non soltanto di studiare, ma pure di vivere una vita dignitosa, assumendosi la maggior parte delle spese, in certi casi gravose, per farlo crescere, accudirlo.
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