sabato 31 marzo 2012

George e Mildred (uomini e donne)

"Giorgio, lasciatelo dire: ogni tanto leggo il tuo blog e fai venire la carie ai denti". Lo dice sorridendo e di carie non ne ha, fa ridere anche me, con quel modo spiccio e schietto di dire le cose, a prova di vanità. La mia.
Non ne scrivo il nome perché so che si arrabbierebbe, ma la stimo e so che da lei sono stimato, a prescindere da tutto.
Mentre discutevo con altre due donne, mia moglie e mia figlia, stamattina ho realizzato uno spicchio ulteriore della differenza che divide i due universi, maschile e femminile. Non so se gli uomini vengono da Marte e le altre da Venere, non sono mai stato esperto di pianeti e quando guardo in alto, di notte, riconosco a malapena la stella polare e il grande carro.
Prendo a prestito un paragone diverso, letterario, per la precisione il "Siddharta" di Herman Hesse e la morale contenuta in un paragrafo: "Il senso della vita non sta nella meta, bensì nel viaggio".
Che sciocco sono stato e sono, quando dopo aver combattuto ad armi impari - lei con l'ostinazione e l'energia vitale di un furetto, io con l'indolente pigrizia del tasso - concedo finalmente ciò che vuole (cambiare la disposizione dei mobili nelle stanze dei ragazzi, il cancello elettrico, la poltrona che prima era su e ha voluto giù e poi ha preferito riportarla su e ora è giù ma forse sarebbe meglio su...) e immagino di averla finalmente placata, per un mese, facciamo una settimana, un giorno, qualche ora, un minuto! Nulla. Il cancello elettrico c'è ma gli armadi sono sempre troppo piccoli, il guardaroba è microscopico, la cucina cade a pezzi, i letti girati così non vanno bene, i divani non bastano e se bastano usiamo sempre quello, perché non lo spostiamo? Già. Perché non lo spostiamo? Forse perché lì dov'é va benissimo, è di un comodo che più comodo non si può e nessuno immaginerebbe spostarlo. Quasi nessuno. Qualcuna c'è e io l'ho sposata.
Così ogni tanto si scatena il braccio di ferro, che lei vince ai punti (non di sutura) salvo ripartire alla carica di nuovo, e io che mi arrabbio, sbuffo, faccio scene madri, che neanche Tiziano Ferro saprebbe lagnarsi meglio.
Oggi però, in un'assolata mattina di fine marzo, mentre il sole faceva capolino dal finestrone del soppalco, ho capito che sono io l'illuso, lo sciocco, che ha letto Siddharta anni e anni fa ma non ne ha capito l'applicazione concreta.
A Isabella, alle donne, non importa la meta (la poltrona al suo posto) bensì il viaggio (portiamola su, forse era meglio giù, sai che preferisco giù, su è molto meglio, pensavo di riportarla giù, non credi sia più funzionale su, quando la rimettiamo giù?).
Ecco perché adoro le donne. Con loro, se ne seguissimo pedissequamente le volontà, rischieremmo seriamente l'esaurimento nervoso e l'ernia al disco, ma senza staremmo ancora nella nostra bella caverna, con l'orso.

giovedì 29 marzo 2012

Il tempo brucia tutto: cogliamo l'attimo

Gli "occhi di Gesù" vengono chiamati dalle mie parti ma non credo sia il nome corretto per i fiorellini azzurri che riempiono i prati in questi giorni. Sabato ho tagliato l'erba ed è stata la prima volta quest'anno. Mentre passavo avanti e indietro con il falciatore pensavo a una cosa che avevo già scritto qui, su questo blog, chissà quando, chissà dove, sulle differenti erbe che crescono a seconda delle stagioni. "Ogni cosa a suo tempo". Vale per il prato, vale per la fantastica magnolia nel giardino di Monza dove lavoro e vale anche per noi, che ci ostiniamo a correre. In verità qualche momento me lo godo, come lunedì, quando tutti assieme stavamo finendo di vedere "Thor" in televisione. Erano quasi le undici di sera, l'unica luce era quella dello schermo e vedevo Isabella con in braccio Giovanni, Giorgia sdraiata sul parquet, Giacomo come al solito padrone del divano, lungo e disteso, e io seduto poco distante, che li inquadravo tutti, come fossero un quadro. La perfetta felicità esiste, ho pensato, ed è racchiusa nelle piccole cose, in momenti all'apparenza banali. In un secondo tutto è svanito, è partita la sigla finale, Isabella ha gridato perché era tremendamente tardi, i ragazzi si sono defilati a preparare la cartella, mettersi il pigiama, lavarsi i denti, mentri me ne sono rimasto lì, un po' interdetto, badando più a quell'istante passato che al tempo declinato al presente.
"Il tempo brucia tutto" mi ha detto Stefano ieri. Ha ragione. E io pensavo agli amici che per fortuna vedo e a quelli che invece è più difficile incontrare, pur se ne avrei una gran voglia. A Piero, ad esempio, che chissà dove sarà, se a Roma o in giro per l'Italia, a parlare agli industriali. O ad Angelo, che mi ha cercato anche stasera al cellulare senza che potessi rispondere. O a Massimo, che fa l'architetto a Mantova e non è proprio dietro l'angolo da andarlo a trovare quando mi pare. Domenica forse però lui lo vedo. La volontà c'è, basta darsi una mossa e sapersi organizzare.

Foto by Leonora

domenica 18 marzo 2012

Gherùm nagòtt (Qualcosa è rimasto)

C'era Mauro accanto a me sul treno, il mattino dopo che il dottore del Valduce aveva detto che mio padre aveva un cancro e non sarebbe sopravvissuto a lungo. Andavamo a Milano, prestissimo, per registrare le telecronache dei gran premio di motociclismo che sarebbero andate in onda su Espn Sport Classic. Non dissi una parola per tutto il viaggio, avevo un peso che mi velava persino lo sguardo e un'angoscia devastante, dentro. Ora le parti si sono invertite e vorrei essere vicino a Mauro, a Marco, a Simona con la stessa capacità di consolazione che hanno avuto loro per me, in tutti quei mesi di convivenza con la malattia e poi col lutto, anche se il loro precipitare nel dolore è stato rapidissimo, improvviso, più che una discesa uno schianto e immagino si sentiranno come "quando il mondo sembra finire". La frase non è mia, ma di David, che ha anch'egli perso la mamma, appena qualche settimana fa, per cui sa cosa si prova, sa quanto brucia quel cordone ombelicale tagliato di netto. Ma più di tutti, oggi, mi sento vicino ad Angelo. Sua moglie, Giuseppina, la mamma di Marco, Simona, Mauro, non ha fatto in tempo ad arrivare al giorno del santo di cui porta il nome e oggi, a metà pomeriggio, l'ha lasciato solo, dopo quasi cinquant'anni di matrimonio. Nei tre minuti in cui ci siamo parlati senza nessuno attorno, in dialetto mi ha detto una cosa che me l'ha fatto sentire identico a mio padre, a mia madre: "Gherùm nagòtt", che tradotto si legge così: "Abbiamo cominciato che non avevamo niente". E' la storia e la morale di migliaia di coppie sposate negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, che con sacrificio, senza conoscere ferie o sabato e domenica hanno permesso a noi, ai loro figli, di prosperare. Vivessimo cent'anni quel costruire senza avere nulla, partendo da zero, non lo comprenderemmo, non almeno sotto pelle, dove l'esperienza s'incrocia con il diventarne coscienti, appieno. Giuseppina prima di andare in pensione faceva l'infermiera e conosceva il prendersi cura, come ha fatto per i figli, per Angelo e persino per i nipotini, Alessio e Matteo, che ha fatto a tempo a conoscere e che rappresentano la ruota che gira, il cielo sereno dopo quello buio. Ma queste sono frasi retoriche, di certo c'è soltanto il dolore e il vuoto che scava un solco.

lunedì 12 marzo 2012

Uno, nessuno, centomila contatti

Centomila. Centomila visualizzazioni e qualche spicciolo, ad oggi, e non da sempre, bensì da quando ho messo il contatore qui a fianco. Non sono mai rimasto infatuato dai numeri, agli incastri delle combinazioni preferisco le coincidenze casuali, quelle di cui mi accorgo notando uno spigolo, uno scostamento di passo o una rotondità, come in questo caso. Così come non m'ingabbia o toglie fiato l'ansia di trasformare una visita di amici in un'addizione forzata, ecco perché preferisco coltivare l'orto piuttosto che allargare il cerchio. Centomila sono già uno sproposito, che se ci penso - tante persone che per farle sedere tutte non basterebbero gli spalti di San Siro - ho un capogiro. Lo stesso mal di testa che mi viene quando cerco di riflettere sul fatto che in anni di appunti ormai il blog s'è trasformato in qualcosa che va al di là del singolo passo. Vedo un cammino, non un quadro compiuto. Può darsi che un giorno qualcuno, guardandole dall'alto, con distacco sappia intravedere tra le tessere un mosaico, ma questa non è impresa che si può chiedere a me, almeno non ora, che ci sono dentro fino al collo e già a tener fuori dall'acqua il naso e gli occhi faccio uno sforzo.
In ogni caso, per tutti i visitatori che passano con regolarità o anche saltuariamente da qui ho in serbo un abbraccio, fraterno. Raramente tra le righe mi sono risparmiato, quasi mai censurato. Grazie a questa fessura sapete di me moltissimo, a volte immagino più di quanto conoscete di molte persone che vi sono vicine. Il regalo più bello sarebbe che questa intimità, il desiderio continuo di dialogo, la spola ininterrota tra parola ed ascolto sia estesa proprio a quelle persone che avete accanto. Allora sì queste centomila gavette non saranno di ghiaccio e averle scritte avrà avuto un senso. E ancora l'avrà, interessasse a centomila persone o anche a uno solo.

Foto by Leonora

domenica 11 marzo 2012

Amore bello

"Ci sono tre vie per conoscere Dio". Il prete che me lo dice ha novant'anni e un'energia inaspettata. Parla a voce bassa e con gli occhi che sono due fessure, come colui che aguzza la vista per compensare una durezza d'orecchio che l'età ha reso cronica. "La prima via è l'ascolto, la seconda la bontà e poi c'è la terza, la bellezza".
In questi giorni, come ho scritto nel blog sul sito de "il Cittadino", ci sono ferite aperte che interrogano e affliggono l'uomo più del cronista. Giorgia sta scrivendo qui accanto a me e la guardo calcare con la matita sul foglio bianco. Ha dodici anni, uno in meno della ragazzina coinvolta nella storia che ha sconvolto Como. Il senso di protezione nei suoi confronti è quello di qualsiasi padre degno di questo nome, per cui mi rendo conto di non essere obiettivo, come se poi possa esserlo chiunque, quando si trattano argomenti simili. Preferisco voltare pagina, pensare a quel sacerdote che mi ha raccontato delle tre vie per conoscere Dio e alla terza in particolare, la più laica di tutte, poiché per ascoltare la parola bisogna avere fede e per essere buoni occorre un cuore grande, generoso, colmo di carità cristiana, anche se non necessariamente chiamata in questo modo. La bellezza invece è virtù che può ricercare chiunque, compresi i grandi peccatori che - non è un caso, come ha notato a suo tempo Cesare Marchi - hanno innalzato eccezionali cattedrali. Più arduo, semmai, accordarsi su ciò che sia bello o meno, non trattandosi di un'unità di misura certificabile. Qualcuno sostiene che essa risieda negli occhi di chi guarda, qualche altro che equivalga al vero, altri ancora che sia possibile coglierla intuendola d'istinto, senza spazio alcuno per il ragionamento. Sarà... Io non ho risposte, solo esempi da portare a credito. La libreria, le librerie anzi, di casa mia, con i libri differenti e colorati che sembrano un quadro; i rami spogli del faggio a mezza costa tra il verde giallo dei prati e l'azzurro del cielo; le canzoni lente che ascolto alla radio quando scrivo e quelle rock quando corro; la pelle liscia delle donne quando con la guancia le sfioro; una finestra sbilenca tra l'altra dozzina di finestre perfettamente in squadra sulla parete color amaranto di un edificio; le fotografie di Leonora, di Elena, di Andrea e di tanti altri amici, su Flickr; il rumore della pioggia sul tetto; i quadri di Manlio Rho; gli occhi degli amici Luisa, Valentina, Andrea, Mauro a cena, ieri sera; la tavola imbandita, prima che iniziasse il pasto, sempre ieri sera, e anche quella disordinata, lasciata quando ci siamo alzati che era quasi la una e il tempo volato; i miei due divani Molteni; mia madre a vent'anni, con l'abito bianco da sposa, mentre sorride, anzi ride proprio, di gusto, nell'immagine in bianco e nero appiccicata sul vecchio album; il Mac Air con cui sto scrivendo; e più di tutto il profilo di Giorgia mentre appoggia la matita sul foglio, accanto a me, serena, senza pensieri, come tutte le ragazzine che si sentono amate, al sicuro.

Foto by Leonora

venerdì 9 marzo 2012

Il segreto di Luca (La semplicità)

Da quando lavoro a Monza tengo ben separati i miei pensieri in forma scritta: sul blog professionale quelli che si riferiscono ai media e alle questioni brianzole, qui invece i temi più personali, quasi intimi direi.
Faccio un'eccezione oggi poiché è vero che ho incontrato Luca Miniero in virtù del ruolo che rappresento, ma voglio lasciare un appunto riguardo un aspetto che ha sorpreso l'uomo, più ancora che il giornalista.
Luca, per chi non lo sapesse e fosse tanto pigro da neppure sbirciare Wikipedia, è uno sceneggiatore e regista che tuttora si guadagna da vivere con gli spot (ne ha fatti di bellissimi) ed è diventato famoso con il film Benvenuti al Sud, a cui ha replicato un altro successo d'incassi, Benvenuti al Nord (tranquilli, perché Benvenuti all'Est e Benvenuti all'Ovest non li girerà, è inutile che sbuffate).
Io per la verità ero rimasto affascinato anni fa, quando avevo visto "Incantesimo napoletano", ma questa è un'altra storia. Stasera Luca era ospite dei Lions e dei Rotary di Monza e Brianza e accettando l'invito della collega Federica mi sono messo a disposizione per fargli da spalla. Non la faccio lunga, dico soltanto che mi ha stupito l'umiltà del personaggio, abbinata alla spontaneità, alla naturalezza con cui ha risposto a tutte le domande, senza rifugiarsi nel banale o, peggio, farsi velo con affermazioni elusive. In pratica, nonostante fossimo su una sorta di palco e con un centinaio di persone che lo ascoltavano, era come se egli parlasse a degli amici, a persone veramente speciali, a cui riservare il diritto e pure il rovescio delle cose. Ho scoperto così quanto costa girare in un giorno uno spot di trenta, quaranta secondi (dai cento ai centocinquantamila euro); quante persone sono impegnate (una quarantina, che diventano una sessantina se si sta girando un film); quanto è importante per gli attori saper improvvisare (nel cinema attuale l'improvvisazione è ben accetta ma non troppo, nel senso che non si deve esagerare: autore e regista hanno lavorato magari sei mesi su una battuta, non sempre l'attore, pur bravissimo che sia, può cavarne una migliore di quella concordata); che le attrice napoletane di cinquant'anni sono le più bizzose e ardue da dirigere; che i registi italiani sono cento volte più bravi degli sceneggiatori italiani; che dai francesi in fatto di commedia abbiamo da imparare; che se fosse stato per lui dopo aver girato Benvenuti al Sud sarebbe passato più tempo prima di girare Benvenuti al Nord; che alcune parti di Benvenuti al Nord non l'hanno convinto; che Claudio Bisio non è stata la prima scelta come attore principale; che la prima scelta era Antonio Albanese e la seconda Giovanni Storti, quello coi baffi di Aldo, Giacomo e appunto Giovanni; che Claudio Bisio è stato per il regista stesso sorprendente, per come ha saputo interpretare perfettamente l'uomo del Nord, diffidente ma che dopo un giorno si è già integrato al Sud perfettamente; che neppure Alessandro Siani era la prima scelta.
A parte questo, ch'è contorno rispetto al piatto principale, la sorpresa è stata trovarsi di fronte una persona che non si è montata la testa, che non si crede un padreterno e che senza fare teatro è capace di emozionare semplicemente restando se stesso, dicendo il vero, parlando col cuore. In un mondo patinato e in cui tutto rischia di avere sapore di plastica, Luca Miniero è un piatto di pasta fatta in casa, come in giro non ne trovi.
P.S. Altre cose vorrei dirle su Maria Vittoria, collaboratrice di Luca, ma le scriverò nell'altro blog, per par condicio e perché lei è brianzola e in via Longhi 3 è come se giocasse in casa.

Foto by Leonora

domenica 4 marzo 2012

Il mestiere di Giotto (sull'ingresso nel mondo del lavoro)

C'è un nuovo social network tutto italiano, si chiama "Egomnia, ha scelto il colore verde e il suo creatore, Matteo Achilli, spiega che l’idea è creare «una classifica degli studenti migliori. Ho pensato che sarebbe stata perfetta per un’azienda privata in cerca di un nuovo stagista o di un dipendente da assumere»".
Penso all'unica vicenda che conosco bene, a me stesso, alla storia che sulla pelle ho vissuto.
Se il modo per "valutarmi" fosse stato quello del curriculum o delle classifica degli studenti più abili probabilmente starei facendo il lavoro di mio padre o l'impiegato pubblico, come in effetti per tre anni ho fatto. Invece ho avuto la fortuna di essere messo alla prova senza credenziali, sulla fiducia, d'istinto, da uomini e donne che mi hanno semplicemente guardato negli occhi e detto: "D'accordo, tentiamo".
Il timore e' che stiamo diventando più severi, esigenti, selettivi, premiando il conformismo della formazione, che pure quand'è d'alto livello non tiene conto o quasi di fattori quali il differente tempo di maturazione, la capacità di adattamento all'ambiente lavorativo, l'aspetto pratico oltre che teorico, la costanza, la determinazione, il miglioramento progressivo.
Non è irreggimentando i giovani che aiutiamo loro a scegliere il percorso per cui hanno passione, talento. Non è matematico, ad esempio, che i migliori a superare i test per entrare alla facoltà di medicina diventino poi medici più bravi di quelli scartati. Eccellere sui libri è un conto, saper prendersi cura un altro (questo l'ho scritto per Stefano, che magari in autunno, finito il liceo, tenterà questa strada, affinché non si abbatta se troverà la porta chiusa e non si sieda sugli allori se gli sarà aperta).
Non ho risposte certe, soltanto domande. Se Cimabue avesse scelto gli allievi dall'Accademia di belle arti avrebbe scelto Giotto?
Forse in un'ottica di flessibilità del lavoro, insieme ad abbandonare l'idea del posto fisso - come ci viene chiesto - dovremmo altresì considerare la possibilità di lasciare ampia la porta d'ingresso e pure quella che permette di passare da un lavoro all'altro.

Foto by Leonora

venerdì 2 marzo 2012

La fiamma di Abele

Leggo De Luca. Mi emoziona sempre, come mette in fila le parole e ne fa asole, nodi, corde tese da una pianta all'altra, scolpite una per una senza fretta, talento in vendita senza apparire commerciale. David mi ha insegnato a camminargli a fianco anni or sono e tuttora mi costringe a mettere il piede nelle impronte di quest'uomo che ha la faccia a immagine del suo raccontare.
Non ho mai scritto un libro, sono sterile di fusto anche se a volte sento la linfa salire dalle radici e aspirare all'alto dei rami. Mi bloccano, oltre all'assenza di un'urgenza, due complicanze: il considerare nessun argomento meritevole e la consapevolezza che nulla vince l'oblio, la memoria è destinata a soccombere e il contrario è una sfida perduta in partenza, oltre che uno spreco, un "hevel", in ebraico, che - come ho imparato dallo stesso De Luca - è lo stampo di Abele. M'arrendo prima, alzo le mani, sento il bisogno di inchinarmi all'ineluttabile, accettando con docilità il destino finito di un uomo: non essere immortale.
So che esiste un fuoco, una fiamma che ignora i ragionamenti e costringe a partorire, sulla pelle ne ho provato il calore, mai le bruciature. Nel frattempo sono puntuale qui, un diario iniziato anni fa senza pretese e che giorno per giorno è diventato compagno fedele, costante, foglio d'appunti che a volte mi illudo sia già vero libro, a volerci cavare il meglio o anche così. Ma è appunto un'illusione. Uno più uno più uno più uno non fa un'insieme, anche se a qualcuno leggerlo non dispiace.

Foto by Leonora