mercoledì 25 agosto 2010

Non avrai altro sciabordìo


Due settimane. Dodici giorni via, isolato da tutte le reti, dal mondo (il mio, almeno). Ho atteso molto, ma sono arrivato alle vacanze "maturo", con il buon proposito di godermele fino in fondo. Strano. Di solito mi piace rimanere a casa, gustarmi l'intimità delle mura domestiche, del sole sul terrazzo, il giardino. Questa volta è diverso, sento l'esigenza di aria nuova, di formarmi altrove un microcosmo. Mi conosco, so che non mancheranno i momenti di nervosismo e neppure lo sconforto, certo per delle banalità che, guardate poi, a distanza di tempo, mi faranno sentire un imbecille proprio. Tant'è: nessuno sfugge al suo destino. Si può migliorare però, si può porre argine alle bizze del carattere e circoscrivere il danno, finché si è tempo. Se ci riuscirò o meno lo scriverò al ritorno. Un pensiero invece lo lascio subito, riguardo all'importanza dell'impegno, del lavoro. Ho sempre sostenuto che, se il destino mi concedesse il lusso di avere una rendita fissa, che saprei come impiegare il tempo. Non scopro l'acqua calda: credo sia il pensiero di ognuno a cui piace leggere, scrivere o con qualche altra passione, sia essa collezionare francobolli o mettere insieme i binari e la stazione di un trenino elettrico. Negli ultimi mesi tuttavia mi pare di aver scoperto che non è così semplice. Lo deduco dal senso di vuoto, di inquietudine, come una mancata completezza, che ho tutte le volte che stacco dal lavoro. Non è qualcosa di cosciente, ma lo avverto fisicamente e devo prestare attenzione se voglio evitare che si trasformi in malumore vero e proprio. E' vero che il mestiere che faccio mi piace, ma credo che non dipenda da questo, quanto piuttosto da un bisogno fisiologico, per l'essere umano, quello di avere un'ordine, un impegno, una meta soprattutto, uno scopo d'utilità, un bene non soltanto fine a se stesso. Non so, ci penserò meglio mentre passeggio sulla spiaggia o resto sdraiato sul lettino, ad ascoltare lo sciabordare del mare.


P.S. Era una vita che aspettavo l'occasione per usarlo, questo verbo: sciabordare.




Foto by Leonora

sabato 21 agosto 2010

Vengo dopo il Tg


Lo ammetto: Mauro una settimana fa me l'aveva detto, ma gli avevo dato poco conto. Che avesse così ragione me ne sono reso ieri l'altro, quando per caso mi sono inbattuto in un servizio del Tg1. In breve, si trattava di questo: il corrispondente da Parigi raccontava rischi e pericoli di chi tiene gli auricolari a lungo, specialmente - udite, udite (si fa per dire) - se il volume è troppo alto. E dopo aver snocciolato banalità per due minuti e mezzo, lo stesso giornalista (un tipo di mezz'età, con la barba, distinto) chiosava così: "E già, è proprio vero, le cuffiette possono rappresentare un rischio in Francia come, del resto, in Italia". E già. Del resto. Seguiva un altro servizio, sul tema: "Passeggiare in montagna fa bene, ma se si ha una certa età, attenti ai problemi cardiaci". M'è venuta una palpitazione al cuore. Anche una lacrima, prima che una furia calma, determinata, montasse a neve, trasformandosi in cattivo umore.
Ora, vedo raramente la tv generalista, la Rai quasi mai, men che meno il Tg1. Non è una scelta: a quell'ora al giornale siamo nel pieno del lavoro e quando sono a casa ho altri impegni o guardo altro. Eppure sono cresciuto con i notiziari condotti da Sergio Telmon, poi da Vespa, Frajese e molti altri. Per mio padre, il Tg1 delle 20 era un rito (parzialmente offuscato soltanto negli ultimi anni, quando ha avuto un'attrazione fatale per il Tg3, senza tuttavia rinnegare la corazzata dell'informazione, seconda per seguito soltanto al Gazzettino Padano delle 12.10, alla radio). Di recente, sui giornali, ho letto spesso i titoli delle polemiche per la direzione di Minzolini, ma non ho mai approfondito di persona, fino a ieri l'altro appunto.

Non voglio sbrodolare o far lezioni di morale, mi limiterò a questo: è possibile che la Rai (con i nostri soldi!) paghi milioni di euro per fior di uffici di corrispondenza all'estero, per propinarci servizi che le stagiste di Studio Aperto fanno meglio?

Non mi interessa la linea politica, destra sinistra o centro. Vorrei che, se proprio non c'è impossibile distinguerci in meglio, almeno il nostro servizio pubblico copiasse pari pari quel che fanno i tg nazionali in Germania, Francia, Svizzera, Spagna... Sarebbe un buon inizio,
dopo esser caduti tanto scioccamente in basso.
Foto by Leonora

lunedì 16 agosto 2010

Due lunghi solchi


Due lunghi solchi, che tagliano la fronte, ai lati, in verticale. Due tagli, che il tempo ha inciso pian piano ma son sbocciati d'improvviso, un mattino di quattro o cinque giorni fa, quando li ho notati io (me li hanno fatto notare, per dire pane al pane e vino al vino). Non sono rughe, sono segni ben distinti, come quando si dorme su un panno cucito grosso e rimane l'impronta. Sembrano proprio linee gemelle di quelle della mano: non so leggere né le une né le altre, eppure quest'ultime - ne sono certo - recano un messaggio. Sto diventando vecchio. Mi capita da quarantatré anni almeno, quasi quarantaquattro. E conto di farlo a lungo, anche se già ora mi sento in cima alla montagna e guardando a valle mi pare impossibile di aver camminato tanto, mettendo uno sopra l'altro una quantità di mattoni che mi vengono quasi le vertigini se ci ripenso. "Diciamoci la verità - chiosava il mio direttore, qualche settimana fa, biasimando gli articoli di Beppe Severgnini - quelli che scoprono la Coca-cola quando la bevono loro, hanno rotto i maroni...". Non la scoprirò dunque io. Mi sta capitando ciò che altre centinaia di miliardi di esseri umani hanno sperimentato e mi auguro almeno altrettanti sperimenteranno, in futuro. La qual cosa mi acquieta, senza tuttavia mettermi pace del tutto. Soprattutto faccio fatica a rivedere in me il bambino che ero, che sono stato e ho il dubbio che tra quarant'anni sarà lo stesso e non riconoscerò l'uomo che sono ora. Mi domandavo stamattina, dopo aver fatto la barba, guardandomi allo specchio: "Quanto può cambiare una persona?". Non è forse vero che molti dei difetti o delle mancanze che m'imputavo quando ero piccolo si sono dissolte, rivelando un Giorgio migliore da colui che io per primo immaginavo? E non vale forse il contrario, cioé che per molti aspetti sono peggiorato, perdendo insieme a qualche vizio pure molte virtù di cui andavo orgoglioso? Quante paturnie, penserà qualcuno. Non sono d'accordo. Perché da ciò dipende come si guarda il mondo e le persone che ci vivono attorno. Dalla consapevolezza che tutto muta o dalla convinzione che tutto rimane uguale e che i cambiamenti possono essere soltanto superficiali, rivelando prima o poi la vera essenza di ognuno, dipende la disponibilità ad aprirsi all'altro, ad avere fiducia, oppure la durezza, lo scetticismo, il cinismo persino. Una regola fissa non esiste, credo che al fondo ci sia la concezione che ciascuno di noi ha del mondo: io mi ostino a pensare che, nonostante il male evidente, sia sempre maggiore il bene, il bello, il buono. Posso sbagliare, ma non credo che quei due solchi che i più stolti - sbagliando - chiamano rughe, siano spuntati per caso.


Foto by Leonora

venerdì 13 agosto 2010

I post dell'angolo giro


Stasera do i numeri, ma senza ambizioni da superenalotto né da manicomio.

Trecentosessanta, come i gradi dell'angolo giro. Trecentosessanta sono i miei post, questo compreso. Ho cominciato quasi tre anni fa, quando avevo altri problemi, diverse ambizioni, differenti motivazioni; continuo ora, tenendo fede a un impegno che per me è anche riscatto: non ho mai saputo tenere un diario e fin da quando ero piccolo mi son sentito spesso in colpa, ritenendomi umorale e discontinuo. Perciò coinsidero questo blog una medaglia al petto, una sorta di portolano che mi porto appresso o di giardino, che tengo curato e coltivo giorno per giorno. Quasi, giorno per giorno. Prima era più vario, ora forse mi sto ripiegando su me stesso, trasformandolo in qualcosa di più intimo. Non è una scelta a tavolino, anche se il fatto che sia pubblico e in qualche modo seguito, m'induce ad avere riguardo non soltanto dei miei desideri, ma anche del punto esatto in cui si incrociano con quelli degli amici che lo leggono e che lo leggeranno, in un futuro magari remoto, essendo pure un messaggio come quelli che si mettono nelle bottiglie e poi si affidano alle onde dell'oceano.

Quarantadue sono appunto le persone che per questo blog hanno una simpatia generosa, che li colloca tra i "sostenitori ufficiali", con tanto di fotina qui a fianco. In realtà gli affezionati sono assai di più e mi sorprendo ogni volta di scoprirne qualcuno, o perché lascia un commento oppure una mail o ancora mi ferma per strada e mi dice: "Io ti leggo. Sul tuo blog". Come ho già scritto, li considero un dono e mi fanno sentire ogni volta fiero, colpendo al cuore la mia vanità (non ci vuole per altro gran mira, essendo già abbondante di suo) e facendomi sentire fortunato, per niente solo. Nonostante ciò, imperterrito mi ostino a non mettere alcun contatore di visitatori, come ho deciso all'inizio di questa sorta di viaggio. Un modo come un altro per evitare di cadere nella tentazione di diventare da padrone a schiavo.

Ottocentonovantacinque sono invece, alla data attuale, gli "amici" che ho su Facebook. In principio ero assai selettivo, da un paio d'anni sono meno rigido e accetto richieste che arrivano anche senza sapere con esattezza chi siano, scoprendo spesso persone straordinarie e una ricchezza che non avrei mai immaginato. Anche in questo caso però cerco di prestare attenzione affinchè il fine non diventi lo stesso strumento. Considero Facebook l'evoluzione del vecchio elenco telefonico: non sono importanti i numeri, bensì la possibilità di entrare e tenersi in contatto. Non giudico chi colleziona "amici" come figurine e ne ha tre, quattro, perfino cinquemila, dico soltanto che io non riuscirei: è la differenza che passa tra coltivare i pomodori nel proprio orto oppure affittare un appezzamento di terra e praticare l'agricoltura intensiva, modello Farmville potrei dire, per farmi capire anche da coloro che non hanno messo mai piede in un prato.
Foto by Leonora

giovedì 12 agosto 2010

La cima e il ponte


"Non ci sono più poeti capaci di cantare l'impegno civile" titolava qualche giorno fa La Stampa. Non solo i poeti. E' il pensiero debole, che s'è avvinghiato a noi come un'edera e copre gli occhi, offusca il cuore. Galleggiamo senza dare profondità, né ergerci a un palmo da terra, per scrutare cosa stia accadendo. In queste sere d'agosto bagnato e fresco, rivedo i film di Charlie Chaplin. Rido, d'una risata spontanea, di fronte a questo ometto immenso, a cui non sta larga la definizione di genio. Rido, ma rifletto. Non c'è tema che egli non abbia saputo trattare con ironia eppure con spessore, costringendo ad interrogarci sui mali del proprio tempo. La dittatura, l'alienazione della catena di montaggio, la povertà, l'infanzia negata... Non vorrei scandalizzare nessuno dicendo che Benigni ha fatto lo stesso: la mafia (Johnny Stecchino), la schizofrenia dei mass media (Il mostro), la guerra (La tigre e la neve), persino l'Olocausto (La vita è bella). Di entrambi ammiro il coraggio, quasi la sfrontatezza, di affrontare temi tanto impegnativi. Fanno da ponte: non si preoccupano di dire tutto e riescono a centrare il nocciolo, toccandoci l'anima. Se mai scriverò un libro vorrei avere la stessa lucida consapevolezza e l'ardire di raccontare le grandi cose attraverso quelle piccole. Perché in questo credo stia la loro eccezionalità, così com'è - da che mondo è mondo - il cuore della narrazione, a prescindere che sia fatta a voce, o scritta o resa suono e immagine, come alla tv, o nel cinema.

Lo scorso fine settimana sono stato in montagna. Due giorni e mezzo, in compagnia di Raffaele, Angelo, Paolo, Mauro e rispettive famiglie. Alloggiati in un rifugio sopra Grosio, in val di Sacco, a 1964 metri di altezza. Dormivamo tutti in uno stanzone (due, per la verità: uno per gli adulti, l'altro per i ragazzi) e abbiamo cenato sontuosamente, grazie a cuochi e cuoche che ci hanno rimpinzato di ogni ben di Dio, tutto rigorosamente "made in Valtellina". Abbiamo scalato monti, visto laghi, chiacchierato a lungo e riso ancora di più, rimpiangendo - almeno da parte mia - il fatto di non averlo fatto più spesso prima, di aver lasciato che il tempo ci scorresse via, anche se l'amicizia è rimasta la stessa e sono bastati cinque minuti per unire gli adolescenti ch'eravamo agli uomini che siamo diventati, ciascuno percorrendo la sua via, eppure scoprendola così vicina a quella altrui da non distinguerla se la si osserva come si fa con i sentieri che tagliano i monti e portano, pur da passi diversi, tutti alla cima.


Foto by Leonora

domenica 1 agosto 2010

Il tronco cavo


Fuori c'è un cielo lindo, con mille stelle appese al buio. L'aria punge. Paola, Elena, Riccardo e Paolo con bambini al seguito si sono appena chiusi alle spalle il nostro cancello e io mi godo un po' di silenzio, dopo una bella serata in compagnia, ch'è stata il culmine d'una giornata di lavoro. Mi piace lavorare al sabato: comunque vada, ritorno a casa sazio, appagato. Dal mazzo dei discorsi fatti attorno al tavolo piglio non a caso un argomento: i figli che crescono. Mi piaceva vedere Filippo, otto anni, seduto come un ometto, che ascoltava le parole dei grandi, silenzioso e composto, lui che invece ha sempre l'argento vivo addosso. Assomiglia al mio Giacomo, che d'indole è più quieto, però ha lo stesso gusto per l'ascolto. Non so dove, con precisione, eppure da qualche parte in questo blog ricordo di aver già parlato dello stupore che provo nel vedere crescere questi cuccioli d'uomo, così simili a noi eppure tanto diversi, originali, autonomi, unici. C'è una miscela straordinaria tra ciò che apprendono e ciò che essi sono, tra formazione e genio, tra cultura e natura. E' il tema di "Una poltrona per due", un film divertente e serio insieme, che ho visto molte volte. Quanto conta l'ambiente in cui cresciamo e quanto i cromosomi che abbiamo impressi come impronta dissimile da ognuno? Per scoprirlo non basta tutta la scienza e la saggezza del mondo, resta un mistero. C'è scritto nel Vangelo che l'albero buono si vede dai frutti che porta. Non è lo stesso per l'uomo. Conosco persone squisite, genitori che sono piante tutte d'un pezzo e hanno per figlio un ramo ritorto, un tronco cavo oppure, viceversa, germogli straordinari spuntati da un seme gramo. Credo che molto dipenda dalla compagnia che un ragazzo si cerca o trova, ma neppure questo è un fattore che si ascrive al solo caso e così siamo punto e a capo. Perciò evito un inutile mal di testa e smetto di fare calcolo, ricordando ciò che mi ripeto spesso: i bambini sono un dono, non progetto. E' il motivo per cui questa sera, dopo aver salutato gli amici e chiuso il cancello, mentre percorrevo il viale di casa con il piccolo Giovanni accanto, per un attimo ho dimenticato ansie, paure, preoccupazioni sulle compagnie che frequenterà, sui problemi che incontrerà e tutto quanto, gli ho messo un braccio attorno al collo e me lo stretto al fianco, pensando che potrà sempre contare su di me e io su di lui, padre e figlio.

Foto by Leonora