lunedì 29 novembre 2010

Il valore e il successo


Giacomo è stato bravissimo, ieri sera, allo spettacolo teatrale che ha preparato con gli altri ragazzi e ragazze di terza media. Io alla sua età ero molto più imbranato: ricordo la prima volta da adolescente in scena, nei panni (pochi panni) del bambino indiano Rajii Shankar. Ero teso e talmente rigido che al mio posto sarebbe stato più espressivo anche un menhir, uno sperone di pietra. Bravi anche i suoi compagni, si vede che al di là del nostro borbottare play station e televisione non tarpano capacità e creatività varia.

Poco fa leggevo sul Foglio del lunedì qualche breve biografia dei giornalisti che hanno firmato gli articoli in pagina. Ho smesso da un pezzo di considerarmi giovane ma ammetto che fa un certo effetto notare che esimi direttori e prestigiosi inviati hanno meno anni di quanto io ne abbia. Mi convinco che ognuno percorra la sua strada, misteriosi sono gli itinerari e ricordo di essere partito tardi, già convinto di dover puntare alla maratona, poiché i quattrocento metri erano già finiti da un pezzo e non ero neppure alla linea del via. Non ho l'ambizione della poltrona: ogni giorno ho la dimostrazione di quanto arduo sia prendere decisioni, più in alto si sale e peggio è e non sono più così ingenuo da non conoscere qual è l'altro lato della medaglia. Semmai temo di impiegare il tempo facendo altro rispetto a ciò per cui ho un talento. Poi ripenso a quando era un bambino, e recitavo da cani, e scrivevo anche peggio: dov'è certificato che io abbia un talento? Allora riformulo la preoccupazione: temo di non riuscire a fare ciò che veramente mi piace. E cioè? Scrivere, raccontare. Però non è male neanche scegliere gli argomenti da mettere in pagina. E discutere con i colleghi, fare i titoli (io adoro fare i titoli), scartare dieci foto e prendere dal mazzo proprio quella giusta... Diciamoci la verità: cosa voglio di più? Le noie non mancano ma mi alzo al mattino - neanche presto - e posso fare un mestiere che adoro. Semmai mi stupisco di coloro che riescono a lavorare, presentare serate, scrivere libri. Scrivere libri. Ma come fanno a scrivere libri? Dove trovano il tempo, le energie mentali? Non credo di essere pigro e neppure di perdere tempo in stupidaggini. Sì, vedo qualche film, la sera tardi. E leggo, però quello è anche un dovere professionale, oltre che un piacere. Forse ho capito: il problema è che dormo troppo. Otto ore a notte, anche nove, minimo. Berlusconi non ne spreca che cinque. Forse quattro. Non c'è da stupirsi che lui abbia un impero economico, sia presidente del Consiglio, partecipi a feste con ragazzine che hanno un terzo (quasi un quarto) dei suoi anni, mentre io me sto qui, sul divano, da solo, che sono quasi le due e m'è venuto freddo ai piedi. E sto vedendo un film ("Star System"), una delle stupide commedie di Hollywood, dove però un professore di filosofia ha appena finito di citare al figlio una frase di Einstein. "Non cercare di diventare un uomo di successo. Piuttosto, diventa un uomo di valore" gli ha detto. L'attore aveva una faccia da uomo buono, saggio. A Villa Certosa, se mai ha bussato, non devono avergli aperto.

Foto by Leonora

mercoledì 24 novembre 2010

Sulle spalle dei giganti


Ambrogio toglie la protezione anti grandine. Domani o dopo dicono che nevicherà e teme che il peso divelga la rete che teneva al riparo le viti, ormai non più gravide d'uva. E' una stagione che si spegne, questa. Forse anche la sua, anche se non ha ancora settant'anni e un fisico che nonostante qualche recente acciacco mette invidia. Gli voglio bene, pur se è uomo da nessuna smanceria e sa essere sarcastico e duro e tagliente come i metalli che ha commerciato per un vita. Per trent'anni di lavoro ha fatto coppia con mio padre, anche se era lui che portava in dote un mestiere e nel bene e nel male teneva di tutta la baracca le briglia. Entrambi gran lavoratori, avevano un carattere opposto: lui più irruente, scaltro, dinamico, strategico; più riflessivo, metodico, ordinato, paziente mio padre. Avevano un punto d'equilibrio proprio nel fatto che nessuno dei due si tirava indietro, in una generosità di fondo e una praticità poco pignola, tipica degli uomini (le donne non me ne vogliano). Non sono stati estranei da incomprensioni, litigi persino. Li hanno superati, dando esempio di cosa significhi la parola amicizia. Con Ambrogio ricordo innumerevoli momenti. La prima parolaccia sentita, la prima presa in giro subita, il pianto commosso quand'è morto Mario, suo padre, brianzolo purosangue, che ha comprato e venduto pelli di coniglio da quando aveva ancora i denti da latte fino a che ha chiuso gli occhi l'ultima volta. Quando all'inizio degli anni Settanta stavamo costruendo la casa fu Ambrogio, senza salamelecchi né fronzoli, che ci prestò una somma che ora appare piccola ma che allora era essenziale per arrivare al tetto e tirare al fiato, senza ricorrere a una banca. Quando leggo del miracolo economico, del produttivo nord ch'è riuscito a lasciarsi alle spalle la miseria, penso ad Ambrogio e a mio padre e a decine di migliaia come loro, che sono andati in vacanza meno volte di quante in una mano le dita. E' lavorando dieci ore al giorno, aiutandosi a vicenda, che hanno costruito mattone su mattone non soltanto una casa, ma anche il benessere di cui godiamo ora, le fondamenta di un futuro in cui un paio di scarpe ai piedi non sono più un lusso e l'unica cosa che manca è forse il latte di gallina. Non gliel'ho detto oggi, quando sono andato a trovarlo, perché mi avrebbe turato la bocca con l'ironia, dicendo che sono il solito esagerato, sentimentale, che la metto giù dura. "Cala, trinchetto" mi avrebbe detto. Però lo penso davvero. Lunghi anni ad Ambrogio, che non è un santo ma un gigante sì. E' salendo sulle spalle di tutti quelli come lui che noi riusciamo a sfiorare il cielo, sorridendo alla vita.

Foto by Leonora

sabato 20 novembre 2010

Il piede storto


Ci sono giorni che cominciano così, col piede storto. Oggi era uno di quelli, fin da quando sono uscito di casa, poi in redazione, dove sono stato più intrattabile d'un riccio spinoso. Non mi andava bene nulla, vedevo nero dappertutto. Cercasi disperatamente una mano di bianco. Possibile che sia solamente io esigente, severo nel giudicare quello che faccio, che potrebbe essere fatto molto meglio? In particolare in questi giorni ce l'ho con quanto è scontato, con i nostri cliché mentali, con l'abitudine e l'assuefazione al percorrere il sentiero conosciuto, alla mancata voglia e volontà di mettersi maggiormente in discussione, di sperimentare vie, di capovolgere il tavolo e provare a inventarsi un mondo nuovo. "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero". Perché non possiamo noi? Di cosa abbiamo paura, cosa ci induce a restare legati a una corda, a tenere il freno tirato? Fretta. Fretta di fare, di concludere, di decidere. Desiderio di chiudere le caselle della tombola una ad una, così da arrivare alla svelta a un risultato, qualunque esso sia, un tanto al chilo, tanto siamo pagati lo stesso, anzi - se facciamo bene, ma impiegando più tempo - anche meno. Dov'è la passione? Dov'è il fuoco che ci spinge a migliorare, a sfidare noi stessi ogni giorno, a innamorarci di ciò che mettiamo in pagina e che il mattino successivo finisce in mano a migliaia di persone, una platea tanto grande che se solo ne avessimo cognizione, autentica consapevolezza, dovremmo metterci in ginocchio e piangere, di commozione o tremare, per lo stupore? Ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo, della bellezza del mestiere che abbiamo lottato per fare ma, riconosciamolo, per tutti noi è arrivato in dono? Non basta mettere parole l'una in fila all'altra, riempire spazi bianchi, cogliere il primo frutto che pende dall'albero. O il nostro è un concerto, una sinfonia, un immenso quadro, un piccolo capolavoro quotidiano o non è nulla, carta che va al macero. Questa è la verità. E chi non lo capisce, penserà sempre che fare il giornalista è semplicemente un lavoro, scollegato dalla vita, da cedersi per soldi o baratto. Domani pomeriggio andrò a parlare a una tavola rotonda sul futuro della nostra professione, su studi e mestieri della comunicazione. Speriamo che l'amarezza e il cinismo si sciolgano, non ho intenzione di portare a lungo il broncio con me stesso, anche se non è così automatico farsela passare, nascondere tutto alzando semplicemente il tappeto e gettandoci sotto con la scopa lo sporco.

Foto by Leonora

giovedì 18 novembre 2010

Garibaldi fu ferito


Ciascuno ha le sue convinzioni, che mutano per cultura, istinto ed esperienza. Quello che faccio qui, lasciare quasi ogni giorno una traccia, contraddice nei fatti l'opinione che negli anni mi sono fatto della memoria, cioè che prima poi svanisce, passa. Possono passare dieci anni, cento o migliaia, ma l'esito è il medesimo, così com'è vero che anche il più antico dei monumenti si sgretolerà ad un certo punto della parabola dell'universo. Una consapevolezza che non mi turba, tutt'altro: come ho scritto altre volte, per certi versi mi rassicura. Ne parlo perché tornando per cena, nonostante fossero le dieci passate, ho ascoltato Giacomo ripetere la lezione di storia. Lo sbarco dei mille, l'incontro di Teano, l'unità d'Italia... Quando ero piccolo Garibaldi era un mito. Si cantavano canzonette che lo riguardavano ("Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion") e ricordo che in quinta elementare, invece dell'album dei calciatori, feci una raccolta di figurine sul Risorgimento. Oggi mi sembra lontano quel tempo: più di Garibaldi stesso. Non è soltanto responsabilità della politica, anche se allora uno dei maggiori partiti lo aveva scelto per modello, mentre uno degli attuali lo vede come il simbolo di un misfatto (io per altro andavo a scuola dalla suore, eppure Garibaldi era ugualmente riverito, segno che l'ottusità perché sia perfetta necessita di qualcuno che lancia l'anatema ma anche qualcun altro che lo raccoglie e si adegua con zelo). La corrosione ha origine assai più profonda dell'onda del momento e in ogni caso, ciò che rimane, non è mai fedele all'originale. Chi fosse veramente Garibaldi lo sapeva lui solo ed è una regola che vale per ognuno di noi, compreso me stesso, che in questo blog ha una versione patinata, un riflesso.
P.S. Non riesco più a vedere i telefilm. Anche i film, talvolta, ma le serie tv quasi sempre, specialmente i gialli, che sono stati sempre la mia passione. Sarò diventato un pignolo, ma non c'è episodio in cui mi appaia banale la trama o - più spesso - non scorga una lacuna, un punto che non torna, un dettaglio inverosimile, un difetto. E così, invece che godermi la puntata, mi fisso su quell'aspetto o faccio attenzione per scoprirne un altro e in ogni caso cade in verticale la poesia del momento. Aiuto! Almeno in questo, vorrei tornare ad avere l'ingenuità di un bambino.

Foto by Leonora

martedì 16 novembre 2010

In fila per sei


Mille. Mille e uno, per la precisione. La uno è Alisia, figlia di Michele, mio compagno alle medie e al liceo. Mille e uno amici di Facebook. Una montagna, una pila di nomi e cognomi che a metterli in fila uno ad uno non so neppure dove si arriva. Non li conosco tutti di persona ma abbiamo in comune una porta aperta, una finestra sul giardino altrui, la declinazione virtuale del "nessun uomo è un'isola" (e neanche una donna). Altre cose da segnalare non ne ho. Il faggio è spoglio, da giorni piove, sul tavolo del salone c'è un vaso con dell'agrifoglio e bacche rosse che sono una meraviglia, il criceto Genesio appena diventa buio scatena un rumore d'inferno girando sulla ruota, una settimana fa è passato il giorno del mio compleanno. Quarantaquattro anni in fila per sei col resto di due. Ho conosciuto persone che a guardarle ti viene da alzarti in piedi e toglierti il cappello, ad averlo, un cappello. Qualcuna l'ho persa per strada, per colpa mia.
Foto by Leonora

sabato 13 novembre 2010

Scuola o biblioteca (sindaco incluso)


Voglio bene a Lurate Caccivio: è in quel dedalo di strade, a mezza via tra pianura e collina, che ho radici, casa e famiglia. In questi giorni c'è un dibattito acceso in paese e venerdì è in programma un consiglio comunale aperto alla cittadinanza. Alcuni vorrebbero che le vecchie scuole di Lurate, abbandonate da anni e ora ristrutturate, ospitassero la nuova biblioteca, altri preferirebbero far tornare almeno alcune classi delle elementari. Lo dico subito: sono di parte, essendo stato tra i primi - se non il primo - ad aver chiesto ormai tanti anni fa di metter lì una biblioteca. Credevo e credo tuttora nell'importanza di piantare nel centro di Lurate un seme di cultura. Se dovessi scegliere da solo non avrei dubbi, ma in questo caso si tratta di decidere insieme e sono grato al sindaco Palamara, convinto assertore delle scuole, di aver accettato il confronto, di non aver chiuso le porte. Gli fa onore. Così come è giusto riconoscere alla precedente amministrazione Botta l'aver messo mano all'edificio con un progetto polivalente, che non lega le mani in alcun modo.
Ai miei concittadini, su questo tema, vorrei dire una cosa semplice: mettiamoci in un atteggiamento positivo. Anch'io mi dolgo delle cose che mancano e noto con dispiacere ciò che altri comuni vicini hanno fatto negli anni passati, senza che noi riuscissimo a stare al passo. Questa volta è diverso. Discutiamo non di villette a schiera o rifiuti, bensì se sia meglio una scuola o una biblioteca. Non è forse già questo straordinario? Mille e più persone si sono mobilitate non per un tornaconto personale, ma perché vorrebbero a Lurate un centro civico, delle aule dove trovarsi, degli spazi dove i loro figli possano socializzare, passare i pomeriggi, le serate, in mezzo a montagne di libri. Di contro, l'attuale maggioranza non è scettica perché lì vorrebbe una colata di cemento, ma perché preferirebbe mettere una scuola, richiamandosi alle tradizioni. Non è straordinario anche questo? Sono profondamente convinto che comprendere le ragioni degli altri sia il primo passo per una buona scelta. Ecco perché, senza potere alcuno ma affidandomi al buon senso dei tanti che conosco e che stimo, esprimo qui un desiderio: che venerdì si partecipi più per ascoltare che per convincere. Poi una decisione andrà presa, toccherà al primo cittadino assumersi la responsabilità, ma se saprà mettersi sopra le parti, se ricorderà di essere il sindaco di tutti, se starà a sentire la sua gente - tutta la sua gente - credo che qualsiasi cosa scelga, non sbaglierà.


Ci credevo, lo avevo anche scritto sul giornale. Invece sbaglierà lui, mi sbagliavo io. Ieri sera il sindaco di Lurate Caccivio non ha ascoltato la sua gente: è entrato con la propria idea e con la propria idea è uscito. Che delusione. Avrei voluto dirglielo, parlargli col cuore, ma ho capito subito che non si sarebbe mosso di una virgola. Così me ne sono stato zitto, io che pur non appartengo alla schiera di chi lo crocifigge, che ho nostalgia come molti delle scuole in centro, che considero errori quelli commessi quando non è stata realizzata una scuola a Lurate. Però un centro civico ora vale assai di più, può render vivo il centro storico per tutto il giorno, sere comprese, oltre che a diventare quel "seme di cultura" a cui accennavo prima. Non lo dico per me, bensì per i miei figli, che meritano un posto migliore. La proposta che volevo fare e che mi sono tenuto dentro, come un groppo in gola, è questa: facciamo decidere a loro. Promuoviamo una consultazione di ragazzi e giovani dai dodici ai trent'anni, lasciamo che si assumono la responsabilità di una scelta. Dopotutto siamo al loro servizio: non abbiamo avuto la fortuna di abitare questa terra per farne ciò che vogliamo, bensì per lasciarla in eredità. Questo si chiama bene comune e chi non lo capisce può fare il sindaco cinque anni, ma non lascerà altra impronta che un cattivo ricordo di sé.

P.S. So di essere un pirla, un illuso impenitente, ma io confido ancora che cambi idea. Ha fatto così fatica per diventare sindaco, non può sciupare tutto comportandosi così...

Foto by Leonora

venerdì 5 novembre 2010

Un Paese migliore


Otto. Otto anni. Giovanni li ha compiuti oggi e, oltre alle scarpe con le rotelle, gli è arrivato in dono un criceto. Genesio l'ha chiamato e farà coppia con Silvio, il canarino. Io sono arrivato come al solito tardi, ma in tempo per mangiare la torta, in una bella serata, senza esagerazioni. Il piccolo mi perdonerà se la chiudo qui e parlo d'altro (in effetti però lo sto trascurando: vado a vedere le partite di Giacomo e non le sue, ma non ho preferenze, anche se mi rendo conto che più il tempo passa più il principio si deve declinare in pratica e a fronte di loro tre ci sono io solo, per giunta non ubiquo). In questi ultimi giorni ho incontrato due persone fantastiche. Oggi Catherine, domenica scorsa Biba. Catherine viene dall'Inghilterra. Dalla Cornovaglia, per la precisione. Biba dal Senegal. Lei è bionda, minuta, con due occhi vispi, che guizzano e si sgranano, mentre racconta, e una pelle candida, di luna. Lui è color di una notte senza stelle, alto alto, con uno sguardo buono e un volto che quando ride s'illumina. Catherine è avvocato, moglie di un altro avvocato, inglese anch'egli, di passaporto, humor e d'aspetto, abitano in una villa antica, con giardino e un ampio terrazzo vista lago, e hanno un casolare, a Città di Castello, in Umbria. Biba è figlio di un proprietario di cava, ha otto tra fratelli e sorelli, disseminati tra Europa e Africa, qui fa il saldatore ma al suo paese ha comprato tre ettari di terra, vicino a Dakar e ha costruito una bella casa, che non somiglia per niente all'appartamento stretto e decoroso dove vive ora, con la moglie, alta quasi quanto lui, elegante e bella, che non fa fatica a rimboccarsi le maniche e lavora in un supermercato, reparto cucina. Biba e Catherine non si conoscono, ma hanno in comune una sofferenza. Il figlio di lui, il più piccolo, sette anni, è morto l'anno scorso, mentre era nella vasca da bagno, credo per un aneurisma. La figlia di lei, cinque anni, è malata di leucemia e lotta ogni giorno per la vita. Non voglio entrare nel dettaglio, non ora. L'ho messo perché entrambi, pur nella disgrazia, sono grati all'Italia, ai vicini di casa, agli amici, ai genitori dei compagni di scuola, per la sensibilità, la gentilezza, la solidarietà dimostrata. Sono orgoglioso che Giovanni sia nato e cresca qui, in un paese ch'è migliore di quello che appare, di quello che mostra.
Foto by Leonora

giovedì 4 novembre 2010

L'eterna giovinezza


Alle cronache di Ruby preferisco quelle di Rudy, il dinosauro dell'Era glaciale 3. Lo ammetto: appartengo a quella categoria di persone che, dopo il primo quarto d'ora di stupore e curiosità, dei festini a casa Berlusconi non gliene importa nulla. Sono sensibile alle tentazioni della carne (al venerdì pure a quelle del pesce) e non sono immune da peccati, per cui la prima pietra me la tengo in tasca, così come la seconda, la terza e la quarta. Semmai penso con tristezza ai settant'anni (quasi gli ottanta, se consideriamo Emilio Fede) di chi organizza festini con giovani ragazze compiacenti, al grido di bunga bunga. Mi dicono che capita così, che quando si avvicina la fine ci si aggrappa alla vita con la voracità di un naufrago che annaspa per raggiungere la riva. Sarà. Io mi sono sempre immaginato quell'età con una conquistata serenità, una saggezza raggiunta, una pace interiore e anche dei sensi. Una vecchiaia quieta eppure colorata, come questi giorni d'autunno, da trascorrere tra le persone a cui voglio bene, magari con le gambe sotto una coperta e un libro tra le mani o, se proprio sono stanco, sulla ginocchia. Mi hanno insegnato che non si diventa anziani finché si hanno speranze, ideali, sogni. Soprattutto sogni. E' questa l'eterna gioventù a cui ambisco, la sola che mi ha insegnato mio padre.
Foto by Leonora