mercoledì 23 febbraio 2011

L'uomo che ascolta le piante


Niente. Ci voleva anche il vento artico ad allontare l'annuncio di primavera, in questo inverno cocciuto, ch'è iniziato presto e pare non finire mai. Confido sia un colpo di coda, perché di freddo e giornate corte ne ho piene le tasche, anche se il mio amico Fabio Rovelli, che di mestiere si prende cura delle piante, dice che a parte le gelate di tardo autunno, non è stata una stagione terribile. Fabio era mio compagno di classe alle medie, forse il più sveglio tra noi, e non parlo dei libri di scuola, bensì della vita, cioè di ciò che più conta. Oggi è stato qui perché Isabella non s'accontenta dei cipressi che abbiamo in giardino. "Troppo bassi" ha sentenziato. Neanche a farlo apposta il cipresso cresce lentissimo. "E' l'albero del ricordo" ha detto Fabio, che mi ha affascinato per la sapienza nel capire chi non ha voce e neppure gambe per camminare o braccia per lamentarsi. Lui però guarda le foglie, osserva i rami, e ha una risposta per tutto. Mi ricorda Emilio Trabella, vero saggio e conoscitore di tutto il creato. Con Isabella intanto ho raggiunto un accordo: ne metteremo altri due, di cipressi, sul pendio davanti a casa. Non ora però. Ad aprile, quando farà più caldo e anche quelli attuali si potranno potare e togliere i semi, che rallentano ulteriormente la crescita.

Foto by Leonora

martedì 22 febbraio 2011

Egitto, Tunisia, Libia: le ragioni dell'altro


Guardo di rado i tg, leggo su giornali e internet ciò che accade dal lato opposto del Mediterraneo, senza rendermi conto della portata degli eventi. Tutto si riduce a rincorsa, resoconto contabile di vittime che non hanno volto né storia, vite che durano il tempo di pigiare il tasto del telecomando. Il tragico finisce spesso per lambire il grottesco (le immagini di Gheddafi, a bordo di un motocarro, una sorta di enorme Apecar, che bofonchia qualcosa dal finestrino e apre e chiude l'ombrello, forse per dimostrare che è ancora a Tripoli, dove sta piovendo, anche se lui sembra al chiuso d'un capannone, ha paragoni soltanto con la comicità paradossale dei Monthy Python). Cosa succeda davvero in quei posti nessuno sa dirlo, ed ecco perché sono importanti i giornali o comunque i mass media che sanno distinguere il falso dal vero, la chiacchiera dalla notizia, l'eco di un cannone da quello d'un tamburo. L'ignoranza, la disinformazione è così mista alle nostre paure e preoccupazioni, non estranee da egoismi. Arriveranno immigrati lasciati scappare dalle prigioni? Aumenterà il prezzo della benzina (come se non fosse aumentato anche prima di questo tempo)? Potremo tornare a viaggiare sicuri in quei luoghi? Io so solo quanta fatica costa considerare l'altro un essere umano, riconoscere a chi è lontano quei diritti, quelle opportunità, quelle aspirazioni, a cui noi non rinunciamo. Mi diceva Angelo, che ha lavorato in Egitto, che lì gli operai prendono un decimo di quanto guadagnano in Cina. Pochissimo, sotto la soglia non solo di povertà, ma anche di dignità. Non mi stupisco si ribellino. In attesa di assistere agli sviluppi della situazione, cerco di discernere tra i tanti pensieri un principio: l'unico modo per non perdere ciò che ho di più caro è quello di aiutare anche gli altri ad ottenerlo.


Foto by Leonora

lunedì 21 febbraio 2011

Giovanni Lo Gatto: così Tangentopoli si spense

Nell'ora e mezza che passanno con lui non si alzò mai in piedi. Lo abbiamo trovato scritto negli appunti di quel giorno, il 16 aprile 1998, ma non lo ricordavamo affatto. Giovanni Lo Gatto del grande accusatore, come imponeva il suo ruolo, non aveva nulla. Lo scrivemmo: ci parve un uomo buono. Oggi, che pure il tempo è passato ed è andato in pensione da un pezzo, trascorre ore in biblioteca. O almeno le passava, un anno fa, quando lo incotrammo di nuovo. Mettiamo qui la sua intervista, per far seguito a quella di Virzì, ritenendo così compiuto un mini capitolo dedicato alla giustizia. Rileggendola, ci è sembrata interessante la parte su tangentopoli, su come mai sia finita. "All’inizio degli anni ’90, per una serie di circostanze, si creò un clima favorevole che fece scattare un meccanismo di segnalazione delle illegalità. I magistrati quando sentono il sostegno dell'opinione pubblica diventano più forti. Il contesto in cui si lavora è importante. Ora c'è stato un raffreddamento: lo si evince dagli atteggiamenti dei politici. Gruppi che prima sostenevano l’operazione “mani pulite” ora hanno quanto meno affievolito il loro impegno".
Credo sia una verità. Che testimonia come i giudici, da soli, non possano fare una rivoluzione, né far cadere un regime. C'è chi vede in ciò un limite, per me rimane la migliore garanzia per uno Stato che vuole continuare ad essere democratico.

Come i soldi per un avaro. Come l’acqua per un abitante del deserto. Giovanni Lo Gatto usa le parole con parsimonia estrema. E’ arduo che una sua frase contenga più vocaboli di quanti se ne possano contare sulle dita di una mano. I termini egli non solo li centellina. Usa anche squadrarli, pesarli e misurarli ad uno ad uno. Con accortezza e rigore. Non è unicamente una questioni di numeri, ma anche di toni.
Giovanni è Lo Gatto non soltanto di cognome. Il felino domestico è felpato nel passo, lui invece nel modo di parlare.
In un aula di tribunale ammettiamo di non averlo mai visto, ma scommettiamo che neppure lì abbia mai alzato la voce. Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Como da oltre tre decenni, Lo Gatto è un uomo di legge tutto d’un pezzo. Nel corso della sua carriera ha sostenuto l’accusa, come pubblico ministero, in migliaia di processi, ma non ce lo immaginiamo affatto accanirsi pervicacemente nei confronti di una persona, fosse anche un incallito criminale. Con una faccia come la sua, non se lo potrebbe permettere. E’ vero che le caratteristiche somatiche non hanno relazione con il carattere di una persona, eppure certi uomini di legge hanno nel volto certi tratti sottili e taglienti che inducono a pensare ad una pignoleria e ad una inflessibilità che sovente si imparenta con il fanatismo. Non è il suo caso. Al contrario, i suoi occhi sottolineano una certa vocazione alla bonarietà.
Giovanni Lo Gatto ci riceve nel suo ufficio, al quinto piano del Palazzo di Giustizia. Un ampio e luminoso locale, in perfetta sintonia con la sobrietà dell’uomo e la dignità del personaggio.
Come mai scelse la magistratura?
A me non dispiaceva medicina, ma la prima volta che visitai un laboratorio di patologia stetti piuttosto male e scartai l’ipotesi di diventare medico”.
Non si è pentito?
Mai. Anche se durante il primo incarico di pretore venni spesso delegato per le indagini autopsiche e dovetti fare l’abitudine a veder sezionare i cadaveri. Il destino sa essere beffardo”.
Dopo essere stato a Brescia, Castiglione delle Stiviere e Intra, nel 1964 arrivò a Como. Cosa trovò?
Tranquillità. Il reato più frequente era il contrabbando. Per rompere la monotonia ci contendevamo qualche omicidio in giudizio alla Corte d’Assise”.
Ora invece?
La situazione si è deteriorata. Droga, terrorismo, reati contro la pubblica amministrazione, tangenti. La condizione lariana si è omologata a quella nazionale”.
Con gli abitanti di Como si trovò subito a proprio agio?
Sì. Nel tempo ho coltivato numerose amicizie. I comaschi sono meno esuberanti dei meridionali”. In principio parla dei comaschi alla terza persona plurale, ma l’impressione è che a Lo Gatto scappi da un momento all’altro un “noi”. Infatti accade. “Noi siamo meno estroversi – confida il procuratore - un po’ più diffidenti nei confronti di chi viene da fuori, ma una volta che l’amicizia si è cementata sappiamo essere generosi”. Il pronome personale non è di maniera, sottolinea un’appartenenza. Giovanni Lo Gatto è nato sessantotto anni fa a Napoli, ma della sua terra ha conservato l’accento e poco altro. Se per comasco si intende un modo di vita senza clamori, discreto, riservato Lo Gatto lo è a tutto tondo. E tale egli si sente.
Attualmente parecchie polemiche coinvolgono la magistratura. Cosa ne pensa?
Per rispondere in sintesi, sono d’accordo con la posizione della procura di Milano”.
Ma le loro toghe non sono rosse?
Voler dare una coloritura politica al pool di “mani pulite” porta completamente fuori strada. Il pool è composto da magistrati di diverse tendenze”.
Certe voci fanno allora parte di un piano per screditare la magistratura?
Ai complotti e ai disegni credo poco. Avverto piuttosto un certo risentimento, una certa insofferenza nei confronti dei magistrati da parte di coloro che, per motivi vari, erano abituati ad essere esenti da ogni controllo”.
Si riferisce alle persone coinvolte in Tangentopoli?
Soprattutto a loro. All’inizio degli anni ’90, per una serie di circostanze, si creò un clima favorevole che fece scattare un meccanismo di segnalazione delle illegalità”.
E i magistrati?
Quando si sente il sostegno dell’opinione pubblica si diventa più forti. Il contesto in cui si lavora è importante”.
Quel clima favorevole esiste ancora?
Indubbiamente registriamo un raffreddamento”.
Scusi l’insistenza. Per parlare il vostro stesso linguaggio, questo calo di tensione può essere dimostrato attraverso dei fatti, delle prove oppure ci sono solo degli indizi?
Lo si evince dagli atteggiamenti dei politici. Gruppi che prima sostenevano l’operazione “mani pulite” ora hanno quanto meno affievolito il loro impegno”.
C’è una via d’uscita?
L’auspicio è che i poteri di controllo all’interno della pubblica amministrazione diventino sempre più efficaci ed effettivi, in modo che la nostra sia un’azione residuale”.
In questo modo si diminuirebbero i carichi di lavoro, rendendo la giustizia più rapida?
Indubbiamente. E qualcosa si potrebbe fare anche livello legislativo”.
Cosa?
Inasprire le sanzioni serve a poco. Il problema è quello della loro effettività. Occorre la certezza della pena. In Italia è questo che manca. La sentenza definitiva arriva con anni di ritardo. Nel penale almeno la sentenza di secondo grado dovrebbe essere esecutiva. E poi l’azione della Cassazione dovrebbe essere limitata ai motivi di legittimità. Due punti fondamentali”.
Mentre parla Lo Gatto tiene in mano una pipa.
E’ una compagna fedele da circa vent’anni. Le sigarette le fumavo anche mentre lavoravo, con la pipa non è possibile. La accendo solo quando ho un momento di relax, altrimenti la tengo spenta”.
Fuori da questo ufficio, che altre passioni ha?
Interessi storici. A partire dalla rivoluzione francese in poi”.
C’è qualche personaggio che più l’ha affascinata.
Ce ne sono parecchi, ma non faccio nomi poiché non vorrei fare un torto agli altri”.
Fare torti può capitare ad un magistrato. La sua è una professione che comporta problemi di coscienza.
Il nostro è un lavoro angoscioso. Più grave è il reato, maggiore è la perplessità nel decidere”.
Ha sempre dormito la notte?
Se non l’ho fatto era per il dubbio di una scelta, mai perché non mi sono sentito in pace con la mia coscienza”.
Giorgio Bardaglio

Qualche nota a margine, mai pubblicata.

Si sente comasco?
Credo di poter pretendere con qualche fondamento la cittadinanza comasca onoraria”.

Il Procuratore della Repubblica è il titolare dell’azione penale, colui che inizia l’azione penale ove abbia cognizione di un reato o ne abbia ricevuto notizia. Egli esercita l’azione penale direttamente, oppure delegando i suoi sostituti.
Date le dimensioni medie del nostro ufficio non possiamo formare dei pool, però cerchiamo di ritaglairci ognuno una specifica competenza. In linea generale si mantiene questa competenza
”.

Virzì considera la peggiore iattura quella di eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale. Le notizie di reato sono moltissime. Non è possibile occuparsene di tutte. Come fate a scegliere?
Ci sono delle direttive di massima del Consiglio Superiore della Magistratura, che invitano a non seguire un criterio puramente cronologico”.
Torniamo a Tangentopoli. Se il clima è favorevole non si scelgono quelle cartelle?
No. La pressione dell’opinione pubblica non arriva a tanto. Conta la cronologia, ma anche la gravità dei fatti”.

Giovanni Lo Gatto è nato sessantotto anni fa a Napoli. Delle origini gli è rimasto l’accento e poco altro. Della terra partenopea non ha certo l’esuberanza.
Dopo aver conseguito la maturità classica mi si presentò un bivio. Dovevo scegliere tra la facoltà di medicina e quella di giurisprudenza”.

Da che famiglia proviene?
Media borghesia. Mio padre era ragioniere”.

Come mai scartò l’avvocatura?
Fare l’avvocato con dignità nel meridione era difficile, bisogna occuparsi di una pluralità di questioni, senza possibilità di specializzazione”.

domenica 20 febbraio 2011

Lo stupore dell'asino


Ho la fortuna che gli anni intaccano la superficie, non l'essenza di ciò che sono, anche se poi restituiscono di me un'immagine che a volte non riconosco allo specchio. A ben pensarci, è una vita che mi preparo a diventare "bene" vecchio, non di quelli che si ostinano ad apparire ragazzini, né di coloro che rimangono perfetti fino a un dato tempo, per poi affrontare il tracollo. Scendo o salgo, dipende dai punti di vista, un gradino al giorno. E mi consolo leggendo l'età di persone famose, che hanno i miei stessi anni e sembrano mio padre o mio nonno. Semmai, riconosco al trascorrere degli anni l'avermi portato in dono una consapevolezza, una serenità e moltissime abilità che quando ero giovane nemmeno mi sognavo. Vale per l'esecuzione di lavori materiali, quali smontare e rimontare il tagliaerba o l'appendere un gancio al muro, ma anche per la scrittura, ch'è il mio lavoro e forse anche talento. Uso questa parola con prudenza, intuendone la grandezza senza sapere se per me s'addice davvero. Non so se questa è la mia "inclinazione naturale". Se così fosse, mi sarei distinto fin da subito, mentre all'inizio ero un somaro. Un ciucco, anzi, nella doppia valenza, perché il mio era un periodare d'asino e insieme d'ubriaco. Credo che il seme, la scintilla creativa esistesse già, ma da ragazzo era seppellita da una montagna di pigrizia e ignoranza. In ogni caso, non era evidenza dirompente, quella somma di capacità naturali e di apprendimento che distinguono l'onesto e diligente operaio dal genio. Prendiamo l'ultima edizione del festival di Sanremo. Dei cantanti non saprei, poiché mi mancano gli elementi per un giudizio (colui che ha vinto la sezione giovani, Raphael Gualazzi, potrebbe appartenere alla categoria dei fuoriclasse, visto che è autore di testi e musica e ha mietuto un consenso unanime, come solitamente si riconosce appunto ai fuoriclasse: qualcosa di simile, ricordo, accadde per la Pausini, anni fa). Il marchio del genio invece è cristallino in Roberto Benigni, che sa fare cose che non riescono a nessun altro al mondo. Poi può non piacere (viva la voce che stecca nel coro!) ma è difficile non riconoscergli una straordinaria abilità, unica al mondo, come l'aveva Charlie Chaplin o Diego Armando Maradona, nel calcio. Da dove derivi questa unicità, come si sia sviluppato il dono ricevuto, mi ha sempre affascinato. Lo stupore dell'asino di fronte all'eleganza e bellezza del cavallo purosangue arabo.


Foto by Leonora

sabato 19 febbraio 2011

Baldo Virzì, magistrato (La giustizia di un giusto)

Era la festa del papà di tredici anni fa, il 19 marzo 1998. Sembra oggi. Riforma della giustizia, magistrati tacciati di essere di parte, politici accusati e che accusano... Di galantuomini in vita mia ne ho incontrati molti, gente che quando ti trovi davanti di viene da rimanere a schiena dritta ma toglierti il cappello, anche se il cappello non si usa più. Baldo Virzì appartiene a questa schiera, un giudice tutto d'un pezzo, un uomo d'uno stampo che forse non s'è perso ma occorrono anni e anni, decenni per forgiarlo, per definirlo in quei dettagli salienti che lo distinguono in meglio. Lui, Giovanni Lo Gatto, sui figlia Luisa, ma anche Vittorio Nessi e tanti altri sono persone che, nonostante facciano il mestiere più difficile del mondo, mi rassicurano e in un certo senso consolano: anche se la giustizia non è di questo mondo, amministrarla con senso di responsabilità è garanzia che vale più di ogni "legge uguale per tutti" scritta su un muro.

I molti che dimenticano persino l’anniversario di nozze o il compleanno dei figli, impallidiscano pure. Per Baldo Virzì il pressappoco non esiste. Non solo egli ricorda che diede il primo esame universitario nel 1945. Spiega anche che era luglio. Non basta menzionare che lasciò la pretura per il tribunale di Como nel 1958. Gli urge rilevare che era un gennaio. Non gli par giusto rammentare di aver presentato domanda di pensione nel 1993, senza specificare che era agosto.
Baldo Virzì, nato a Como settanta tre anni fa, forse non eccede nella pignoleria, ma di certo ha il culto della precisione. Non è un caso che, pur ammettendo di non avere rimpianti nell’essere stato per quarant’anni magistrato ("ho sempre fatto il mio mestiere con interesse, direi persino con entusiasmo"), egli abbia sempre considerato ammaliante la professione dell’ingegnere. "Mi ha sempre affascinato la costruzione. Non di case, ma di ponti e strade. E dighe. Ho un’ammirazione sconfinata, forse eccessiva per l’ingegnere che nel suo studio calcola quanto deve essere la curvatura e quanto lo spessore della diga. E la sua scienza è esatta ".
Mentre parla di ponti e dighe, Virzì chiude beato gli occhi e con le mani traccia nell’aria linee e curve. Deve essere stato così anche quand’era in camera di consiglio. Non ciarliero affabulatore di teorie, bensì rigoroso esecutore nell’applicare e soppesare norme e leggi. "Ma sostanzialmente il processo, sia civile sia penale, è rigoroso. Si tratta in sintesi di un dialogo. C’è chi propone una domanda e chi deve fornire una risposta. E per entrambe bisogna portare a fondamento delle prove. Perde chi per primo non può dimostrare quello che afferma. Semplice".
E il giudice, che dovrebbe essere arbitro, riesce sempre ad essere al di sopra delle parti?
"So dove vuole arrivare – anticipa sornione – oggi si fa un gran parlare di terzietà del giudice, di separazione delle carriere o delle funzioni, come del resto prescrive la nostra costituzione. Vi voglio dire una cosa – sorride – per almeno vent’anni, il venerdì sera, mantenemmo l’abitudine di fare il pokerino. Io, Luciano Niedda, Luigino D’Ambrosio, Mario Dal Franco e Giovanni Lo Gatto. Questi ultimi due erano sovente pubblici ministeri nei processi di Corte d’Assise, in cui io ero giudice a latere. Ora, ci si può credere oppure no, ma è storicamente vero, che mai durante quelle serate parlammo di un processo in corso. Ci fosse stata una volta, una parola. Mai. Era naturaliter, spontaneo. Io ascoltavo le loro ragioni solo nei dibattimenti e non era un’eccezione che fossi in disaccordo. D’altro canto, come dice Gerardo D’Ambrosio, il mestiere dei magistrati e quello di darsi quotidianamente e reciprocamente torto. E’ fisiologico".
Con quello spiegar di mani e con quel tono di voce greve e un poco rauco, Virzì ricorda Indro Montanelli. Del giornalista toscano, oltre all’accento, gli manca lo spirito del bastian contrario, ma non la limpidezza del linguaggio. E la passione per la storia, soprattutto quella contemporanea.
Lei era presidente di Corte d’Appello, quando nel 1992 ("era febbraio" precisa) iniziò la stagione così detta di “mani pulite”. Che memoria ha di quei giorni?
"Per la verità, l’interesse era assai maggiore al di fuori del Palazzo di Giustizia. Ho in mente una sera in cui il tassista che mi portava alla stazione ferroviaria restò muto non più di un minuto. Poi, quasi che la notizia non si accontentasse più di restargli in gola, strombazzò: ha sentito, avviso di garanzia a Craxi". Ride di gusto Virzì, che Baldo è di nome e pure di fatto, imitando lo strillo del tassinaro. Poi si acquieta e accende un’altra sigaretta. Senza fretta. Lui le sigarette non si accontenta di fumarle: lentamente, se le gusta.
Per tredici anni ha lavorato a Milano. Qualcosa di quell’ambiente deve pur conoscerlo. Regge l’ipotesi dell’accanimento dei magistrati nei confronti di una parte?
"Guardi – attacca Virzì, scuotendo più volte il capo - per due anni con Davigo fui membro della giunta dell’associazione magistrati. Parlare di lui come toga rossa è una cosa che fa scompisciare dalle risate. E’ un conservatore, un sano e onesto conservatore. L’appellativo rosso non si attaglia neanche a Borrelli, che conosco da molti anni, addirittura da prima di andare a Milano. E’ semmai un liberale crociano, un liberale illuminato. Chiamiamolo pure liberal, come usano dire gli anglosassoni per definire coloro che hanno tendenze aperte. D’Ambrosio, piuttosto, con il quale non ho mai parlato in senso stretto di politica, ritengo che sia un uomo tendenzialmente di sinistra. Non dimentichiamo però che stiamo parlano di colui che, smentendo le tesi di una certa sinistra, ebbe il coraggio di chiudere la faccenda legata alla morte dell’anarchico Pinelli, ossia l’episodio che aveva sancito la condanna a morte del commissario Calabresi".
Antonio Di Pietro?
"Lo conosco poco, come del resto Gherardo Colombo".
Prima del 1992 di tangenti quasi non si parlava. Poi avvenne un diluvio universale. Se è difficile comprenderne le ragioni per un cittadino qualsiasi, come se lo spiega un addetto ai lavori?
"Ho letto di recente un libro di un giornalista serio, in cui si narravano nove o dieci storie di magistrati che avevano messo le mani in qualche porcheria e che erano stati ostacolati in ogni modo. Personalmente mai mi è capitato di subire pressioni, ma evidentemente ad altri sì. E’ noto, ad esempio, con che ardore Craxi se la prese con Palermo, allora giudice istruttore a Trento".
Lei che aderì nel dopo guerra al Partito d’Azione ("era una partito di generali, e che generali, ma senza soldati"), che militò, prima di entrare in magistratura, nel Partito Socialista ("poi non rinnovai più la tessera perché, per un magistrato, apparire è importante quanto essere"), che ha conosciuto personalmente Nenni, di cui conserva un indelebile ricordo, che idea si è fatto di Bettino Craxi?
"Con Craxi parlai una volta sola. Venne a Como proprio nel primo anniversario della morte di Nenni. Me lo presentò Renzo Pigni e io, che poco prima l’avevo sentito tirare le sue solite sparate anticomuniste, venendomi spontaneo l’uso del tu, gli dissi: “Sei bravo, ma non confondiamo l’Unione Sovietica con il Cile di Pinochet”. E quello, sulla mano, mi rispose: “Caro amico, Pinochet è uno squallido dittatorello fascista; molto peggio è la Russia sovietica, che dice di essere socialista e sopprime la libertà”. Porca miseria, aveva ragione. E dentro di me dissi: questo è bravo. Purtroppo però il mio naso avvertiva che qualcosa non andava. Tutto ciò che il Padreterno mi ha tolto in vista, e ora anche in udito, me l’ha conservato in odorato. Quella che era solo una mia sensazione si rivelò col tempo una verità. Craxi era, oltre a uno splendido animale politico, anche un furfantello".
Giorgio Bardaglio

E ancora, qualche appunto mai pubblicato.

Ora che è in pensione vi può dedicare parte del tempo che quarant’anni di magistratura gli hanno sottratto. Senza rimpianti, però.
"Dopo il liceo classico, nell’ottobre del 1943 mi iscrissi giurisprudenza. Diedi il primo esame nel luglio del 1945. Non frequentai neppure un corso. Mi laureai studiando solo sui libri. Nel 1954 entrai in magistratura. Per sei mesi fui uditore giudiziario e dal giugno dello stesso anno, fino al gennaio del 1958 restai alla vecchia pretura di Via Odescalchi. Da lì mi trasferii al Tribunale di Como, dove rimasi parecchi anni. Nel 1980, per prevenire un trasferimento d’ufficio, chiesi il trasferimento a Milano. Per dieci anni sono stato consigliere di Corte d’Appello, poi nel 1990 ne divenni presidente. Nell’agosto 1993, potendo ormai contare su quarant’anni di servizio e cominciando a sentire la stanchezza, accettai il consiglio di mia moglie e feci domanda di pensionamento. Il gennaio successivo lasciai la magistratura".

"Iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza, fu forse l’unico pensiero utilitaristico che feci in vita mia. Non mi dispiaceva lettere, ma non è che i professori guadagnassero molto neppure allora".

Il nostro colloquio verte tutto sulla giustizia. Ci spiace, poiché poche parole, per di più attorno ad un tema, sono bastate per dimostrare che il giudice che è in lui non esaurisce l’uomo.
"Sono un esempio di cittadino qualsiasi. Sono nato a Como, vissuto qui. Mio padre era siciliano, funzionario del ministero del tesoro, fu trasferito a Bolzano e mia madre volle seguirlo poiché credeva nella famiglia unita. Poi arrivarono a Como nel 1919. Qui conobbe mia madre, la cui famiglia proveniva dal veneto. Sono del 1925. Feci il Liceo Volta".

"Mi occupai anche di procedure concorsuali, fallimenti, concordati preventivi, amministrazioni controllate. Bellissimo – e nella pronuncia le esse del superlativo diventano almeno tre – bellissima la materia fallimentare, col tentativo di risolvere nel modo migliore tutto il reticolo di rapporti che l’impresa aveva intrecciato".

"Non mi sento di far parte di nessuna famiglia. Né quella dei nati a Como, né a quella dei coscritti del 1925 e neanche a quella della magistratura. Mi sembrano attribuzioni vagamente mafiose".

"In quarant’anni, tra i colleghi, ma nemmeno tra i cancelllieri, di mascalzoni non ne ho conosciuti. In quarant’anni non ho avuto una persona che abbia fatto pressioni. Io: non so altri".

"Si parla frequentemente di separazioni delle funzioni, ma è la costituzione che lo afferma questo principio. Non è un’idea nuova".

"Ho sempre avuta una vivissima passione per le vicende politiche, senza mai volerla fare. Sono cresciuto in una famiglia antifascista. Lo era mio padre, che però essendo un funzionario dello Stato non diede mai sfogo a queste sue idee e che determinò un incattivimento dell’uomo, il quale si mangiò il fegato per vent’anni. Qualche volta lo sentii nominare, tra gli altri, un nome: Nenni. Io, da bambino, e allora non si potevano fare domande, nella mia mente infantile associai questo nome, Nenni, ad una statura bassa, quasi fosse un nano. Per farla breve, quando lo conobbi del tutto casualmente a Bolzano, mi affascinò. E il Partito d’Azione. Nel 1947, ormai è preistoria, accadde un fatto grave. Il partito socialista si spaccò. Ritenni allora che non fosse più consentito, specialmente a un giovane, rimanere alla finestra. Andai alla sede del Partito Socialista e mi iscrissi".

C’è giustizia in Italia?
"Non sono originale. Già che il giudizio arrivi dopo molto tempo contraddice il concetto di giustizia".

"Sono convinto che trapiantare ordinamenti giuridici da un paese all’altro è molto, ma molto più difficile, che trapiantare un organo per un essere umano. Un modo di fare i processi, di disciplinare legislativamente la vita associata è il frutto della storia, della tradizione, dei costumi, dei sentimenti religiosi, persino del clima di un paese".

"Sento dire che i riti alternativi non funzionano. Negli Stati Unici solo nel 20% dei casi si arriva al processo. Da noi non è così. Oltre oceano, la differenza tra il patteggiamento e una possibile pena è notevolissimo. Da noi il divario è ridottissimo. E difficilmente potrebbe essere altrimenti. Potremmo fare una grandissima depenalizzazione. Scaricare il giudice ordinario da una massa di processi. Liberiamolo dal dover avere cognizione di un mare di reati. Facciamo il giudice di pace anche nel penale, con pene solo pecuniarie. Non togliamo però l’obbligatorietà dell’azione penale, come qualche forza politica sotto sotto vorrebbe. E’ vero che già ora è il magistrato a scegliere, ma sarebbe come tagliare la testa quando fa male. E allora che si stanzino somme per sveltire l’apparato".

"Sono appassionato di storia contemporanea. I libri che ne parlano io me li bevo. Sono presidente di sezione della Commissione Tributaria. Un paio di udienze le faccio. Qualche arbitrato, ogni tanto mi fa piacere che qualche avvocato si ricordi".

"Mi piace il calcio. E l’Inter, in particolare. C’era persino una canzone: ogni ragazza va pazza per Meazza".

giovedì 17 febbraio 2011

Sergio Belardinelli e il segreto della mia felicità


E' curioso e straordinario insieme che una persona di sinistra sdogani e restituisca dignità e valore a concetti monopolio per anni dalla destra (e schifati da buona parte della sinistra stessa): inno, nazione, patria... Della grandezza di Roberto Benigni non voglio parlare: ogni parola risulterebbe banale. Dico soltanto che il suo "Fratelli d'Italia" cantato a Sanremo mi ha commosso e sono fiero di essere suo contemporaneo.
Tra le tante cose dette da Benigni, cito questa: "Se qualche volta la felicità si scorda di voi, voi non scordatevi di lei". Faccio il paio con un articolo letto oggi, su consiglio di Isabella. E' l'intervista che Antonella Mariani ha fatto su "Noi genitori & figli" a Sergio Belardinelli, docente di Sociologia dei processi culturali all'università di Bologna. Di seguito ne riporto le risposte, mettendo in neretto i concetti che mi sono più piaciuti. Di più, dico solo che leggendole mi sono reso conto del perché sono, perché sento di essere una persona felice: perché ho avuto la fortuna di incontrare persone che, amandomi, mi hanno trasmesso fiducia e gusto per la vita.

"Cos’è la pienezza di vita? È una vita riuscita, una vita che ha senso, che si conduce con soddisfazione, in cui si è contenti di esserci. Da Hanna Arendt ho imparato che lo scopo dell'educazione è quello di aiutarci a sentirci a casa nel mondo. Proprio così: sentirsi a casa nel mondo. È questo il dono più grande che ciascuno può ricevere, il dono che rende una vita riuscita e piena. Sentirsi a casa nel mondo prescinde dalle condizioni materiali in cui si vive, non dipende dalla ricchezza o dalla povertà e nemmeno dalla salute o dalla malattia. Si tratta di una condizione dello spirito che varia da persona a persona. La felicità non risponde a un protocollo, né è frutto di condizioni prestabilite. Non è un caso che spesso le persone più felici sono quelle da cui ce lo aspetteremmo di meno e che le persone più infelici sono quelle di cui avremmo detto: ha tutto per essere felice. In ogni caso, la felicità, la pienezza hanno a che fare con la capacità di dare senso alla vita e a ciò che facciamo. Credo che tale capacità sia in realtà un dono. Essa dipende dalla fortuna che abbiamo avuto di incontrare persone che, amandoci, ci hanno trasmesso fiducia e gusto per la vita. La mancanza di queste persone è il male della nostra società. Mancano sui nostri ragazzi sguardi attenti e amorevoli, mancano educatori che colgano dietro tante apparenti normalità gli abissi di solitudine in cui vivono molti giovani e adolescenti.
Un tempo era un dato acquisito che la vita fosse un dono. Dietro a questa affermazione c'era un patrimonio di cultura, nella quale trovava posto anche un forte senso di gratuità. In ultimo ciò significava che noi uomini non siamo responsabili fino in fondo di ciò che facciamo né di ciò che ci capita. Eravamo, in fondo, sgravati da tante responsabilità. Oggi invece si pretende di essere sempre padroni della situazione, in tutte le circostanze, perfino quando si tratta di mettere al mondo un figlio. È evidentemente una responsabilità sproporzionata alle nostre forze. Ecco allora che molte giovani coppie decidono di non mettere al mondo figli per un eccesso di senso di responsabilità. Non ci sono abbastanza soldi, non abbiamo ancora un lavoro sicuro o una casa adeguata, insomma meglio aspettare. E si rinuncia cosi a procreare. L'idea di autodeterminazione è forse una delle più controverse del nostro tempo. Apparentemente essa sembra un segno della grandezza dell'uomo, ma in realtà è un segno dello svuotamento di ciò che è più umano. Nella volontà di tenere tutto sotto controllo si gioca la nostra frustrazione più profonda, quella stessa frustrazione che spinge tanti uomini e donne a rivolgersi a maghi, chiromanti e fattucchieri. Non è tollerabile che io non sappia se supererò quell'esame o se riuscirò a conquistare il cuore di quella donna. E invece le cose più essenziali della vita non dipenderanno mai da noi, saranno sempre imponderabili, indisponibili. Pensare la vita, dall'inizio alla fine, come un dono significa anche essere consapevoli di questa indisponibilità sostanziale di ciò che conta per davvero. Io credo che la vita sia bella a condizione che ci si concili con l'imponderabilità, l'incertezza, che, oltretutto, sono anche le dimensioni che danno senso alla nostra libertà. Non c'è niente di più umano e più bello dell’imprevedibilità. Come un bambino che nasce è una assoluta imprevedibile novità, cosi sono le nostre azioni libere: un modo di rinnovare il mondo. Non a caso il più grande segno di speranza e di fiducia nel mondo è sintetizzato dalle parole con le quali il Vangelo annuncia la lieta novella dell'Avvento: "Un bambino è nato per noi". Ogni bambino, dovunque nasca, nasce per noi; rappresenta la novità che rompe la decrepitezza della vita, ridandole vigore".
Foto by Leonora

Marco Somalvico, scienziato (Un file di back up)


Era talmente proiettato nel futuro che sembrava non dovesse morire mai, che come il computer di "2001: Odissea nello spazio" potesse sopravvivere per sempre. Marco Somalvico era una bella mente, una di quelle persone la cui intelligenza è vanto e anche ingombro. Nelle due ore che l'incontrammo, il 27 marzo 1998, non ce lo godemmo affatto e non abbiamo avuto il tempo di rifarci, perché a sessant'anni appena compiuti se n'è andato, d'un colpo. Ne riportiamo l'intervista qui, nel giorno in cui i notiziari dicono che Steve Jobs si è aggravato e non avrà che poche settimane di vita. Speriamo non sia vero, ma la vita, a differenza dell'intelligenza artificiale, ha un limite che non può ancora essere superato. Neppure dal ricordo, che è come una copia di back up, tanto per usare un termine più consono all'esimio professor Somalvico.


Per scolpire il marmo non basta colpirlo. Con lo scalpello lo si deve tagliare. Un colpo malamente assestato può infliggere alla pietra una ferita letale. Se si è fortunati il danno non appare evidente, ma il tempo finisce inesorabilmente per rivelare la verità. Passano i giorni, le notti, le stagioni e, quello che era un impercettibile segno nel bianco, diventa una ruga, una fessura, una crepa.
Conoscere un uomo è infilarsi in quella crepa.
Per descrivere una persona ci si può limitare a riportarne la misura, l’aspetto, le forme, le luci, le ombre, le sembianze.
Per sapere chi è occorre entrare in contatto col suo profondo.
Con Marco Somalvico non ci siamo riusciti. Abbiamo scoperto molto di ciò che pensa, ma poco, quasi nulla, su chi egli veramente sia.
Somalvico non parla, professa. Sempre. Non solo “ex cathedra”, di fronte agli studenti che seguono il suo corso. Capace di ammaliare col suo incedere incalzante, di stupire con la sua prontezza, Somalvico ostenta una sicurezza che non conosce apparenti scalfitture. Non ricordiamo abbia atteso più di una frazione di secondo nel replicare ad ogni nostro quesito, spunto, provocazione. Mai un accenno di disorientamento. Mai un vacillare delle proprie convinzioni. Mai l’impressione, da parte nostra, di aver colto nel segno.
L’unica debolezza che Somalvico si concede - senza accorgersene e senza calcare troppo la mano - è la vanità.
Non gli basta dire “la mia carriera universitaria”. Gli preme aggiungere l’aggettivo “brillante”.
Somalvico ha cominciato ad insegnare nei licei di Como e scalando tutte le balze della docenza, dopo aver effettuato un periodo di ricerca in California (“il miglior ateneo di informatica del pianeta” precisa orgoglioso), è diventato professore ordinario di ingegneria informatica del Politecnico di Milano. “In Italia, nel settore dell’intelligenza artificiale, sono un precursore. Sono stato il primo a tenere un corso di robotica. Quest’anno ho vinto uno dei più prestigiosi riconoscimenti mondiali nel settore informatico”.
Il professore è tra coloro che ha più insistito per portare l’università nella sua città natale. “Con i colleghi Caldirola, Casati e Della Vigna abbiamo formato un quadrunvirato di persone che, vedendo lontano, hanno ritenuto molto utile la nascita di un polo universitario a Como”.
Cosa risponde a coloro che denunciano i limiti dei piccoli centri universitari?
Non importa che una sede nuova abbia tre laboratori invece di trenta. Lo stesso vale per i docenti. Le dimensioni non rilevanti comportano una riduzione della quantità della ricerca, non della sua qualità. Ed è quest’ultima che rende autorevole un ateneo. Il pericolo è che questa università sia considerata dai docenti come un punto intermedio della loro carriera, come un male minore da cui presto fuggire”.
Un’università pone sempre le radici in un contesto. Quello di Como aiuta oppure è impermeabile o addirittura ostacolante?
È sicuramente ricettivo. Como ha dato e continua a fornire numerose risorse, dalla costruzione del nuovo edificio universitario, alla sede dei laboratori scientifici in Piazzale Gerbetti. Se però ci sono le strutture fisiche e organizzative, ma manca la qualità, non esiste una situazione virtuosa. Se gli studenti vedono carenze sul piano della presenza fisica dei professori di ruolo, possono credere di non avere le stesse opportunità dei loro coetanei di altre città. I comaschi devono badare a mettere a disposizione risorse, ma anche ad essere vigili riguardo le modalità con le quali l’attività della buona università si svolgono”.
Il suo ruolo la mette a contatto con le giovani generazioni. Che giudizio ne trae?
Ottimo. Trovo i giovani molto impegnati, assidui alle lezioni, disponibili a fare progetti , dotati di senso di sacrificio e con uno spiccato senso di solidarietà e capacità di lavorare insieme. Hanno tutte le carte in regola per portare avanti la sfida competitiva di una nazione tra la più progredite del mondo”.
Non esiste il rischio di formare pletore di ragazzi abilissimi ad usare il computer, ma che non sanno nulla di ciò che accade intorno a loro?
Per essere professionali bisogna essere innovativi. Per essere innovativi non bisogna essere dei tuttologi. Per non essere dei tuttologi bisogna fare delle scelte. Se uno vuole tenere il piede in troppe scarpe non combina nulla. E’ tuttavia un errore avere una visione monodimensionale della cultura. Ad esempio, nel mio corso tecnico-informatico tratto anche gli aspetti epistemologici dell’intelligenza artificiale. Riflettiamo sugli aspetti che stanno a monte dell’imparare le tecniche: quali sono i limiti strategici di questa disciplina; quali le sue ambizioni a servizio dell’uomo”.
A differenza di oggi, un tempo la laurea assicurava un impiego, tranquillità economica, prestigio sociale.
L’ingegnere moderno è un professionista il cui salario sarà remunerato solo se offrirà un lavoro di natura creativa, che le macchine non possono fare. L’attività creativa è insostituibile poiché, come diceva Socrate, è esoterica, non spiegabile con carta e matita”.
Non esiste dunque il pericolo che l’uomo diventi accessorio?
Creare è una prerogativa esclusiva dell’essere umano. Significa inventare nuovi modelli del reale. Vuol dire percepire delle premesse sulle quali la macchina può poi elaborare. Un computer simula uno Sherlock Holmes seduto in poltrona che ragiona su delle premesse che ha percepito precedentemente. Un robot è uno Sherlock Holmes che ragionando va a cercare il mastino dei Baskerville nella foresta di fronte al castello. Oltre a pensare, esso agisce con il mondo esterno”.
Como è più simile all’uomo che ragiona, all’elaboratore che informa o al robot che lavora?
Ad una “agenzia”, cioè ad una macchina scoperta di recente e che tale si chiama poiché è composta da più “agenti”. “Agente” è il simulatore di un singolo uomo. La “agenzia” imita un gruppo di uomini che lavorano insieme con un unico obiettivo. Agenzia significa futuro. Con la telematica c’è la possibilità di collegare il magazzino, con lo stabilimento o con la direzione della propria impresa, anche se essi si trovano a chilometri di distanza. Con Internet è concreta la possibilità di inviare in tutto il mondo il catalogo aziendale e ricevere immediatamente ordinazioni.
Como si trova in una situazione stimolante. Il fatto che sia una città di confine, abituata ad un confronto cosmopolita, rende la mentalità del comasco pronta ed aperta a queste interazioni internazionali. Per questo possiamo farci valere nello sviluppo delle tecnologie e dell’economia globale
”.
Giorgio Bardaglio


Anche in questo caso, avevo ricopiato altre frasi d'appunto. Eccole.

Dobbiamo omogeneizzarci nella competizione qualitativa. Se mi è permesso uno slogan: Inserire una qualità nella vita per ottenere una vita di qualità. Questa è la sfida che i comaschi possono reggere perché hanno dimostrato in passato di tenere alto un aspetto per il decoro. Una serie di umili, ma tenaci comportamenti di qualità.

Como non è legata alle risorse naturali, bensì al fenomeno della comunicazione, ciò vale anche per il turismo. Abbiamo delle tradizioni solide dell’industria tessile , del mobile e meccanica. L’automazione in esse è sempre più importante, occorre svilupparla maggiormente. Abbiamo sempre più un meccanismo di integrazione telematica tra i singoli centri soprattutto fuori dal tradizionale catino di Como, anche medie e piccole industrie tessili che hanno realizzato collegamenti telematici, ad esempi tra lo stabilimento e il magazzino o la direzione amministrativa. Telematica non è solo visitare un sito in Internet, bensì un nuovo modo di lavorare. Il futuro si chiama “agenzia”, che è il nome di una macchina inventata recentemente che ha come componenti invece che i transistori gli “agenti” , cioè un elaboratore o un robot . L’agenzia” rappresenta un gruppo di uomini che cooperano insieme, i primi sono macchine dell’informazione, l’agenzia” cioè più elaboratori collegati insieme, con un unico fine, noi realizziamo una nuova macchina che emula una società di uomini , come gli ingranaggi di un unico orologio. Agente è un simulatore di un singolo uomo, “agenzia” è un simulatore di un gruppo di uomini.
Con Internet, invece del commesso viaggiatore, posso mandare in giro per il mondo il mio catalogo in rete. Bisogna avere una mentalità internazionale.

Esiste qualche coadiuvante per aiutare a stimolare?
L’efficienza, la flessibilità, l’intelligenza e l’onestà. Virtù che i lombardi hanno, ma che vanno applicate anche alle cose normali, dai trasporti ai mezzi di comunicazione telefonica, dalle strade alle banche, dalle scuole ai giornali. Dobbiamo omogeneizzarci nella competizione qualitativa. Se mi è permezzo uno slogan: Inserire una qualità nella vita per ottenere una vita di qualità. Questa è la sfida che i comaschi possono reggere perché hanno dimostrato in passato di tenere alto un aspetto per il decoro. Una serie di umili, ma tenaci comportamenti di qualità.

Sono un professore universitario del politecnico diMilano, ho fatto la mia carriera a Como nei licei, ho fatto tutti i gradini della carriera universitaria diventando prima assistente poi prefessore incaricato poi stabilizzato , poi ordinario.Ho vinto una cattedra nel 1979 di ingegneria informatica e mi sono giovato per la mia carriera brillante del periodo di ricerca svolto alla Standefor University in California dal 1969 al 1972. E’ un posto avanzato, la migliore università di informatica al mondo e ritenendo che un individuo impara molto dall’ambiente in cui si inserisce mi è sembrato giusto viaggiare . Ho avuto la fortuna di andare a lavorare al progetto di intelligenza artificiale del fondatore di questa importante disciplina in cui mi sono specializzato.

Occorre piuttosto che i professori di ruolo della nuova sede siano concentrati sullo sviluppo della ricerca di questa sede.

Questo è il criterio di qualità che garantisce il successo in un’università nuova che nasce con dimensioni ridotte, ma che vede ridotta la quantità e non la qualità della ricerca. Due mali. Una vita della sede non fisiologicamente salutare con una permanenza dei docenti limitata nel tempo. Sia la legge, sia la morale impongono che i docenti di ruolo frequentino a lungo l’università

Non si tratta di avere una università di serie B, bensì una non università. Essa è ricerca e didattica. Se manca la prima non esiste il tutto . Non squalifica la limitatezza della qualità dei docenti. Ogni forza attiva deve avere le idee chiare che importa

Il buon professore d’altra parte deve sentirsi rispettato venendo utilizzato anche dall’ambiente esterno. Per primi i giornali non devono classificare di serie inferiore la nostra università, mi permetta un concetto molto profondo. Nella vita universitaria non esiste una gerarchia, a differenza delle aziende, delle funzioni svolte da un professore di ruolo il giovane ricercatore. Entrambi sono pieni nelle loro funzionalità scientifiche. Ciascuno è un maestro con i suoi discepoli, cioè gli studenti. Non c’è gerarchia.

Ho uno slogan: ogni docente deve avere i suoi libri, la sua biblioteca personale nell’ufficio della sua università.


Foto by Leonora

mercoledì 16 febbraio 2011

Critico Gino Castaldo (viva il Pepinai, premiata trattoria)



Nella stretta cerchia di amici e parenti, la presenza di De Sfroos rende il festival di Sanremo più festival del solito. La conseguenza è che, oltre a guardarlo, curioso tra le pagine dei giornali. Mentre cenavo, stasera, m'è capitato di leggere le pagelle di Gino Castaldo su Repubblica. M'è andata la pasta di traverso. Mi domando: ma cosa c'entrano i critici con il lettore? Qual è stata l'ultima volta che sono andato al cinema perché mi sono fidato della recensione sul giornale? E quando mai ho ascoltato un cantante perché piaceva a quella casta ristretta di superesperti?
Torniamo a Castaldo. A parte i voti, in cui abbondano i 3, i 4 e i 5, sono i giudizi che mi spezzano, perché rivelano un disprezzo del nazional popolare che invece è l'essenza stessa di Sanremo. Voglio dire: è come se mandassero un gourmet eccelso alla trattoria del Pepinai a Molina di Faggeto. E' ovvio che mi torna schifato. Lui vorrebbe il "rombo assoluto" cotto nell'azoto liquido e servito che pare un origami. Come volete che reagisca quando si vede davanti il vassoio colmo di affettati? Come minimo gli viene l'orticaria. Ecco, l'impressione è che ai critici il pubblico faccia schifo. La conferma è scritta nero su bianco nei giudizi di Castaldo di oggi, su Repubblica. In uno si legge: "Più che un pezzo di Sanremo sembra un pezzo su Sanremo, e in un mondo normale, senza televoto, vicencerebbe a mani basse". Bene. Ma qual è il mondo normale? Quello che manda Vasco Rossi all'ultimo posto e fa vincere gli Avion Travel? La julienne di zucchine al finocchio in salsa di mandarino per me può attendere: portatemi le lasagne e poi se ne parla.

P.S. Gino, dai, non prendertela. Hai un bellissimo nome, che non darei a un figlio, ma che mio padre portava con regale dignità. Noi ignoranti siamo così: semplici. Prometto che se non t'offendi, voto i La Crus.
P.P.S. Ma a parte il mio amico Maggi, che se ne intende, chi cavolo conosceva ieri l'altro i La Crus?




Foto by Leonora

martedì 15 febbraio 2011

Van De Sfroos, Sanremo e la Lega


Nella più triviale tradizione italiana, guardo la partita di calcio e il festival di Sanremo. C'è Davide Van de Sfroos, conosciutissimo dagli amici di Como e beatamente ignorato da quasi tutti gli altri, la cui latitudine residenziale è inferiore a Cerro al Lambro. Il Milan ha perso dal Tottenham, Van de Sfroos invece ha passato il turno. Lascio qui una nota, sulla globalizzazione, che è quel fenomeno spiegato così da un lettore de La Stampa: "Ho comprato una camicia di cotone realizzata in India pagandola nove euro, l'ho portata a lavare e mi hanno chiesto tre euro e venti: questa è la globalizzazione". Per me è anche assistere alla lite tra lo "squalo" Joe Jordan e Gennaro Ivan Gattuso, detto Rino, da Corigliano Calabro. "Parlavamo in scozzese" ha detto Rino, scusandosi per il fatto che se l'era presa con una persona più vecchia di lui, mettendogli le mani addosso. Al festival della canzone italiana invece non solo è andato in scena il dialetto comasco, ma nello spot per invitare a pagare il canone Rai c'era anche un prete che sposava due ragazzi, parlando in milanese stretto. Si vede che la Lega qualcosa a Roma combina: forse il pudore no, ma il folklore è salvo. E lo dico provenendo da una casa dove si è sempre parlato in dialetto (i miei genitori tra loro, mentre con me si sono quasi sempre rivolti in italiano), un modo di comunicare che adoro, perché rivela una cultura centenaria, troppo spesso dimenticata e di cui addirittura molti si vergognano. Credo che l'omologazione avvenuta negli anni scorsi, la cancellazione di tutto ciò che era considerato locale, sia stata un errore. Mi commuovo leggendo De Luca, quando scrive che parlare in italiano in casa sua era una legittima difesa, una forma di sopravvivenza nel magma di una Napoli amata ma città invadente. La clessidra s'è girata, l'italiano è diventata la base e forse è il tempo di distinguersi concendendo spazio anche al vernacolo, a una lingua che cambia di paese in paese. Purché non sia imposizione. Vedevo De Sfroos, che in casa mia - a causa dei miei figli - è un'istituzione e mi domandavo cosa avrebbero capito a Isernia, Latina, Firenze... "Gusteranno la musica - ho detto a Giacomo - come nelle canzoni in inglese". Mi è venuta in mente Maria Carta, quando appariva alla Rai e del suo sardo non capivo un'acca. Non ne comprendevo la ricchezza, era soltanto una noia e anche adesso, che magari ne apprezzerei le canzoni, quell'impressione resta un freno e una macchia. Certe cose non si possono imporre. Tra esse c'è la diversità, che come certi fiori pretende il giusto tempo per sbocciare ed essere gustata. Consiglio a tutti i fondamentalisti della Lega: siate dolci. Più che la spada di Alberto da Giussano può la penna. Anzi, la piuma.


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Luciano Caramel e l'arte vissuta (anche in tinello)

Più che lui, ricordo la scala. Il corrimano scolpito da Angelo Tenchio. Deve avermi fatto lo stesso effetto allora, poiché lo scrissi in principio d'articolo. Del resto, a parte ciò che trovate qui sotto, Luciano Caramel lo ricordo piacevole ma che non metteva l'interlocutore a proprio agio, nonostante non mancasse nulla nella forma, era la sostanza che creava distanza, da parte sua forse riparo. O forse ero io a sentirmi così inferiore al suo cospetto, da immaginare una distanza che poi è diventata di fatto. L'arte mi ha sempre messo a disagio, forse perché sono stato educato a usare poco gli occhi e il cuore e troppo il cervello. Mi affascina più ora di quand'ero ragazzo e non è mai stata nelle mie corde, nonostante credo che l'abitudine all'osservazione abbia concesso in dote un certo gusto. Ma è il gusto di chi commina sui gusci d'uovo, circospetto e incerto su tutto.

Affermare che la sua dimora somiglia ad un museo non è banale, è falso. Nelle stanze in cui abita, l’arte non è esposta, è vissuta. Niente di confezionato, nulla di patinato.
Opere in anticamera, nel corridoio, in ogni angolo. Non per modo di dire. Lo spigolo del muro che separa l’entrata dalle scale è ricoperto da una scultura di Tenchio. E in un anfratto stretto, nei pochi centimetri concessi da un armadio, appoggiata al pavimento, si intravede una cornice. “C’è un Fontana” ci spiega con la stessa noncuranza con cui direbbe “è il gatto”.
Luciano Caramel, storico d’arte, sessanta tre anni, occhi limpidi, chiama “cose” e “robe” ciò che per i comuni mortali sono meraviglie. Sironi, Rho, Reggiani, Radice, Veronesi, Salvatore e molti altri gli fanno compagnia.
Chi se lo immagina lacerato dal dubbio, alle prese con lo studio della collocazione ottimale di tanto ben di Dio, si disilluda presto. “Ho scelto dei criteri particolari – chiosa divertito – questo quadro mi pareva giusto metterlo in cucina”. Una qualsiasi casalinga non avrebbe fatto meglio. Sulla tela sono dipinti dei limoni.
Luciano Caramel per l’arte a Como è più che un punto di riferimento. E’ un’istituzione. E di essa detiene il prestigio, senza però cadere nella supponenza. Caramel non siede su un piedistallo. E se così fosse ne scenderebbe da solo, con l’umorismo furbo che usa anche nei confronti di se stesso.
“Il primo articolo che scrissi per il giornale di Montanelli me lo restituì lui stesso, tutto segnato di rosso e di blu. “E’ impubblicabile - mi disse - parla non per i tuoi compari ma ai lettori. Aveva ragione. Molti miei colleghi invece si ritirano ancora nelle torri”.
Ascoltarlo è un po’ come risalire le rampe e le balze che portano alla sua casa sul lago. Bello e faticoso.
Faticoso a causa della nostra poca dimestichezza con gli argomenti trattati. Bello perché quando parla incanta. Le parole escono da lui senza inciampo, quasi fossero musica.
“Sono un chiacchierone - ammette candidamente - quando ero più giovane mi proponevo di essere più controllato. Giunto alla mia età ho capito che non è più il caso di insistere”.
Luciano Caramel è docente di storia dell’arte contemporanea alla facoltà di lettere dell’Università Cattolica. “Mi sento un privilegiato perché ho un lavoro che mi piace e che mi fa sentire me stesso. Ogni anno ho circa settecento alunni. Un tempo riuscivo a seguirli tutti. Ora mi dedico abbastanza ai laureandi, di più a chi si sta specializzando e moltissimo a coloro che effettuano il dottorato di ricerca e che hanno la possibilità di diventare assistenti e poi, a loro volta, professori. Io sono zitello e questa è un po’ la mia paternità”.
Si reputa un buon professore?
“Credo di riuscire abbastanza bene ad insegnare, perché ho capito che l’insegnante deve essere un po’ attore. Mi aiuta l’essere ancora molto immaturo e quasi infantile”.
Cosa pensa dell’università a Como?
“ Ho dei timori pregiudiziali. Innanzi tutto manca una biblioteca, che è indispensabile e si forma non con gli anni, bensì attraverso i decenni. Poi molti professori insegnano anche altrove, per cui non possono dedicarvisi a tempo pieno. Infine, se avessi un figlio, non mi piacerebbe che facesse l’asilo, le elementari, le medie, le superiori e anche l’università sempre nella stessa città. Non mi pare produttivo per la formazione umana. Il fatto di andare a Milano, di uscire dal proprio guscio, aiuta a crescere. Restare in una città circoscritta com’è Como può essere rassicurante, ma poco utile. Sicuramente non lo è per la produzione scientifica. Ed è pericoloso anche per gli artisti”.
Che sensibilità artistica hanno i comaschi?
“Ho sempre creduto che la grande fama che ha Como nel mondo sia basata su personaggi isolati, che mai hanno avuto rapporti con il contesto del territorio. Terragni, ad esempio. O il Sant’Elia stesso, cosa c’entra con Como? Ha fatto la Castellini, ma poi se n’è andato a Milano, dove ha trovato un ambito che gli ha permesso di essere se stesso. La verità è che non c’è mai stato un ambiente favorevole all’arte. Prendiamo le collezioni. Ora ce n’è qualcuna, ma che diversità da altre città pur a noi vicine”.
Cosa è possibile fare?
“Bisogna distinguere due ambiti. Il primo è quello dell’arte connessa alla vivacità culturale della città. Como ha tradito la sua vocazione turistica. La classe dominante l’ha ritenuta la sua cuccia e ha limitato tutto ciò che potesse creare disturbo. Oggi qualcosa comincia a muoversi, ma siamo ancora ad un grado molto basso. I fondi di bilancio degli enti locali per le manifestazioni artistiche sono ridicoli e tra i privati c’è una grande insensibilità, unita ad una grande ignoranza. Trovare dei soldi per organizzare mostre, manifestazioni, iniziative, è quasi impossibile. L’altro livello riguarda la formazione e l’educazione artistica. Como per essere viva ha bisogno di una biblioteca e di una pinacoteca degne di questo nome. La prima invece è in enorme difficoltà, la seconda è ancora tutta da inventare. Quella attuale continua a essere un museo jugoslavo, vuoto e desolante. Un museo oggi deve essere un laboratorio di informazioni, di cultura. Dovrebbe avere anche un bar, un ristorante, anche se è difficile immaginarlo adesso, con l’utenza media delle tre, quattro persone”.
Come mai l’arte è ritenuta un ambito accessibile a pochi?
“L’arte è per sua natura di elìte. Lo sforzo deve essere quello di rendere questa elìte sempre più vasta. Stando attenti, però, a non correre il pericolo di confondere la creatività con l’artisticità. Anche il mio gatto crea balletti, evoluzioni, ma non è un artista. L’arte presuppone una formazione, un’intenzionalità. Non può essere solo uno sfogo della creatività, ma deve diventare fatto di cultura. Troppi, invece, credono che l’arte visiva sia alla portata di tutti. Non accade con la parola. Il mio portinaio di Via Carcano scriveva dei biglietti per darmi delle notizie, ma non ha mai pensato di esser poeta o scrittore. Quando ha smesso di andare a pescare e ha cominciato a fare dei quadretti del lago, s’è ritenuto artista”.
L’eloquenza di Luciano Caramel è un fiume in piena in cui si finisce per affogare. Se pochi minuti bastassero per conoscere una vita, giureremmo che egli non sappia cosa sia il silenzio. Non solo accetta di rispondere alle nostre domande. Se ne suggerisce persino qualcuna da solo.
“Una domanda che non mi avete fatto è perché mi interesso d’arte. Eravamo sei fratelli e i nostri genitori, professori di lettere, ci portavano sempre a visitare chiese e musei. Gli altri miei fratelli non ne hanno più voluto sapere. Io ci ho preso gusto”.

Giorgio Bardaglio

lunedì 14 febbraio 2011

Simona Ventura, Ronnie e le scarpe al chiodo


A proposito di donne, se a qualcuno interessa il parere d'un uomo, consiglio - anzi, prego - di non farsi mai iniettare il botulino. Ma come si conciano? Si gonfiano e quel ch'è peggio, perdono qualsiasi espressione del volto. Già Meg Ryan qualche mese fa mi aveva fatto storcere il naso, ma gli esempi da allora si moltiplicano. L'ultimo, in ordine di tempo, Simona Ventura, che negli studi dell'Isola dei famosi s'è presentata tirata a lucido. Troppo! Basta guardarle gli occhi, che sembrano imprigionati in un viso che non è più il suo. Anche Ronaldo, a dire il vero, che proprio oggi ha annunciato il suo ritiro dal calcio, non pare più lo stesso, tanto è gonfio. Ma lì il clostidrium botulinum non c'entra: ha più colpa la pasta al sugo o il churrasco. Oppure, come ha spiegato lui oggi, soffre di una malattia, l'ipotiroidismo, per cui non è grasso, bensì gonfio. Per il buon Ronnie mi spiace, anche se come calciatore era finito da un pezzo. A differenza della Ventura (che si ostina a restare aggrappata a ciò ch'è stata, sfigurandosi nell'illusione di tornare ciò che non è più) almeno lui ha compreso quando uscire di scena, senza cadere nel patetico. E pensare che la Ventura non doveva nemmeno ritirarsi, semplicemente accettare d'invecchiare, con eleganza e buon gusto.


Foto by Leonora

Gianfranco Miglio, ritratto privato d'un uomo pubblico

Se nessun uomo è grande per il suo cameriere, è altrettanto vero che visti da vicino cxerti personaggi sono assai meglio di come vengono dipinti in pubblico. Con Gianfranco Miglio ho trascorso due ore bellissime. Merito soprattutto di sua moglie, Mimì. Una donna ironica, intelligente, pratica. Nelle due ore non ci ha lasciato un attimo, anche se a volte fingeva di non interessarsi ai discorsi, tenendo lo sguardo sulla stoffa che stava cucendo. Ma non gli sfuggiva nulla e, come ho cercato di riportare nell'articolo che uscì sul Corriere di Como, la parte stupenda e a suo modo unica di quest'intervista, era il suo contrappunto. Era l'8 aprile del 1998 ed è una delle pagine che sono orgoglioso d'aver scritto. A Miglio poi sono rimasto affezionato. Volli seguire e scrivere anche del suo funerale, che si celebrò in una limpida giornata d'agosto. Ricordo come fosse ora il momento in cui la bara venne calata nella nuda terra e lo sguardo di suo figlio Leo, rivolto verso il cielo azzurro e le montagne tutt'attorno. Aveva un volto sereno, come colui che sa di avere avuto una grande padre e di esserselo goduto.

Un’ora e mezza. Senza parlar di D’Alema, Fini, Berlusconi.
Senza neppur nominare un Bossi.
Con Gianfranco Miglio non accade di frequente.
Non esiste televisione, giornale o bollettino che, una settimana sì e l’altra pure, non gli chieda un’opinione in tema di riforme, partiti, parlamento e compagnia briscola. Lui non disprezza. Questo grande vecchio, sembra l’Ernesto Calindri della politica. Recita a soggetto. Quando ci accoglie, basta un saluto per farlo partire. “L’Italia…”. “Il federalismo…”. “Le istituzioni…”. Interpreta la sua parte senza finti entusiasmi, ma con convinzione, secondo un copione collaudato. La materia gli compete. Farlo parlar di politica è come chiedere ad un pesce di nuotare. Peccato ci interessi a malapena stare a galla. Dello studioso, del ricercatore, del senatore conosciamo a sufficienza. Assai meno sappiamo del marito, del padre, dell’uomo che, piaccia oppure no, è probabilmente il cittadino di Como più conosciuto in Italia.
“Ma io non sono comasco – si affretta a precisare il professore – pur essendo qui nato e vissuto. Io sono del lago e con la città c’è sempre stato una sorta di dualismo. Già nel medio evo, all’epoca delle lotte con l’Isola Comacina, il lago era contro il capoluogo. Il Lario, specialmente la parte medio superiore, ha sempre pencolato per Lecco e per Milano. La mia famiglia era già numerosa a Domaso nel 1200. Per questo non mi sono mai sentito interamente comasco. Io sono un làghee.
Gianfranco Miglio è sposato. Sua moglie si chiama Miriam, per tutti Mimì, e gli è seduta accanto, intenta con aghi e lana. Ogni tanto scruta di sottecchi, quasi a sincerarsi che tutto vada per il meglio. Dapprima il suo silenzio è scrupoloso. Più tardi comincia ad annuire o a scuotere il capo in segno di dissenso. Infine dice la sua, incurante delle reazioni del marito.
“Sapete cosa dicono dei làghee? – rivela sorridente la signora - “Ghe scià un làghee, tri pass ìndree”. Sono tremendi. A differenza dei comaschi, che dicono quello che fa comodo, quelli del lago ti spiattellano ciò che pensano”.
“Molte volte - precisa il senatore – vedo i difetti dei miei attuali concittadini e dico: “sono proprio comaschi, io non sono così”. I làghee sono molto più indipendenti. Il comasco, invece, non osa mettersi contro chi è al potere. Il comasco è più romano. E i valtellinesi pure. Me ne sono reso conto quando mi hanno spiegato che la città più popolosa della Valtellina è Roma. La regina Josè aveva per loro una speciale e voleva che chiedessero l’autonomia come la Val d’Aosta. Niente da fare. I valtellinesi, che riescono ad avere dimestichezza anche con la burocrazia, preferiscono ricevere gli aiuti dalla mano capitolina”.
Altro che Padania. Altro che macro regioni. A sentirlo elencare le virtù dell’alto lago e i vizi altrui, si direbbe che la sua nazione ideale cominci a Menaggio e non superi Morbegno.
“La gente del lago ha inventato molte più cose di quante si creda. Le filande, ad esempio, nel periodo del decollo dell’industria serica. A Cremia e Pianello i termometri. E le industrie della lana. Il comasco è assai più passivo. I làghee hanno sempre avuto un maggiore spirito di iniziativa”.
Che l’intraprendenza neppure in lui faccia difetto è un dato di fatto. Sul terreno della casa in cui è nato, ci informa, ha costruito tre condomini. E a Domaso, ci comunica, dalla vecchia dimora dei suoi avi ha ricavato ben diciotto appartamenti. Attualmente vive in una splendida villa che domina Como. “Con l’architetto Cappelletti – dice orgoglioso - l’abbiamo progettata io, mia moglie e mio figlio”. Suo figlio si chiama Leo, è sposato con Elisabetta e ha due figli di nome Lucia, di tredici anni, e Giacomo, che di anni non ne ha ancora due.
Anche Leo è professore universitario. Docente di fisica dello stato solido al Politecnico di Milano. “La sua è una carriera brillante - sentenzia il padre - è molto bravo. Ed ha migliorato la produzione del Domasino”.
Il Domasino è il vino di famiglia. “I miei vecchi non avevano fiducia nel nostro vino. Io ho creato una cantina pregiata, perfezionando il bianco, cominciando a diraspare il rosso. La maggior parte della gente nel mondo leghista non mi conosce per gli studi sulla costituzione, bensì per il mio vino. "Lù, lè quel dal vìn”, mi dicono”.
La moglie si dimostra perplessa. “Non credete a tutto - ci suggerisce con ironia la sciùra Miriam - quando se ne occupava lui “sa beveva àsee”, si beveva aceto. Mio figlio è il vero esperto. Oltre ad aver ottenuto la denominazione di origine controllata, quest’anno ha tenuto persino un corso ad una sessantina di viticoltori della zona. Leo ama curare la vigna, potare i tralci, pigiare l’uva”.
Suo marito è più un teorico, azzardiamo noi.
“A Gianfranco il vino buono piace berlo - replica la consorte - se questa voi la chiamate teoria…”. E torna a ridere. Il senatore incassa e non fa una piega. A questi toni domestici deve esserci abituato. Ha abbastanza buon senso per capire che questo spirito critico, questa vivacità mentale è una compagnia vitale e insostituibile. Un’energia che lo ha aiutato a reagire alle disavventure capitategli negli ultimi mesi. Prima la rottura del femore, poi una grave emorragia gastrica. “Sono arrivato alle porte dell’inferno. Per salvarmi hanno dovuto farmi una trasfusione, utilizzando cinque sacche di sangue”.
Il fisico è acciaccato, ma la mente di Miglio è lucidissima. Su questo neppure la moglie può dissentire. “Sto scrivendo un libro sull’unità d’Italia. Spiegherò come nulla potrà mai cambiare. Le riforme nel nostro paese sono impossibili”.
A proposito di riforme. Recentemente uno dei candidati a sindaco della città ha sostenuto che Como è un po’ calvinista. Una definizione che ha fatto scalpore più per il refuso di qualche cronista – che ha trascritto casinista invece di calvinista – che per le implicazioni che se ne possono trarre. Cosa ne pensa?
“In parte è vero. I Giovio, soprattutto Benedetto, pare avessero una “penchant”, un’inclinazione per la riforma. Io stesso, pur cattolico, ho sempre avuto una certa simpatia per i calvinisti, per la loro concezioni. Però i comaschi non hanno alcuna passione per i problemi religiosi. Il loro carattere pragmatico non glielo permette. Della riforma possono al più condividere le conseguenze, non le motivazioni che l’hanno originata”.
Prima di congedarci, Miglio insiste per mostrarci la biblioteca, una serie di locali scuri e affascinanti, che collegano l’abitazione del professore con quella del figlio. Al centro dello studiolo del senatore ci incuriosisce un oggetto insolito. “E’ un pulpito bergamasco che mia moglie ha scovato e che io ho trasformato in scrivania”.
Sopra, sotto, da parte, tutt’intorno ci sono libri. Oltre trentamila volumi. Disposti sulle sedie, sugli scavali, sui bordi, accatastati per terra, accumulati negli angoli. “Ecco - conclude la moglie - questo sì che dovrebbe essere uno studio calvinista. Invece è solo casinista>. Miglio sorride.
Giorgio Bardaglio

E anche in questo caso, aggiungo qui gli appunti mai pubblicati.

Ancora convalescente per una brutta caduta occorsa nello scorso dicembre, il senatore è accomodato in poltrona, sotto un paralume.

“Però la testa lavora. Sto scrivendo una storia dell’unità di Italia che prova che non si può cambiare niente”.

“Il problema grosso di Como è quello della subsidenza. Le soluzioni sono fantasiose. Il problema è che la nostra città è costruita su un mare di palta. I romani, quando deviarono il Cosia, scelsero di collocare Como sopra un mare di fango. Per questo molti edifici nella città murata non hanno fondamenta”.

“Nell’alto Lario si seguita a dire c’è miseria. Io taccio, ma se facciamo il conto delle automobili e del modo di vivere dei suoi abitanti scopriamo che non stanno affatto male. Se la cavano per conto loro, anche se piangono per avere aiuti”.

“Non è vero che il governo austriaco non aiutasse i setaioli comaschi. Fra il 1840 e 1850 favorirono l’industria serica, a danno dei domini ereditari dell’Austria. Lei non sentirà mai un setaiolo dire: stiamo andando proprio bene. Piangono sempre. Ciò nonostante Como è una città vivibile”.

“Non c’è un elemento comune tra Como e Lecco, che guardava molto più a Milano. Il collegamento venne più tardi, con i battelli a vapore. Como ha perso la sua unità, anche perché negli ultimi cinquant’anni è divenuto il dormitorio di Milano”.

“Mio padre era medico. Il primo pediatra a Como. Aveva un enorme intuito diagnostico, una prontezza nell’individuare le cause della malattia. Io gli feci venire la passione per la storia della medicina e in cambio mi costruì la biblioteca”.

“Mio fratello era un ricercatore, si occupava del problema dello scarico di carica elettrica. Una passione che condivide mio figlio, che è fisico, professore di fisica dello stato solido al Politecnico di Milano”.

“Gli svizzeri sono venuti fino a Porta Sala, qui a Como, poi un tanghero di un barbiere diede l’allarme, altrimenti noi saremmo svizzeri”.

“Mio figlio è sposato e ha due figli. Una bambina di tredici anni, Lucia, molto brava e molto sveglia, e Giacomo, che non ha ancora due anni, a cui spetta continuare la famiglia, perché è il maschio”.

“La mia casa è stata costruita qualche anno fa. Seguivo tutti i materiali. Il pavimento è di pietra di Valmalenco, queste colonne sono in granito di Baveno. La casa di famiglia di Domaso l’ho rifatta completamente, traendone diciotto appartamenti”.

“Nell’amministrazione cittadina, una considerazione di fondo è la tendenza, anche qui, a frammentarsi. Quante liste, quanti schieramenti diversi, non a seguito di diversità di posizioni e programmi. Prevale la rottura continua. Ciò nonostante ho l’impressione che la maggioranza uscente mi pare resista. La formula di alleanza con l’estrema destra funzione. Como è lo specchio di ciò che accade in Italia. Non si distingue”.

“Il comasco è individualista, come lo è, più in generale, l’italiano. Può darsi che le amministrazioni locali comasche non si distinguano per un forte impegno, ma questa è una cosa positiva. Che non si vogliano grandi schieramenti e impegno politico è una buona cosa nell’amministrazione di una città. Bisogna risolvere i problemi concreti. Il dramma nelle amministrazioni locali andrebbe molto ridotto. Che il comasco sia attaccato più alla famiglia, ai propri interessi e che veda un po’ con il cannocchiale a rovescio i problemi della città è una cosa positiva. Como non è mai stata una città turistica”.

“Qualcuno dice che è la conseguenza dei greci che ha portato Giulio Cesare. Non so se è vero, anche se le caratteristiche etniche durano molto nel tempo. L’alto lago fu occupato dai Franchi e nel ‘500 dal Canton Grigioni. La parte comasca è più romana. Nel 1959 una parte dei comaschi chiese di andare con la Svizzera. Non ci vollero. C’è una forte differenza di adattamento”.

"I comaschi di città non hanno spirito di iniziativa. Vede tutto il tramenio sulla struttura serica, fare una grande associazione, no ai piccoli. Lo spirito ce l’hanno quelli del lago”.

“Questo è lo spirito lombardo. Non mi sento affatto svilito, i libri che ho pubblicato li conoscono gli scienziati internazionali”.

domenica 13 febbraio 2011

Se non ora, quando: dedicato a tutte le donne che conosco


Non conoscevo Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile. E' morto una settimana fa e mi sono imbattuto in alcune sue frasi per caso, leggendo un articolo di Annalena Benini. Una l'ho anche riportata sul giornale di oggi, ma volevo metterla anche qua, perch'é bellissima: "Le madri non sbagliano mai. Non significa che hanno sempre ragione, ma che sono naturalmente sapienti, per istinto, per amore e cultura moderna. Per quella magica capacità di captare i segnali dei figli". Credo che valga per le donne, in generale. Che hanno un innata capacità di sentire anche senza bisogno sapere. Non so se per colpa di noi uomini, che esercitiamo nel bene e nel male enorme potere e influenza, oppure se per un'inconsapevole forma di spontanea rinuncia, troppo spesso però mi pare che esse stesse dimentichino di possedere quel talento e, soffocandolo, lo mortificano. Quest'oggi, in centinaia di piazze, migliaia di donne si sono date appuntamento per affermare la loro dignità. Rispetto la scelta, ma credo che la propria dignità si affermi non scendendo in piazza, bensì esercitandola ogni giorno e aiutando chi non lo fa a comprendere dove sta sbagliando. E se fossi una donna, più delle mercificazione del corpo (condannabile, è scontato persino dirlo), mi preoccuperei di scoprire come mai si è via via ridotto il confidare in quella "sapienza" che la natura ha dato loro in dono. Andiamo a scuola per imparare la logica, la capacità d'espressione linguistica e di calcolo, teniamo in forma il fisico, badando a non mangiare troppo e andando in palestra, spendiamo fior di denaro per essere belli, non lesinando in trucco e talvolta persino col chirurgo plastico, e facciamo pochissimo, per non dire nulla, per scoprire, per affinare quel lato di noi ch'è l'istinto, l'intuito, il "sentire senza bisogno di sapere" che le donne più degli uomini hanno. Perché? E' una domanda per cui non ho risposta e che giro, così come l'ho partorita (le idee sono l'unica cosa che anche noi maschi sappiamo partorire) alle donne che conosco, alle molte amiche che ho, che passano di qui, e a cui sono legato da un debito profondo, oltre che da un amore vero. Sono l'altra metà del cielo, quella che nove volte su dieci fa splendere di riflesso il mio.


Foto by Leonora

Gisella Azzi, poetessa salvata dal sorriso

D'interviste ardue ne ho collezionate un sacco e una sporta. Mai come quella che mi capitò di fare il 20 febbraio del 1998, a Gisella Azzi, una poetessa dialettale assai apprezzata a Como e provincia, in cui tuttavia incappai quando ormai era al capolinea. Riuscii a parlarle per non più di cinque minuti, in cui il silenzio si prese gran parte del tempo, a scapito delle parole, che dispensò parsimoniosa. Fu quella volta che imparai a dare valore al poco che avevo raccolto, concentrandomi anche sul resto, sul contorno, ch'è poi una caratteristica del buon giornalista.

La casa in cui abita è vasta come un castello. C’è pure un bel parco, con alberi già lieti di accogliere la primavera. Lungo i viali si possono parcheggiare decine d’auto. Giorno e notte si alterna numeroso il personale di servizio.
Gisella Azzi da sei anni si è trasferita qui, a Rebbio.
Lei vive in una casa di riposo.
Non pensatela, però, come una vecchia sola, dimenticata e triste. Vi sbagliereste.
Gisella sembra la nonna di Cappuccetto Rosso. Capelli bianchi, pelle morbida, voce infantile a dispetto del tempo. Gli acciacchi con l’età si sono aggravati e non riesce più ad essere indipendente. Nel corpo, non nello spirito.
Prima di incontrarla ne conoscevamo a malapena il nome.
Tutti, invece, alla Ca’ d’Industria, sanno chi è Gisella.
Il portinaio ci scorta all’ascensore. Nella stanza al secondo piano non c’è. Cerchiamo informazioni a un’infermiera, che chiede a un inserviente, che domanda a un assistente. In un minuto si trova. La disturbiamo nella sala della televisione.
Quando ci presentiamo, riceviamo in cambio un sorriso tra il furbo e il sognatore. dice. Aggiunge un complimento. Comprendiamo più tardi che le nostre qualità non c’entrano. Sono i suoi occhi a vedere il buono dappertutto.
La visita coincide con l’ora di cena. Appena il tempo di scambiare due battute, mentre l’accompagniamo a tavola.
Ci hanno riferito che era una scrittrice?
“Sono. Sono una scrittrice. Non sono mica morta!” e sorride astuta, fingendosi un poco indispettita.
Non sono domande da fare a una signora, ma possiamo chiederle quanti anni ha?
“Questa volta ve lo dirò. Sono quasi ottantasei”.
Restiamo ad aspettarla in corridoio.
Sulla poltrona accanto alla nostra c’è una vecchina che si chiama Rita. Un ictus le ha rubato la ragione, ma non il sorriso. Ad ogni nostro sguardo, lei ricambia sorridendo con compostezza. Il figlio viene ogni giorno a trovarla. Lui, la Gisella, la conosce bene. “Un tempo a Como era molto popolare. Leggevo sempre le storie e le poesie che scriveva. Divertentissime. Compariva spesso in televisione. Improvvisamente non ne seppi più nulla. Chissà che fine avrà fatto, pensavo. La ritrovai qui. Mistero risolto”. Ride. La madre non può intenderne il motivo, ma non fatica ad associarsi.
Prima di assaggiare la frutta, Gisella torna in stanza. E’ stanca e si sdraia sul letto. Le sediamo accanto.
“Cosa desiderate?” ci interroga. Sono passati pochi minuti dalla nostra presentazione, ma abbiamo l’impressione che non si ricordi affatto di noi. Ripetiamo le nostre intenzioni.
“Ma sono molto stanca. Cosa mai mi volete domandare?” si lagna un poco.
Si sente sola?
“Mai. Mai. Mi sento sempre in compagnia di lui – guarda sopra la testata del letto - del Signore. Poi qui ci sono persone cordiali e in molti mi vengono a trovare, a cominciare dai miei nipoti Ettore, il mio prediletto, Maria Grazia, Paolo, Biba, Corrado, Luciano e Silvana”.
Siamo venuti a trovarla perché ci hanno detto che ha scritto delle bellissime poesie.
“Grazie. A Como ero quasi celebre. E mi conoscevano anche a Milano”.
Addirittura.
“Più come musicista di pianoforte, però. Suonai persino al Conservatorio Verdi. Il pianoforte è lo strumento più completo. Cominciai da bambina, perché ce n’era uno a casa di mia nonna Adele. Mi piaceva moltissimo la Polacca di Schopin che fa – e si mette a cantare - ta tata la lalalala la lala. Era difficile, ma ci riuscivo facilmente. Ero brava, quando queste mani facevano giudizio. Ora non sono più agili”.
Ce le mostra. Le stesse mani che di tanto in tanto, durante il colloquio, accompagnate da sorrisi sinceri, ci accarezzano il volto. Mani di un liscio etereo. Delicate.
Quando ha cominciato a scrivere?
“Molto presto. Scrivere era una soddisfazione. Ora ho quasi smesso”.
Scriveva in dialetto.
“Anche in italiano, se è per questo, ma è vero che la mia grande passione è per il dialetto – si ferma per un istante e poi aggiunge con enfasi – il dialetto comasco”.
E’ così diverso da quello milanese?
“Molto. Il milanese è un po’, un po’…molle. Il comasco invece è più aggressivo. Le parole hanno suoni più spigolosi, ma hanno anche più mordente”.
Non è la sola a pensarlo. “Cumàsch, gente dura come il loro nome pronunciato in dialetto” sentenziava sovente Gianni Brera al collega e amico Gianni Clerici.
“Alla gente piaceva leggere le mie storie, ma soprattutto sentirmele recitare” precisa Gisella e la cosa ci pare naturale. Niente più della voce dell’autore riesce a render vive le poesie, poiché non ci sono figlie che non stiano bene in braccio alla madre.
“Piacevano in particolare quelle chiamate “Canzunèt al cìar e al scùr”, ossia liete e tristi. Ne apprezzavano la varietà. Ma ho scritto molto. Troppo, per ricordare tutto. Ben cinquecento tre poesie. A memoria ne ricordo solo due: “I tò bei òcc” e “Ul finestreoo”. Le altre sono raccolte nei libri. “Il bottegone”, che prese il nome dal caffè in Piazza del Duomo e che era di proprietà di mio padre, “Furetto del grattacielo” e “Le indiscrezioni della Marietta”, una donna di servizio maligna, che raccontava vizi e virtù dei comaschi”.
E’ questo il prezioso patrimonio che lascerà ai suoi concittadini Gisella Azzi. Con semplicità e ironia ha saputo raccontare nella lingua del borgo un pezzo di storia di Como, attraverso i fatti, i costumi e le persone non illustri che l’abitavano.
Esisteva veramente la Marietta?
“No. L’avevo inventata io – si guarda attorno per accertarsi che non ci siano orecchi curiosi e bocche pettegole – quei pensieri erano i miei. La Marietta ero un po’ io”.
Si è mai sposata?
“No, no, no, no. Sono “single” - dice proprio così, “single” - non ho mai trovato l’anima gemella. Ho voluto bene a una sola persona. Si chiamava Edgardo Ghisalberti. Purtroppo è morto. Dico sempre: piuttosto che sposarmi, è morto” ride e si mette la mano alla bocca, perché sa di averla detta grossa o almeno così vuol far credere.
Non pensa mai alla morte?
“Qualche volta, ma mica tanto. Meglio lasciarla fuori dalla porta. Tanto, se vuole entrare, non bussa”.
Dorme di notte?
“Abbastanza. Altrimenti penso, prego o rido. Mi vengono in mente i ròb de rid. Stupidaggini che mi tengono allegra. Perché ridere fa bene. La capacità di ridere è la mia salvezza”.
Giorgio Bardaglio

P.S. Qualche frase fuori sacco, ritrovata tra gli appunti e che riporto a futura memoria.

Non le vengono in mente le sue poesie?
“Qualche volta, ma ne ho scritte troppe per rammentarle tutte. Non si possono tenere in testa cinquecento tre poesie. Ne ricordo solo due. “I tò occ” e “Ul finestroo”.
Si ricorda Carla Porta Musa?
“Come no. C’è ancora adesso. Non c’era antagonismo, però. Siamo troppo diverse come vena lirica, se la mia è degna di chiamarsi così. Come età lei è maggiore di me e so che è in gambissima, ma non la invidio perché mi pare soffre un po’ d’asma e l’asma è terribile”.
Vengono in molti a trovarla?
“Sì, a cominciare dai miei setti nipoti” e ne snocciola i nomi come fossero sacramenti, chiosando: “Non c’è male, le pare?”.
Ci reciterebbe una sua poesia? Almeno una.
“Stu vicul inscì scur
Par che sa storgian
per scapa di mur
di sti cà vec
L’è inutil
In tut istess i cà
Pien e crep e de mufa e de picùndria
De sulee andà del maa
Uduur de pora gent
Culuur de pora gent
Fina i gatt in pelaa e i fioo paran malaa
Ma in alt
Ul finestroo le viscur
Al par matt
E in de la pignata bleau
Ghe un garoful scarlat”

sabato 12 febbraio 2011

Sessanta e lode


Sessanta. Con l'arrivo di Elena i sostenitori di questo blog hanno raggiunto cifra tonda. Li ringrazio tutti, ad uno ad uno. Se non ci fosse chi lo legge, non dico che questo spazio evaporerebbe, però avrebbe respiro assai più corto e cadenza saltuaria. In questi giorni m'imbatto in grandi vecchi. Nel loro ricordo almeno. La mia è una famiglia in cui solitamente tolgono il disturbo prima. Una pletora di zie di mia mamma è riuscita a superare l'ottantina, qualcuna la novantina, nessuna è arrivata a cento. Colei che aveva più possibilità di farcela, Irene, se n'è andata in settimana: avrebbe compiuto novant'otto anni tra un mese. Ora confido in Emilio, Angelina, Francesca e Gemma, ma sarà dura. Sempre meglio dei loro nipoti, una generazione di mezzo alimentata da maggiore energia, ma che si è spenta prima, forse consunta dall'aver creato benessere partendo dal nulla. Mi rifaccio avendo cura delle persone con cui entro in contatto, abbeverandomi alla loro saggezza. Non so se ci sia un aldilà. Se c'è, saprei cosa farci. Mi piacerebbe incontrare di nuovo coloro che ho gustato di sfuggita, condividere con loro esperienze che ora si sono portati nella tomba. Se intanto chiudo gli occhi, non mi viene in mente una lezione più lezione delle altre, una scintilla di sapienza che merita di essere tramandata, una frase da incidere sul messaggio da affidare al destino, mettendolo in una bottiglia. Oggi ho incontrato una persona buona, il figlio di quell'Angelo Cavallasca di cui ho scritto sul giornale e anche in un precedente post. Si chiama Ambrogio, avrà una sessantina d'anni, e una calma olimpica. "Diamoci del tu" mi ha detto, aggiungendo: "Non è mica una mancanza di rispetto". E sapendo che dovevo arrivare mi ha aspettato davanti al cancello di casa (per fortuna ero puntuale). A parlare poi è stata soprattutto la moglie, Egle, perciò il giudizio che do è basato più sull'intuito. Mentre ero lì e lo guardavo, pensavo questo: non è facile esser figlio d'un padre "gigante".


Foto by Leonora

Gian Paolo Porlezza e la tessitura Taroni

Ogni giovane dovrebbe avere la fortuna d'incontrarlo. Io l'ho avuta, quando il tempo era maturo, né troppo presto né troppo tardi, come ora, che non c'è più. Gian Paolo Porlezza mi mise una sconfinata tristezza, facendomi però intuire il profondo che esiste in ogni uomo e l'impossibilità, nonostante tutte le fortune del mondo, di colmarlo, di dare pienezza a ciò che invece per natura è limitato. Egli fece il paio con Lino Gelpi: vegliardi disincantati, che dalla vita avevano avuto tutto comprendendo solo allora che non valeva niente. E scrivo vegliardo perché vecchio mi fece l'impressione di esserlo davvero anche se, leggo ora, aveva settant'anni, cioè in quell'età in cui molti uomini sono ancora ragazzini. Mille volte mi ero riproposto di tornare a stringergli la mano, ma non lì, alla tessitura Taroni, bensì a casa sua, tra le sue erbe, nelle serre che gelosamente custodiva. Lì per me Porlezza era un uomo felice. Negli appunti postumi, che ho trascritto al termine dell'articolo, metto anche il riferimento alla moglie, che credo si chiami Silvana Bernasconi. Chissà se c'è ancora. Mi riprometto di scoprirlo e di andare a trovarla.

Per andarci d’accordo, dice lui, serio come se stesse celebrando messa, basta amare la natura, la cucina, il buon vino e la pittura.
Non pretende molto, sostiene. Dopotutto si tratta di saper gustare alcuni tra i più sapidi piaceri della vita. Ammette anche di accontentarsi di meno. Basta che l’interlocutore ne condivida almeno una, di queste sue passioni.
Ci sentiamo confortati, ma non a lungo. E’ il significato del verbo “condividere” che ci appare impegnativo.
Gian Paolo Porlezza ha il più bel giardino aromatico d’Europa; ha girato il mondo alla ricerca di sementi rare; coltiva circa tremila specie di piante, tra cui almeno tredici varietà di rosmarino, quindici di menta, ventuno di timo, sette di artemisia, quattro di santoreggia, undici di salvia. Ditelo voi, a uno così, che vi interessano le erbe, portando a testimonianza solo il fatto che nell’insalata di pomodori ci mettete l’origano.
Ditelo voi, a uno che possiede una ricchissima collezione di opere del futurismo italiano e che ha quadri famosi appesi persino nell’antibagno, che apprezzate l’arte perché la settimana passata avete intervistato Somaini e da un paio di mesi sognate di acquistare una scultura vista nello studio di Eli Riva.
Alla cucina e ai vini non pensiamo neppure. Anche se la polenta con le quaglie che saltuariamente ci capita di assaggiare nell’abitazione materna, forse non dispiacerebbe neanche ad uno che adora la carne di maiale e a cui, in Borgogna, hanno concesso il titolo di “chevalier”, di cavaliere della buona tavola.
Gian Paolo Porlezza, settant’anni, vive per le sue passioni. Tutto il resto è fatica e noia. A cominciare dal lavoro.
All’industria di famiglia - ereditata dal nonno materno, che aveva fondato la Tessuti Taroni nel 1880 - Porlezza ha dedicato quasi mezzo secolo, gestendola con sapienza ed entusiasmo. La prima è rimasta. Il secondo è finito da un pezzo.
“Nostri clienti sono i più famosi stilisti internazionali, soprattutto gli italiani e i francesi. Con tutti ci diamo del tu. Siamo rimasti l’unica azienda al mondo che fa un prodotto di altissima qualità. Non abbiamo più concorrenza. Semmai è il mercato che si restringe. Gli articoli di altissimo pregio hanno un prezzo elevato e c’è meno gente che si veste con i miei tessuti”.
Qualche anno fa, ad un giovane cronista, disse che il suo lavoro non avrebbe mai conosciuto crisi perché al mondo ci saranno sempre i ricchi. Conferma?
“Certo. Magari adesso ce ne sono meno in Europa e in Asia, ma in America e in altre parti del mondo aumentano. Siccome noi produciamo esclusivamente per loro non ci possiamo lamentare. In ogni settore, la specializzazione è una garanzia di stabilità. Basta sapersi accontentare, poiché occupandosi di un settore limitato non si moltiplicano i guadagni, non succedono miracoli. Il nostro giro d’affari rimane costante nel tempo, senza picchi vertiginosi e senza cadute pericolose”..
Ci risponde con cortesia, ma lo capirebbe anche un carro armato che la nostra insistenza lo spazientisce. “Sono un uomo che lavora molto e adesso lo faccio controvoglia. Sono stanco. Dagli anni ‘50 agli ‘80 ho vissuto il mio mestiere con pieno entusiasmo. Successivamente è diventato un peso. Dopo cinquant’anni di lavoro nulla mi meraviglia. Non trovo niente da scoprire. Nella moda i cicli si ripetono ogni dieci, quindici anni. Sono stufo di vederli. Conosco vizi, difetti, pregi, meriti di tutti i clienti, a memoria. So già cosa succederà nella mia azienda. Ho solo il desiderio di venderla e non riesco. E’ un’impresa sana, ma dicono sia troppo difficile da gestire e che non esisterebbe senza di me. Chi la vuole comprare, vorrebbe che restassi, ma allora preferisco rimanere da padrone. Anche se alla mia età sento il bisogno di riposare”.
È un Porlezza rassegnato. Racconta, ma non incanta. Nella persona che abbiamo di fronte intuiamo a malapena il ricordo di un personaggio vivace. Dicono che ogni uomo ha il suo punto di rottura. Gian Paolo Porlezza ha la stoffa e la tempra di colui che per una vita ha creduto che quella regola per lui non avesse valore. Il passare degli anni gli ha insegnato il contrario. Col trascorrere del tempo ha continuato a superare gli ostacoli, ma ha smarrito il senso, il motivo per cui farlo. Persino quel dono raro che madre natura gli ha confezionato e per mezzo del quale gli “sono facili tutte le cose che per gli altri sono difficili” gli si è ritorto contro. “Supero tutti i problemi con tanta facilità che non trovo niente di speciale. Sono invidiato da tutti, perché ho un bel lavoro, tranne che da me stesso”.
Lo dice senza clamori, quasi di sfuggita, ma ai nostri orecchi suona come una sentenza. La condanna di un dio onnipotente, ma annoiato, capace di far tutto e per questo a nulla interessato.
Quasi nulla, in verità. Se il lavoro lo incatena, le passioni e gli svaghi lo liberano. “Per fortuna ho i miei passatempi, che non hanno a che fare con il tessile e sono la mia distrazione e la mia forza. Primo di tutto sono un botanico. Una passione che ho appreso da mia madre. Avevamo una casa sul lago e lì imparai i primi rudimenti del giardinaggio. Attualmente, a Monte di Rovagnate, coltivo migliaia di piante, che curo con l’aiuto di tre giardinieri. In particolare, ho circa quattrocento piante aromatiche e medicinali. Poi colleziono rose. E mele. Ne ho centosettanta specie. La terra del mio orto, che è calcare e poco acida, è adatta alla loro crescita”.
Il tono di voce è mutato, lo sguardo riluce. Comprendiamo di aver commesso un errore. Siamo seduti nel suo ufficio, ma dovremmo essere a chilometri di distanza, immersi nel verde della Brianza, per vederlo maneggiare i piccoli arbusti, accarezzare foglie, sentire gli aromi, gustare i sapori.
“La natura non è come il tessuto, che è sempre quello. Ci sono un’infinità di piante. Non ci sono limiti. E’ una continua ricerca. Ogni fine settimana lo passo a Rovagnate, tra le mie piante, i vini, i fiori. Se non avessi quei tre giorni sarebbe la fine. Sono per me un respiro, un sollievo, una gioia”.
Oggi l’unico Gian Paolo Porlezza vivo è quello vegeto. Il resto conta poco. Como compresa.
“Sono comasco, ma per niente affezionato a questa città. Un sentimento di repulsione recente. Abitando a Milano e avendo l’abitudine di essere il primo ad arrivare allo stabilimento, mi condiziona nel giudizio la stanchezza che è dovuta al viaggio. Non partecipo più alla vita della città. Di buon mattino arrivo e prima che faccia sera me ne vado”.
Como città turistica è argomento che, di recente, va per la maggiore. Prima degli anni settanta, quando tutti allargavano le proprie fabbriche, Porlezza dimezzava la sua, costruendo un albergo.
“Fu una delle mie utopie. A quel tempo di hotel ce n’erano pochi e fu un buon affare. Poi lo vendetti. Como non è una città turistica. Anzi, è la negazione del turismo. Se così non fosse l’ex casa del fascio dovrebbe essere un museo da visitare, non la sede della Guardia di Finanza”.
Giorgio Bardaglio


P.S. Anche in questo caso, ho trovato appunti mai trascritti prima, che mi pare uno spreco non menzionare.


C’è una parte della città che preferisce?
“Da giovane mi piaceva Sant’Agostino. Abitavo vicino a Gianni Clerici, era mio compagno di scuola. Già matto allora. Poco disciplinato. Un amico”.
Cosa legge?
“Cose che non disturbino. Ad esempio, adesso sto leggendo un romanzo di Bagnasco molto bello, sulla cucina”.
Giunge l’ora di pranzo. Porlezza mangia ogni giorno in mensa, assieme ai suoi operai. Senza pomposità o retoriche.
“Sono tecnici espertissimi, esecutori di grande talento, che fanno un lavoro da orafi e, come loro, alle dodici e mezzo ho fame”.
Lei mangia prima, dopo o insieme agli operai?
“Insieme”.
Quale piatto preferisce?
“Amo la cucina brianzola, il maiale. Sono cuoco e degustatore”.
Ci parli di sua moglie?
“È giornalista. Scrive su Vogue ed è la classica cittadina. Adora Milano e le mondanità. Io la campagna. Andiamo d’accordo. Mi piacciono gli amici, molto selezionati e molto intelligenti. La gente con cui non si può parlare di niente non mi interessa. Il pettegolezzo quotidiano non mi interessa niente, di lavoro non voglio parlare. Se alla mia età, dopo tanto lavorare, non mi fosse permesso di selezionare gli amici e di dire ciò che penso sarebbe dura”.
Ha paura della morte?
“No - pausa - non ci penso”.
Unico passatempo la natura?
“No, ho un’altra mania. Sono un collezionista di futurismo italiano. Cominciai quarant’anni fa, acquistando opere di Sant’Elia, di Boccioni, anche di autori minori. Possiedo circa quattrocento quadri. Compresi quelli del primo astrattismo comasco, come Radice. La passione per l’arte è naturale. Bisogna essere artisti per forza con questo lavoro. Bisogna stare in mezzo alle belle cose. È il mio destino. Un gusto innato e affinato col tempo”.