La casa in cui abita è vasta come un castello. C’è pure un bel parco, con alberi già lieti di accogliere la primavera. Lungo i viali si possono parcheggiare decine d’auto. Giorno e notte si alterna numeroso il personale di servizio.
Gisella Azzi da sei anni si è trasferita qui, a Rebbio.
Lei vive in una casa di riposo.
Non pensatela, però, come una vecchia sola, dimenticata e triste. Vi sbagliereste.
Gisella sembra la nonna di Cappuccetto Rosso. Capelli bianchi, pelle morbida, voce infantile a dispetto del tempo. Gli acciacchi con l’età si sono aggravati e non riesce più ad essere indipendente. Nel corpo, non nello spirito.
Prima di incontrarla ne conoscevamo a malapena il nome.
Tutti, invece, alla Ca’ d’Industria, sanno chi è Gisella.
Il portinaio ci scorta all’ascensore. Nella stanza al secondo piano non c’è. Cerchiamo informazioni a un’infermiera, che chiede a un inserviente, che domanda a un assistente. In un minuto si trova. La disturbiamo nella sala della televisione.
Quando ci presentiamo, riceviamo in cambio un sorriso tra il furbo e il sognatore.
La visita coincide con l’ora di cena. Appena il tempo di scambiare due battute, mentre l’accompagniamo a tavola.
Ci hanno riferito che era una scrittrice?
“Sono. Sono una scrittrice. Non sono mica morta!” e sorride astuta, fingendosi un poco indispettita.
Non sono domande da fare a una signora, ma possiamo chiederle quanti anni ha?
“Questa volta ve lo dirò. Sono quasi ottantasei”.
Restiamo ad aspettarla in corridoio.
Sulla poltrona accanto alla nostra c’è una vecchina che si chiama Rita. Un ictus le ha rubato la ragione, ma non il sorriso. Ad ogni nostro sguardo, lei ricambia sorridendo con compostezza. Il figlio viene ogni giorno a trovarla. Lui, la Gisella, la conosce bene. “Un tempo a Como era molto popolare. Leggevo sempre le storie e le poesie che scriveva. Divertentissime. Compariva spesso in televisione. Improvvisamente non ne seppi più nulla. Chissà che fine avrà fatto, pensavo. La ritrovai qui. Mistero risolto”. Ride. La madre non può intenderne il motivo, ma non fatica ad associarsi.
Prima di assaggiare la frutta, Gisella torna in stanza. E’ stanca e si sdraia sul letto. Le sediamo accanto.
“Cosa desiderate?” ci interroga. Sono passati pochi minuti dalla nostra presentazione, ma abbiamo l’impressione che non si ricordi affatto di noi. Ripetiamo le nostre intenzioni.
“Ma sono molto stanca. Cosa mai mi volete domandare?” si lagna un poco.
Si sente sola?
“Mai. Mai. Mi sento sempre in compagnia di lui – guarda sopra la testata del letto - del Signore. Poi qui ci sono persone cordiali e in molti mi vengono a trovare, a cominciare dai miei nipoti Ettore, il mio prediletto, Maria Grazia, Paolo, Biba, Corrado, Luciano e Silvana”.
Siamo venuti a trovarla perché ci hanno detto che ha scritto delle bellissime poesie.
“Grazie. A Como ero quasi celebre. E mi conoscevano anche a Milano”.
Addirittura.
“Più come musicista di pianoforte, però. Suonai persino al Conservatorio Verdi. Il pianoforte è lo strumento più completo. Cominciai da bambina, perché ce n’era uno a casa di mia nonna Adele. Mi piaceva moltissimo la Polacca di Schopin che fa – e si mette a cantare - ta tata la lalalala la lala. Era difficile, ma ci riuscivo facilmente. Ero brava, quando queste mani facevano giudizio. Ora non sono più agili”.
Ce le mostra. Le stesse mani che di tanto in tanto, durante il colloquio, accompagnate da sorrisi sinceri, ci accarezzano il volto. Mani di un liscio etereo. Delicate.
Quando ha cominciato a scrivere?
“Molto presto. Scrivere era una soddisfazione. Ora ho quasi smesso”.
Scriveva in dialetto.
“Anche in italiano, se è per questo, ma è vero che la mia grande passione è per il dialetto – si ferma per un istante e poi aggiunge con enfasi – il dialetto comasco”.
E’ così diverso da quello milanese?
“Molto. Il milanese è un po’, un po’…molle. Il comasco invece è più aggressivo. Le parole hanno suoni più spigolosi, ma hanno anche più mordente”.
Non è la sola a pensarlo. “Cumàsch, gente dura come il loro nome pronunciato in dialetto” sentenziava sovente Gianni Brera al collega e amico Gianni Clerici.
“Alla gente piaceva leggere le mie storie, ma soprattutto sentirmele recitare” precisa Gisella e la cosa ci pare naturale. Niente più della voce dell’autore riesce a render vive le poesie, poiché non ci sono figlie che non stiano bene in braccio alla madre.
“Piacevano in particolare quelle chiamate “Canzunèt al cìar e al scùr”, ossia liete e tristi. Ne apprezzavano la varietà. Ma ho scritto molto. Troppo, per ricordare tutto. Ben cinquecento tre poesie. A memoria ne ricordo solo due: “I tò bei òcc” e “Ul finestreoo”. Le altre sono raccolte nei libri. “Il bottegone”, che prese il nome dal caffè in Piazza del Duomo e che era di proprietà di mio padre, “Furetto del grattacielo” e “Le indiscrezioni della Marietta”, una donna di servizio maligna, che raccontava vizi e virtù dei comaschi”.
E’ questo il prezioso patrimonio che lascerà ai suoi concittadini Gisella Azzi. Con semplicità e ironia ha saputo raccontare nella lingua del borgo un pezzo di storia di Como, attraverso i fatti, i costumi e le persone non illustri che l’abitavano.
Esisteva veramente la Marietta?
“No. L’avevo inventata io – si guarda attorno per accertarsi che non ci siano orecchi curiosi e bocche pettegole – quei pensieri erano i miei. La Marietta ero un po’ io”.
Si è mai sposata?
“No, no, no, no. Sono “single” - dice proprio così, “single” - non ho mai trovato l’anima gemella. Ho voluto bene a una sola persona. Si chiamava Edgardo Ghisalberti. Purtroppo è morto. Dico sempre: piuttosto che sposarmi, è morto” ride e si mette la mano alla bocca, perché sa di averla detta grossa o almeno così vuol far credere.
Non pensa mai alla morte?
“Qualche volta, ma mica tanto. Meglio lasciarla fuori dalla porta. Tanto, se vuole entrare, non bussa”.
Dorme di notte?
“Abbastanza. Altrimenti penso, prego o rido. Mi vengono in mente i ròb de rid. Stupidaggini che mi tengono allegra. Perché ridere fa bene. La capacità di ridere è la mia salvezza”.
Giorgio Bardaglio
P.S. Qualche frase fuori sacco, ritrovata tra gli appunti e che riporto a futura memoria.
Non le vengono in mente le sue poesie?
“Qualche volta, ma ne ho scritte troppe per rammentarle tutte. Non si possono tenere in testa cinquecento tre poesie. Ne ricordo solo due. “I tò occ” e “Ul finestroo”.
Si ricorda Carla Porta Musa?
“Come no. C’è ancora adesso. Non c’era antagonismo, però. Siamo troppo diverse come vena lirica, se la mia è degna di chiamarsi così. Come età lei è maggiore di me e so che è in gambissima, ma non la invidio perché mi pare soffre un po’ d’asma e l’asma è terribile”.
Vengono in molti a trovarla?
“Sì, a cominciare dai miei setti nipoti” e ne snocciola i nomi come fossero sacramenti, chiosando: “Non c’è male, le pare?”.
Ci reciterebbe una sua poesia? Almeno una.
“Stu vicul inscì scur
Par che sa storgian
per scapa di mur
di sti cà vec
L’è inutil
In tut istess i cà
Pien e crep e de mufa e de picùndria
De sulee andà del maa
Uduur de pora gent
Culuur de pora gent
Fina i gatt in pelaa e i fioo paran malaa
Ma in alt
Ul finestroo le viscur
Al par matt
E in de la pignata bleau
Ghe un garoful scarlat”
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