sabato 19 febbraio 2011

Baldo Virzì, magistrato (La giustizia di un giusto)

Era la festa del papà di tredici anni fa, il 19 marzo 1998. Sembra oggi. Riforma della giustizia, magistrati tacciati di essere di parte, politici accusati e che accusano... Di galantuomini in vita mia ne ho incontrati molti, gente che quando ti trovi davanti di viene da rimanere a schiena dritta ma toglierti il cappello, anche se il cappello non si usa più. Baldo Virzì appartiene a questa schiera, un giudice tutto d'un pezzo, un uomo d'uno stampo che forse non s'è perso ma occorrono anni e anni, decenni per forgiarlo, per definirlo in quei dettagli salienti che lo distinguono in meglio. Lui, Giovanni Lo Gatto, sui figlia Luisa, ma anche Vittorio Nessi e tanti altri sono persone che, nonostante facciano il mestiere più difficile del mondo, mi rassicurano e in un certo senso consolano: anche se la giustizia non è di questo mondo, amministrarla con senso di responsabilità è garanzia che vale più di ogni "legge uguale per tutti" scritta su un muro.

I molti che dimenticano persino l’anniversario di nozze o il compleanno dei figli, impallidiscano pure. Per Baldo Virzì il pressappoco non esiste. Non solo egli ricorda che diede il primo esame universitario nel 1945. Spiega anche che era luglio. Non basta menzionare che lasciò la pretura per il tribunale di Como nel 1958. Gli urge rilevare che era un gennaio. Non gli par giusto rammentare di aver presentato domanda di pensione nel 1993, senza specificare che era agosto.
Baldo Virzì, nato a Como settanta tre anni fa, forse non eccede nella pignoleria, ma di certo ha il culto della precisione. Non è un caso che, pur ammettendo di non avere rimpianti nell’essere stato per quarant’anni magistrato ("ho sempre fatto il mio mestiere con interesse, direi persino con entusiasmo"), egli abbia sempre considerato ammaliante la professione dell’ingegnere. "Mi ha sempre affascinato la costruzione. Non di case, ma di ponti e strade. E dighe. Ho un’ammirazione sconfinata, forse eccessiva per l’ingegnere che nel suo studio calcola quanto deve essere la curvatura e quanto lo spessore della diga. E la sua scienza è esatta ".
Mentre parla di ponti e dighe, Virzì chiude beato gli occhi e con le mani traccia nell’aria linee e curve. Deve essere stato così anche quand’era in camera di consiglio. Non ciarliero affabulatore di teorie, bensì rigoroso esecutore nell’applicare e soppesare norme e leggi. "Ma sostanzialmente il processo, sia civile sia penale, è rigoroso. Si tratta in sintesi di un dialogo. C’è chi propone una domanda e chi deve fornire una risposta. E per entrambe bisogna portare a fondamento delle prove. Perde chi per primo non può dimostrare quello che afferma. Semplice".
E il giudice, che dovrebbe essere arbitro, riesce sempre ad essere al di sopra delle parti?
"So dove vuole arrivare – anticipa sornione – oggi si fa un gran parlare di terzietà del giudice, di separazione delle carriere o delle funzioni, come del resto prescrive la nostra costituzione. Vi voglio dire una cosa – sorride – per almeno vent’anni, il venerdì sera, mantenemmo l’abitudine di fare il pokerino. Io, Luciano Niedda, Luigino D’Ambrosio, Mario Dal Franco e Giovanni Lo Gatto. Questi ultimi due erano sovente pubblici ministeri nei processi di Corte d’Assise, in cui io ero giudice a latere. Ora, ci si può credere oppure no, ma è storicamente vero, che mai durante quelle serate parlammo di un processo in corso. Ci fosse stata una volta, una parola. Mai. Era naturaliter, spontaneo. Io ascoltavo le loro ragioni solo nei dibattimenti e non era un’eccezione che fossi in disaccordo. D’altro canto, come dice Gerardo D’Ambrosio, il mestiere dei magistrati e quello di darsi quotidianamente e reciprocamente torto. E’ fisiologico".
Con quello spiegar di mani e con quel tono di voce greve e un poco rauco, Virzì ricorda Indro Montanelli. Del giornalista toscano, oltre all’accento, gli manca lo spirito del bastian contrario, ma non la limpidezza del linguaggio. E la passione per la storia, soprattutto quella contemporanea.
Lei era presidente di Corte d’Appello, quando nel 1992 ("era febbraio" precisa) iniziò la stagione così detta di “mani pulite”. Che memoria ha di quei giorni?
"Per la verità, l’interesse era assai maggiore al di fuori del Palazzo di Giustizia. Ho in mente una sera in cui il tassista che mi portava alla stazione ferroviaria restò muto non più di un minuto. Poi, quasi che la notizia non si accontentasse più di restargli in gola, strombazzò: ha sentito, avviso di garanzia a Craxi". Ride di gusto Virzì, che Baldo è di nome e pure di fatto, imitando lo strillo del tassinaro. Poi si acquieta e accende un’altra sigaretta. Senza fretta. Lui le sigarette non si accontenta di fumarle: lentamente, se le gusta.
Per tredici anni ha lavorato a Milano. Qualcosa di quell’ambiente deve pur conoscerlo. Regge l’ipotesi dell’accanimento dei magistrati nei confronti di una parte?
"Guardi – attacca Virzì, scuotendo più volte il capo - per due anni con Davigo fui membro della giunta dell’associazione magistrati. Parlare di lui come toga rossa è una cosa che fa scompisciare dalle risate. E’ un conservatore, un sano e onesto conservatore. L’appellativo rosso non si attaglia neanche a Borrelli, che conosco da molti anni, addirittura da prima di andare a Milano. E’ semmai un liberale crociano, un liberale illuminato. Chiamiamolo pure liberal, come usano dire gli anglosassoni per definire coloro che hanno tendenze aperte. D’Ambrosio, piuttosto, con il quale non ho mai parlato in senso stretto di politica, ritengo che sia un uomo tendenzialmente di sinistra. Non dimentichiamo però che stiamo parlano di colui che, smentendo le tesi di una certa sinistra, ebbe il coraggio di chiudere la faccenda legata alla morte dell’anarchico Pinelli, ossia l’episodio che aveva sancito la condanna a morte del commissario Calabresi".
Antonio Di Pietro?
"Lo conosco poco, come del resto Gherardo Colombo".
Prima del 1992 di tangenti quasi non si parlava. Poi avvenne un diluvio universale. Se è difficile comprenderne le ragioni per un cittadino qualsiasi, come se lo spiega un addetto ai lavori?
"Ho letto di recente un libro di un giornalista serio, in cui si narravano nove o dieci storie di magistrati che avevano messo le mani in qualche porcheria e che erano stati ostacolati in ogni modo. Personalmente mai mi è capitato di subire pressioni, ma evidentemente ad altri sì. E’ noto, ad esempio, con che ardore Craxi se la prese con Palermo, allora giudice istruttore a Trento".
Lei che aderì nel dopo guerra al Partito d’Azione ("era una partito di generali, e che generali, ma senza soldati"), che militò, prima di entrare in magistratura, nel Partito Socialista ("poi non rinnovai più la tessera perché, per un magistrato, apparire è importante quanto essere"), che ha conosciuto personalmente Nenni, di cui conserva un indelebile ricordo, che idea si è fatto di Bettino Craxi?
"Con Craxi parlai una volta sola. Venne a Como proprio nel primo anniversario della morte di Nenni. Me lo presentò Renzo Pigni e io, che poco prima l’avevo sentito tirare le sue solite sparate anticomuniste, venendomi spontaneo l’uso del tu, gli dissi: “Sei bravo, ma non confondiamo l’Unione Sovietica con il Cile di Pinochet”. E quello, sulla mano, mi rispose: “Caro amico, Pinochet è uno squallido dittatorello fascista; molto peggio è la Russia sovietica, che dice di essere socialista e sopprime la libertà”. Porca miseria, aveva ragione. E dentro di me dissi: questo è bravo. Purtroppo però il mio naso avvertiva che qualcosa non andava. Tutto ciò che il Padreterno mi ha tolto in vista, e ora anche in udito, me l’ha conservato in odorato. Quella che era solo una mia sensazione si rivelò col tempo una verità. Craxi era, oltre a uno splendido animale politico, anche un furfantello".
Giorgio Bardaglio

E ancora, qualche appunto mai pubblicato.

Ora che è in pensione vi può dedicare parte del tempo che quarant’anni di magistratura gli hanno sottratto. Senza rimpianti, però.
"Dopo il liceo classico, nell’ottobre del 1943 mi iscrissi giurisprudenza. Diedi il primo esame nel luglio del 1945. Non frequentai neppure un corso. Mi laureai studiando solo sui libri. Nel 1954 entrai in magistratura. Per sei mesi fui uditore giudiziario e dal giugno dello stesso anno, fino al gennaio del 1958 restai alla vecchia pretura di Via Odescalchi. Da lì mi trasferii al Tribunale di Como, dove rimasi parecchi anni. Nel 1980, per prevenire un trasferimento d’ufficio, chiesi il trasferimento a Milano. Per dieci anni sono stato consigliere di Corte d’Appello, poi nel 1990 ne divenni presidente. Nell’agosto 1993, potendo ormai contare su quarant’anni di servizio e cominciando a sentire la stanchezza, accettai il consiglio di mia moglie e feci domanda di pensionamento. Il gennaio successivo lasciai la magistratura".

"Iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza, fu forse l’unico pensiero utilitaristico che feci in vita mia. Non mi dispiaceva lettere, ma non è che i professori guadagnassero molto neppure allora".

Il nostro colloquio verte tutto sulla giustizia. Ci spiace, poiché poche parole, per di più attorno ad un tema, sono bastate per dimostrare che il giudice che è in lui non esaurisce l’uomo.
"Sono un esempio di cittadino qualsiasi. Sono nato a Como, vissuto qui. Mio padre era siciliano, funzionario del ministero del tesoro, fu trasferito a Bolzano e mia madre volle seguirlo poiché credeva nella famiglia unita. Poi arrivarono a Como nel 1919. Qui conobbe mia madre, la cui famiglia proveniva dal veneto. Sono del 1925. Feci il Liceo Volta".

"Mi occupai anche di procedure concorsuali, fallimenti, concordati preventivi, amministrazioni controllate. Bellissimo – e nella pronuncia le esse del superlativo diventano almeno tre – bellissima la materia fallimentare, col tentativo di risolvere nel modo migliore tutto il reticolo di rapporti che l’impresa aveva intrecciato".

"Non mi sento di far parte di nessuna famiglia. Né quella dei nati a Como, né a quella dei coscritti del 1925 e neanche a quella della magistratura. Mi sembrano attribuzioni vagamente mafiose".

"In quarant’anni, tra i colleghi, ma nemmeno tra i cancelllieri, di mascalzoni non ne ho conosciuti. In quarant’anni non ho avuto una persona che abbia fatto pressioni. Io: non so altri".

"Si parla frequentemente di separazioni delle funzioni, ma è la costituzione che lo afferma questo principio. Non è un’idea nuova".

"Ho sempre avuta una vivissima passione per le vicende politiche, senza mai volerla fare. Sono cresciuto in una famiglia antifascista. Lo era mio padre, che però essendo un funzionario dello Stato non diede mai sfogo a queste sue idee e che determinò un incattivimento dell’uomo, il quale si mangiò il fegato per vent’anni. Qualche volta lo sentii nominare, tra gli altri, un nome: Nenni. Io, da bambino, e allora non si potevano fare domande, nella mia mente infantile associai questo nome, Nenni, ad una statura bassa, quasi fosse un nano. Per farla breve, quando lo conobbi del tutto casualmente a Bolzano, mi affascinò. E il Partito d’Azione. Nel 1947, ormai è preistoria, accadde un fatto grave. Il partito socialista si spaccò. Ritenni allora che non fosse più consentito, specialmente a un giovane, rimanere alla finestra. Andai alla sede del Partito Socialista e mi iscrissi".

C’è giustizia in Italia?
"Non sono originale. Già che il giudizio arrivi dopo molto tempo contraddice il concetto di giustizia".

"Sono convinto che trapiantare ordinamenti giuridici da un paese all’altro è molto, ma molto più difficile, che trapiantare un organo per un essere umano. Un modo di fare i processi, di disciplinare legislativamente la vita associata è il frutto della storia, della tradizione, dei costumi, dei sentimenti religiosi, persino del clima di un paese".

"Sento dire che i riti alternativi non funzionano. Negli Stati Unici solo nel 20% dei casi si arriva al processo. Da noi non è così. Oltre oceano, la differenza tra il patteggiamento e una possibile pena è notevolissimo. Da noi il divario è ridottissimo. E difficilmente potrebbe essere altrimenti. Potremmo fare una grandissima depenalizzazione. Scaricare il giudice ordinario da una massa di processi. Liberiamolo dal dover avere cognizione di un mare di reati. Facciamo il giudice di pace anche nel penale, con pene solo pecuniarie. Non togliamo però l’obbligatorietà dell’azione penale, come qualche forza politica sotto sotto vorrebbe. E’ vero che già ora è il magistrato a scegliere, ma sarebbe come tagliare la testa quando fa male. E allora che si stanzino somme per sveltire l’apparato".

"Sono appassionato di storia contemporanea. I libri che ne parlano io me li bevo. Sono presidente di sezione della Commissione Tributaria. Un paio di udienze le faccio. Qualche arbitrato, ogni tanto mi fa piacere che qualche avvocato si ricordi".

"Mi piace il calcio. E l’Inter, in particolare. C’era persino una canzone: ogni ragazza va pazza per Meazza".

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