domenica 25 ottobre 2009

Lapalisse e la politica


Sosteneva Martinazzoli (un uomo che stimo), che "la politica è importante ma la vita è più importante della politica". Da qualche parte, in questo blog, l'avevo già scritto, ma mi piace al punto da ripeterlo. Riguardo la politica metto qui in fila tre o quattro cose sentite e lette in questi giorni.
Primo: Piero Marrazzo, presidente della regione Lazio, si è autosospeso dopo che aveva accettato di pagare dei carabinieri che lo ricattavano per un video che lo immortalava con dei transessuali. Apprezzo il gesto, raro in un Italia in cui troppi non si prendono le responsabilità delle proprie azioni, anche se avrei preferito le dimissioni, piuttosto di una "autosospensione" che serve soltanto alla sua parte politica per prendere tempo e andare subito alle elezioni. In ogni caso, è giusto che lasci non per ciò che ha fatto a letto e che, tra consenzienti, è lecito, bensì per aver pagato migliaia di euro chi pretendeva soldi per non rivelarlo. Un pubblico amministratore non può essere ricattato e ricattabile.
Secondo: oggi ci sono le primarie nel Pd. Le tre persone in lista sono, per quel che ne so, stimabili. Gramellini su "La Stampa" di ieri, commentando la scelta di Franceschini di indicare come suoi eventuali vice una persona di colore e una donna, ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere e che ora mi appare come una rivelazione (e questo è il segno distintivo dei grandi: ci illuminano su cose apparentemente banali e scontate ma oscure fino al momento in cui sono state esplicitate). Quello di Franceschini è "veltronismo, senza per giunta Veltroni". Veltroni ha creduto di sostituire la politica delle persone con quella delle figurine. Per questo (e per una sostanziale freddezza, aggiungo io, che ero rimasto deluso dalla sua assenza di passione, di entusiasmo, di convinzione, nell'unica tappa comasca della scorsa campagna elettorale) ha fallito. Di lui ho sempre stima, ma gli manca qualcosa per essere un leader vero.
Terzo: s'è risolta con il solito incontro a quattr'occhi (sei per la verità, Berlusconi e Bossi e Tremonti) la mini crisi in seno al Pdl. Dichiarazione di Bossi: "Tremonti non si tocca, perché vale. C'è chi pensa che le elezioni si vincano solo se si spende, ma se spendiamo l'Europa ci uccide. E poi la gente non vota chi spende, ma vota chi stima". Lapalissiano ma inappuntabile. Per una volta, sottoscrivo.


mercoledì 21 ottobre 2009

Lettere a una professoressa


"Un blog non è una raccolta di articoli di giornale"... Lo scrive a commento del post precedente una persona che non si firma ma che per la sincerità considero amica. Ha ragione, non può essere solo quello. Li pubblico perché questo, d'un blog, è una sorta di diario personale e pubblicarli significa raccoglierli, tenerli a portata di mano. E probabilmente per vanità, per quella "vanitas" con cui - lo imparo da De Luca - San Gerolamo traduce l'ebraico "Hèvel", il cui significato letterale è "spreco". Ecco, li copio e incollo qua anche perché non vadano sprecati, pur nella consapevolezza che non si tratta di un salvare a vita eterna, bensì prolungamento effimero, rimando d'agonia. Avevo pensato, per la verità, di creare un altro blog: ho cambiato idea perché, in fondo, ciò che scrivo sul giornale non è estraneo dalla vita.


Oggi sono andato a colloquio con un insegnante di mio figlio e sono rimasto ammirato dall'impegno, dalla preparazione, dalla profondità dimostrata. Sono tornato a casa sereno, convinto di lasciarlo in buone mani e con una speranza rinnovata non soltanto per la scuola pubblica, bensì per questa società intera, in cui c'è chi fa il proprio lavoro con amore, con passione, cercando di trasmetterla. Ripenso alla mia maestra di quinta, Emiliana, morta giovanissima, che ci fece leggere in classe "Lettere a una professoressa", di don Milani. E Milani era anche il nome di un'insegnante di filosofia al liceo, in terza. Debbo a lei la promozione di quell'anno gramo, in cui la classe fu decimata (in senso letterale: restammo in dieci e nel settembre successivo fummo accorpati a un'altra quarta). Da allora non l'ho più vista, mi dicono che sia ancora in vita, che abiti a Como. Vorrei sapere dov'è e andare a trovarla, adesso, in questo preciso istante d'autunno, e dirle che non si era sbagliata, che non ho tradito la sua fiducia. Potrei fare lo stesso, ora, con un'altra professoressa, delle medie, che ha casa a poche centinaia di metri dalla mia. Mi sa che lo farò: spengo il computer, vado a comprarle un fiore e glielo porto. L'ho pensato mille volte e fatto nessuna. Oggi cambio, non voglio che l'ennesima occasione che mi è data sia "hèvel", venga sprecata.
Foto by Leonora

martedì 20 ottobre 2009

Voto palese...

Voto palese, please
La coda lunga del muro è anche scialba, a immagine e somiglianza di una classe politica mediocre.A parte i soldati Tenace e Molinari (assai simili però a Vianello e Tognazzi, nell’interpretazione dei due marmittoni che eseguono ordini di cui non comprendono il significato) nella maggioranza nessuno ha mostrato uno scatto d’orgoglio. Tutti pettinati a puntino, coi loro bei gessati, impegnati nell’improbabile tentativo di stare con un piede nella scarpa del sindaco e con l’altra in quelle del popolo imbufalito. Tutti - meno uno, Gelpi, l’unico dimissionario per davvero - avvinghiati alla propria poltrona. Più semplice il compito dell’opposizione, a cui sarebbe bastato seguire il flusso della corrente per emergere. Invece, pur in codesta non irresistibile impresa, sono riusciti a perdere di vista l’obiettivo principale e ad arenarsi, a dividersi, ad eccepire su questioni tutto sommato marginali. Prendiamo l’ultima: il voto segreto o palese sulla sfiducia a Caradonna. Da giorni è in atto uno scontro di pignolerie, a colpi di invettive e regolamento, perché il sindaco vuole sia palese, così da impedire "tradimenti", mentre la minoranza pretende che sia com’è sempre stato, ossia segreto, sperando così di spuntare una sfiducia comunque non vincolante. Andando al sodo, noi per una volta avremmo accontentato il sindaco, che si crede più furbo degli altri, ignorando tuttavia che una votazione palese potrebbe far conoscere i nomi e mostrare le facce di chi, tra un’intera città e Caradonna, sceglie Caradonna. E dunque di stare dall’altra parte del muro.
La Provincia, 19.10.09

Benedetto sia Brunetta, non...

Benedetto sia Brunetta, non chi si chiude a riccio

Ai lettori si può mentire, ma prima o poi se ne accorgono. Un motivo in più per dire la verità, anche con rivelazioni che avremmo remore persino ad ammettere in un confessionale. L’altra sera, ad esempio, abbiamo visto la puntata di "Porta a porta". Tutta! Lo sappiamo, è grave, ma ci appelliamo alla vostra comprensione, illustrandone il motivo. In studio c’era il ministro Brunetta, che ci incuriosisce già di suo, per le smorfie che fa, per come se ne sta seduto sgambettando in punta di poltrona, per quella spavalderia da "femme fatale" impiantata su un corpo da putto. Il ministro Brunetta, se non lo avete capito, ci sta simpatico. Molto simpatico. Gli perdoniamo persino l’ego smisurato e le "peggio cose", dichiarazioni che se provenissero dalla bocca d’un altro apriremmo l’intero guardaroba dello sdegno e grideremmo allo scandalo, invocando la bella cavalleria dei gentiluomini di un tempo. Di fronte a lui, di quei gentiluomini d’un tempo ce n’era uno: Pietro Ichino, spuntato nel salotto tv direttamente dall’Ottocento, con quell’aria inappuntabile di chi ha un cottage a Oxford. In mezzo c’era Vespa, ma non si notava nemmeno e per una volta nessuna coscia lunga, nessuna macchietta da esibire per patinare lo spettacolo. Solo un discutere appassionato, tra due che per carattere non si pigliano ma alla fine se la intendono. Perciò siamo rimasti ipnotizzati: ci sembrava un Italia migliore di quella che è.Questa però è soltanto la premessa. Il nocciolo è l’argomento che trattavano, cioè il riconoscimento del merito dei dirigenti pubblici, le ipotesi per far funzionare meglio (a volte anche far funzionare soltanto) la macchina degli enti locali, dello Stato e, soprattutto, la trasparenza. Un "mettere in chiaro" le cose che - a chi vede corto - può apparire dannoso, ma è l’essenza stessa delle giuste decisioni. Se fosse per noi rovesceremmo il concetto: essere trasparenti per i buoni amministratori pubblici non dovrebbe essere un dovere, bensì un diritto. A Como accade il contrario e la vicenda del muro ne è un esempio fulgido: ancora oggi i responsabili si sono chiusi a riccio, neanche fossero "under attack", nel mirino di Al Qaeda o di un commando talebano. Caradonna e Bruni e Viola e Ferro si acquietino, visto che l’unica arma di cui disponiamo è un punto interrogativo e - se non conoscono cosa sia - li rassicuriamo: non ha mai ammazzato nessuno.
La Provincia, 18.10.09

Davigo e l'Italia del...

Davigo e l'Italia del severamente proibito

Sul più bello - il finale a effetto del discorso - gli è partito il "Can can". Maledetta suoneria del telefono.Benedetta anzi, perché poche note musicali scattate in perfetta e straordinaria sincronia con l’epilogo d’una ora e mezza di lezione ai trecento ragazzi del Gallio, raccontano di Piercamillo Davigo più d’un trattato. Non che egli sia uomo da "Moulin Rouge" o da cabaret parigino della Belle époque, ma della Francia è un ammiratore certo. Lo confessa lui stesso, quando scende dal palco e nell’auditorium non è rimasto nessuno. «Lei è mai stato a Versailles? - domanda a bruciapelo - Lì ci sono i quadri delle grandi battaglie francesi, solo quelle che hanno vinto, perché sono degli sciovinisti, ma il primo dipinto tratta una battaglia del 480. Loro sono uno Stato da millecinquecento anni, noi da soli centocinquanta».Piercamillo Davigo è un uomo d’altra terra e d’altro tempo, catapultato in Italia suo malgrado, ostinandosi egualmente a servirla con rigore e puntiglio. Una pignoleria che ai tempi di Mani pulite aveva contribuito a battezzarne il soprannome: Piercavillo. E che ha confermato anche ieri, quando proprio non ce la faceva a non citare quell’articolo, piuttosto che quell’altro. Parimenti - gli va ascritto a merito - è riuscito nel compito arduo di intercettare l’attenzione dei ragazzini delle medie, parlando di rispetto delle regole, di legge da rispettare purché sia giusta, di legalità da costruire come valore. Lo ha fatto illustrando esempi, raccontando storie e persino leggendo una pagina de "Il Piccolo principe", con quella esse col soffio (per capirci, la esse di "sorbole" in bolognese) che quando parla lo rende simpatico, bonario.Bonario, non buonista. Il meglio, in questo senso, lo ha dato nella seconda parte dell’incontro, quando gli studenti lo hanno imbeccato con domande ingenue ma non banali. Ecco allora che Davigo, l’uomo che s’è sempre sottratto ai riflettori («Perché non sopporto la gazzarra che in Italia si fa sotto i riflettori») ha risposto con schiettezza. Qualche esempio. Il federalismo? «Una soluzione illusoria. La Sicilia è la regione più autonoma e dunque federalista che esista e gli scempi che accadono sono sotto gli occhi di tutti. Altro che federalismo, lì ci vorrebbero impiegati pubblici importati direttamente dal Brennero, magari che parlino esclusivamente il tedesco, e che pongano fine al dissesto».Il presidenzialismo? «Un falso problema. Ha più poteri e competenze esecutive un presidente del consiglio italiano di un presidente degli Stati Uniti».Le riforme? «Gran chiacchiere. Altro che eliminare il bicameralismo perfetto per rendere più efficiente il Parlamento. Il problema non è fare altre leggi, bensì eliminare le troppe che già ci sono adesso. La crisi di legalità è dettata proprio dalla presenza di troppe regole. Pensiamo che in Italia esiste tuttora un "delitto" per chi cancella il timbro del tram sul biglietto. Per un danno da un euro si prevedono tre gradi di giudizio».E poi il concetto che ha espresso con più vigore, la differenza tra cittadino e suddito. «Il cittadino ha pochi obblighi, fatti rispettare rigorosamente, che prevedono pene severe per chi li infrange. Il suddito invece è sottoposto a tantissimi obblighi, con grande tolleranza se vengono infranti, salvo farli pagare tutti ai pochi che finiscono nel mirino della giustizia. In Italia siamo sudditi piuttosto che di cittadini. Siamo l’unico paese al mondo, credo, in cui il "vietato" è preceduto dal "severamente". Da noi una proibizione semplice non basta, come se il divieto potesse essere distinto in divieto severo o divieto sì, ma solo un po’».
La Provincia, 17.10.09

Hanno proprio la faccia come...

Hanno proprio la faccia come il muro
Se volessimo inventarle, così belle non le troveremmo. Ci sono notizie che allargano il cuore ed altre che lasciano increduli e tocca leggerle due volte per accertarci che la vista non abbia tradito. La vicenda delle scale mobili bocciate dal Comune e rottamate prima ancora che vi fosse posato un piede avrebbe occupato lo spazio di una "breve", se non fosse giunta alle orecchie a ridosso dello scandalo del muro. Secondo l’immobiliare proprietaria dell’area, la motivazione per cui sono state rifiutate dall’ente municipale è che avrebbero oscurato la vista, impedendo che da lì sotto fosse visibile parte della Spina verde, addirittura il Baradello. Uno scrupolo encomiabile, se non fosse in contrasto con le concessioni urbanistiche dello stesso Comune, che considera un obbrobrio le scale mobili per raggiungere il sovrappasso, ma non s’è fatto il minimo problema nel permettere la costruzione dell’intero Dadone, non esattamente un fuscello. Una storia da pagliuzza e trave nell’occhio che sbalordisce ancor di più alla luce, anzi, all’ombra del muro sul lungolago. Che credibilità può avere un’amministrazione pubblica agli occhi di un imprenditore privato o di un semplice cittadino, se la stessa amministrazione erige in un punto assai più panoramico una barriera di cemento armato? Bisogna proprio avere la faccia come il muro.

La Provincia, 16.10.09

Un leone a testa, l'assessore...

Un leone a testa alta, l'assessore non rinneghi l'uomo

Delle mille sfaccettature che presenta la politica non ce ne appassiona che una: l’uomo, l’essere umano che occupa una poltrona, che ricopre una carica, che prende decisioni sulla base di un pensiero, ma anche di una storia, di un percorso, di una carta d’identità e persino di una faccia. Per formazione (o per deformazione) non riusciamo a distinguere le vicende amministrative da quelle personali. Prendiamo Caradonna. In passato non gli abbiamo risparmiato nulla, deplorandone la leggerezza nell’affrontare questioni cruciali, oltre alla spocchia da petto in fuori, che si attaglia più al bullo che al pubblico amministratore. Ecco perché - a parte riconoscergli che non è permaloso - da parte nostra mai una carezza, mai un buffetto, con un’unica linea guida: la sincerità. Non apparteniamo infatti alla schiera di coloro che incontrandolo per strada lo prendono a braccetto e ridono e scherzano, salvo poi svoltare l’angolo e sparlarne o pugnalarlo. Noi gli schiaffoni preferiamo prenderli e restituirli a viso aperto.Ed è con questo spirito che confessiamo un disagio, nel vederlo silente, in consiglio comunale, mentre tutti - specialmente i suoi sodali di partito - lo attaccano, lo sbeffeggiano persino. E lui niente, impassibile, di gomma, come quando è stata inscenata la pantomima delle sue dimissioni, poi trasformate in una tiepida "remissione delle deleghe". Del leone che conoscevamo nessuna traccia, mentre noi ci aspettavamo che rovesciasse il tavolo e mandasse tutti al diavolo, urlando che non aveva fatto il "lavoro sporco", mettendo faccia e reputazione in tutti questi anni, per vedersi sfilare le deleghe da Gaddi, un damerino. Ci pensi, Caradonna, prima di affrontare il voto dell’aula: se ne vada di sua iniziativa, a testa alta, dimostrando ai pavidi colleghi che è tuttora un leone e non la scialba copia di se stesso.
La Provincia, 15.10.09

I veri responsabili e la...

I veri responsabili e la foglia di fico
«Perdonateli, perché non sanno quello che fanno» scrive oggi, a pagina 74, un lettore. Per perdonarli, li perdoniamo. Ma a un patto: che ammettano, senza fare i furbi, che sapevano eccome quello che facevano. Del muro - com’è ben spiegato nell’articolo a fianco - sapevano tutti e dai vertici regionali fino all’ultimo operaio nessuno può dichiararsi estraneo. Chi poco, chi tanto, si sono visti passare il progetto sotto il naso senza valutare l’impatto visivo che avrebbe procurato. Compresi i tre progettisti iniziali, che ora cercano di passare per agnelli sacrificali, eppure sono stati i primi a proporre una barriera. E Artioli, il sopraintendente che scende dal pero. E poi ingegneri, architetti... Lo scriviamo, perché ci piace essere onesti, pur sapendo di attirarci le antipatie di chi ora gioca a nascondino. Senza scordare che Bruni e Caradonna di colpa ne hanno anche un po’ di più poiché, a differenza degli altri, sono gli unici che in quell’errore perseverano.

La Provincia, 14.10.09

Te la do io la rivoluzione...

Te la do io la rivoluzione liberale
La puntata di "Report" andata in onda domenica scorsa è stata più utile di una lezione universitaria: in Germania il regolamento edilizio si esaurisce in tre fogli, appesi alla bacheca, mentre in Italia consta di tomi e tomi, che solo per girarne le pagine occorre una betoniera.Non siamo vittime della burocrazia: ci affoghiamo proprio. Una marea di cavilli e controcavilli che ci meritiamo, avendo permesso ad oscuri passacarte di eccellere nell’arte della marca da bollo, funzionale ai potenti senza scrupoli, che hanno bellamente cementificato dove pareva loro, mentre il povero diavolo, se vuol cambiare le misure di una finestra deve impelagarsi in un contenzioso che il lodo Mondadori, al confronto, è un pensierino. È colpa nostra, dicevamo: sono cambiati cento governi e non siamo neppure morti democristiani, eppure siamo ancora qui, al punto e a capo dell’azzeccagarbuglio. Ecco perché, se possedessimo il genio della lampada, più che un "piano casa" faremmo piazza pulita di tutte le leggi, leggine e i regolamenti vigenti, ponendo poche norme, tanto chiare che - per accertare che lo siano - dovrebbero essere comprese da un ragazzino. Questa sì sarebbe una vera rivoluzione liberale al servizio del cittadino, ma ci rendiamo conto che per arrivare a tanto, non basterebbe neppure la lampada di Aladino.
La Provincia, 14.10.09

lunedì 19 ottobre 2009

Il guscio


Mi piacciono le tartarughe. Non tanto l'animale in sé, quanto l'idea che ho di loro, specie di quelle che si vedono nel film "Alla ricerca di Nemo" e che si fanno portare dalla corrente e che hanno una corazza spessa, che le protegge e in cui si possono rifugiare, ritraendo gambe, testa e tutto il resto. Un guscio accogliente e a portata di mano. Ne vorrei avere uno così anch'io e rimanermene lì, quando le cose vanno a rovescio. Poi però penso che le tartarughe hanno un limite e pagano cara la fortuna di una casa costruita tutt'attorno: le tartarughe non possono abbracciare nessuno. Farei cambio? Non credo.

Foto by Leonora

mercoledì 14 ottobre 2009

Profumo di felicità


Rileggere "I Miserabili"; piantare un acero; fare un pergolato con viti di uva americana; tornare a New York; tornare anche a Boston e entrare da Barnes & Noble; comprare un'auto piccola; levigare tavole di abete; usare finalmente gli acquerelli che mi sono fatto regalare quattro anni fa; visitare una rilegatoria; scoprire dove nascono le mosche; chiacchierare con l'Ambrogio seduti a un tavolino in cemento d'una vecchia osteria; giocare a bocce al 48; fare colazione al bar con cappuccino e brioche ogni mattina; abitare in una mansarda piena di libri; risentire il profumo di dolci appena sfornati come quando la Tettamanti qua vicino non era ancora chiusa; andare a trovare la professoressa Bugnoni e ringraziarla di avermi fatto leggere in seconda media "Il segreto di Luca"; suonare di nuovo la chitarra; viaggiare in treno e attraversare l'Europa; passare una settimana a Copenaghen; seguire da inviato di giornale una campagna presidenziale negli Stati Uniti; rivedere in dvd con la mia famiglia "L'era gliaciale 3"; abbonarmi al Piccolo teatro di Milano; mangiare una pizza a Palinuro; individuare la costellazione di Orione a colpo sicuro in una notte senza luna; conoscere di persona Connie Nielsen e Erri De Luca; comprare un quadro di Manlio Rho e appenderlo sulla parete di sasso di questa casa; sedere in tribuna mentre giocano a pallone, in una partita ufficiale, Giovanni e Giacomo; assaggiare il polipo con patate come lo fa mia mamma; ascoltare il rumore della pioggia che batte sulle traverse di rame del tetto, mentre sto al caldo sotto le coperte del letto; prendere appunti con la penna a stilo su un quaderno di carta riciclata...
Ho scritto queste cose perché stasera sono un po' giù di morale e m'è servito pensare a cose belle, cose che vorrei fare, cose che anche solo a metterle in fila, ad una ad una, mi fanno sentire il profumo della felicità.
Foto di Leonora (in tutti i sensi)

lunedì 12 ottobre 2009

Una preghiera


Ho sonno, sono stanco e non vedo l'ora di andarmene a letto. Prima però un appunto: stamattina ho conosciuto il papà e la mamma di Paolo, il bambino di undici anni di cui nei giorni scorsi ho scritto. Sono venuti entrambi al giornale, in punta di piedi, per ringraziarmi delle parole che avevo avuto e per raccontarmi chi era il loro figlio, delle tante coincidenze che messe in fila ad una ad una hanno portato al compiersi d'un destino tremendo, dell'affetto di una comunità intera, di decine di amici che si sono stretti a loro, facendo - per usare la loro esatta espressione - da "uovo di protezione". E io me ne sono rimasto lì, affranto e commosso e muto, continuando a ripetere a me stesso che non avrei saputo fare altrettanto, ammirando il loro dolore composto, dignitoso. Ora però che il buio è calato e qui attorno è silenzio, penso a loro due e al vuoto che hanno dentro e che nessun pensiero potrà consolare. Se esiste un Dio, stasera non ha altro posto dove stare che accanto a quell'uomo e a quella donna, glielo deve.
La foto, come tutte le altre in questo blog, è di Leonora

Un bambino che muore...

Un bambino che muore, nulla merita più attenzione

Scrive Ignazio Silone ne “Il seme sotto la neve” che «per crescere ci vuole un’intera vita, ma per invecchiare basta una notte». A volte è sufficiente una sera. Gira e rigira, in questa settimama di muri in salsa verde e politici bolliti che si guardano allo specchio, il pensiero torna a quel martedì in cui a Como è morto un bimbo. Aveva undici anni e ha pagato caro il filo sottile che distingue il gioco dal reale. Lo ha trovato la madre, rientrando in casa e vedendo il mondo spegnersi. Il giorno dopo – come gli altri giornali - abbiamo dato la notizia con pudore, omettendo il luogo e il nome, per non aggiungere alla tragedia di quella famiglia altro dolore. Ma un nome e un volto e una storia quel bambino l’aveva, e compagni di classe, che il giorno dopo si sono trovati un banco vuoto, destinato a rimaner senza risposte, al pari delle domande di amici e parenti. Ed è così che, pur senza il clamore, quella vicenda è passata di bocca in bocca, di casa in casa, non come un pettegolezzo, bensì una sofferenza condivisa, una consapevolezza atroce: è capitato a lui, a loro, potevamo essere noi. È il pensiero di ogni genitore, sia di coloro che ci hanno messo una pietra sopra, per soffocare ogni emozione, sia di chi tornando a casa ne ha parlato con i propri figli, degli insegnanti nelle scuole, che hanno provato a spiegare l’inspiegabile. Lo facciamo pure noi, anche se vorremmo accantonare il pensiero, come quando da piccoli chiudevamo gli occhi confidando di far sparire in quel buio le cose brutte. Le rammentiamo invece, per riflettere su ciò che conta davvero e mettervi ordine, scartando le sciocchezze e restituendo valore all’essenziale. E per rinnovare l’abbraccio a quei genitori, perché sappiano di non essere soli, nonostante tutto sia vuoto ormai, comprese queste parole. Sempre Silone ricorda che «quando le persone più care sono morte, la vita prende un colore diverso e anche il mattino diventa sera». Sta a noi non dimenticare la tragedia di un bimbo che muore e fare in modo che sotto la neve ci sia ancora un seme.
La Provincia, 11.10.09

Il modello Norvegia può...

Il modello Norvegia può attendere. Ci vuole più cuore

A Milano c’è la Baggina, da queste parti i sinonimi di casa di riposo sono due: la Provvidenza, con le suore del don Guanella, e la più laica Ca’ d’Industria. Si scrive Ca’ d’Industria, ma si legge Como e anche Pietro, Sandro, Rosina e mille altri nomi e volti di chi da quelle stanze c’è passato, ci passa e ci passerà. Non è una semplice istituzione: è il simbolo stesso del diventare anziani, un luogo che si vorrebbe con tutte le proprie forze evitare e al tempo stesso di un’accoglienza che a nessuno è negata. Finirci non è mai un piacere, però può capitare ed è proprio con questo spirito del "può capitare anche a me" che i comaschi della Ca’ d’Industria si sono sempre occupati, gli hanno voluto e gli vogliono bene persino.Un sentimento diffuso, che alcuni hanno tradotto in volontariato a tutti i livelli: dal prestare assistenza a chi non ha più parenti, al far parte di un consiglio di amministrazione che ha sempre vantato persone di spessore. Facciamo un nome: Renzo Pigni, ma ce ne vengono in mente anche altri, come Daniela Corti o l’ex presidente Castelli. Gente alla buona, abituata a ragionare con il cuore in mano, ma che a dispetto dei santi (o proprio grazie al loro aiuto) hanno fatto sbocciare strutture modello, riuscendo sempre a stare in equilibrio su quel filo sottile che è la gestione a mezza strada tra il familiare e il professionale. Senza pretese di verità, è innegabile che abbiano raggiunto risultati brillanti perché la gente si fidava di loro e molto potevano pretendere, anche gratuitamente, perché molto concedevano, senza pretendere una lira in cambio. Non sappiamo cosa sia successo nel frattempo. Certo le persone che le hanno sostituite sono qualificatissime, a testa avranno magari due lauree e modelli di welfare da far invidia al primo ministro norvegese. Ci domandiamo però se hanno compreso cosa ha reso unica, in questi anni, la Ca’ d’Industria: il cuore.
La Provincia, 10.10.09

venerdì 9 ottobre 2009

Orwell abita qui


Scusate, non mi occupo più di Berlusconi da un pezzo e il positivo è che tra lodi Alfani e comparsate a Porta a Porta pare non occuparsi neppure lui di me. Aspetto che passi, tutto qua. Non m'interesso neppure di politica nazionale e non saprei proprio se e chi votare, per la prima volta da che sono bambino (sì, perché da bambino la politica era la mia passione, l'unico argomento in cui battevo il mio amico Angelo). Non mi piace la destra, non mi piace la sinistra, il centro mi fa schifo proprio. Attendo che passi Berlusconi, sperando che come in "Jumanji" rientrino inghiottiti nel gioco come in un vortice anche D'Alema, Bossi, Schifani, Casini, Gasparri, La Russa, Bertinotti, Franceschini, Fini, Mastella (soprattutto Mastella!), Fassino e pure Bersani (ebbene sì, se devono scomparire tutti, addio anche a Bersani) e tutti gli altri. Mi piace Barak Obama perché è impossibile non rimanerne affascinati e perché ai suoi collaboratori fidati, quando chiacchierano troppo, dice: "Where's the beef?", dov'è la polpa, la carne? E e poi perché quando, come oggi, gli affibbiano un Nobel per la Pace sulla fiducia, prima ancora che abbia fatto mezza virgola ("L'unica pace che ha fatto in vita sua - riferisce caustico ma veritiero il Wall Street Journal - è stato con Hillary Clinton") il suo portavoce invece di offendersi e di difenderlo a spada tratta, come accadrebbe in Italia, si limita a dire che "questo premio lo imbarazza", mentre lui stesso ha confessato: "Per essere onesto, non credo di meritare di essere in compagnia di tante figure che hanno cambiato il mondo e che mi hanno ispirato". Spero che non gli porti sfortuna e che non glielo abbiano attribuito per timore che qualche pazzo lo levi di mezzo, come è successo a molti altri grandi del passato. Incrociamo le dita e tirem innanz.

Sono uscito fuori tema, ma ci torno. Non mi occupo più di Berlusconi e pare che anche lui non si occupi più di me. Qualcuno però si interessa di entrambi e la cosa m'inquieta. Mi riferisco al fatto che chi ha messo su Facebook il video del Berlusca incavolato nero, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, se l'è visto eliminare senza poter dire ne beh, ne bah. Non erano bestemmie o un video porno, ma un semplice quanto innocente servizio di Sky Tg 24. Un dettaglio, si dirà, ma non è vero e questo fatto mi spaventa persino. Oggi è un servizio innocuo del tg, domani potrebbe essere un video o un'opinione di dissenso verso un gruppo di potere, politico o finanziario. Una censura che mi preoccupa assai più del tanto sbandierato allarme alla libertà di stampa. E il brutto è che non so nemmeno con chi protestare, non so neanche chi sia il signor Facebook e per la prima volta sento disagio nei confronti di questi colossi (Google, Microsoft...) a cui affidiamo le nostre comunicazioni e un giorno, se lo volessero, con un clic terrebbero a bada ciò che vogliamo conoscere o far conoscere. Anche questo post, persino. E senza altri mezzi se non quelli tecnologici per comunicare, ci ritroveremmo isolati e impotenti, costretti a imparare di nuovo i segnali di fumo per poter esprimere un pensiero non controllato, libero, vero. Meditate gente, meditate...
Foto by Leonora

giovedì 8 ottobre 2009

Dodici anni


Guardare il proprio figlio giocare a calcio: uno dei piaceri sublimi della vita. Quest'anno Giacomo ha cambiato squadra, passando alla Faloppiese e lasciando l'Itala. Una scelta ardua e, fino a due mesi fa, inaspettata, tanto che se non fosse stato per una coincidenza, avrebbe continuato a giocare a Lurate Caccivio. Lui però, quel giorno fissato per firmare il cartellino (ebbene sì, per chi non lo sapesse, c'è un cartellino anche per bambini piccoli) era in montagna e io, che sono pigro, l'ho presa come scusa per convincere me stesso a rimandare di una settimana. In sette giorni sono cambiate molte cose: Giacomo ha giocato un torneo con i suoi vecchi compagni della squadra dell'oratorio, ha vinto il torneo di Limido e mentre tornavamo a casa, in macchina, mi ha detto: "Papà, che peccato che l'anno scorso non mi hai fatto andare alla Faloppiese". "Come non ti ho fatto andare - ho replicato, già in leggero affanno - eravamo tutti e due d'accordo che l'Itala sarebbe stata meglio, è più vicina, non facciamo fatica a portarti, ci giocano i tuoi amici, è stata persino fondata da un tuo zio (Gilberto Ballerini, detto ul Bertu)...". Parole. In verità dentro me pensavo che in effetti l'anno scorso era stata un'idea più mia che sua, che già tre anni fa quelli della Faloppiese avevano chiesto a Ciccio - l'allenatore della squadra dell'oratorio - di farlo giocare con loro, che un giorno magari mi sarei pentito di non avergli prestato ascolto e che dopotutto, a dodici anni, aveva diritto a dire la sua e scegliere ciò che reputava meglio. Ma una cosa, nonostante Isabella continuasse a ripetere che andare a Faloppio era un problema, mi ha convinto più di tutto: il timore che un giorno mio figlio mi rinfacciasse: "Sei tu che non hai voluto". E siccome il calcio per me è una cosa seria, ma rimane soprattutto un gioco, un divertimento, m'è sembrato giusto accontentarlo. Pur a malincuore, lo confesso, per gli amici che abbiamo lasciato e con un profondo senso di gratitudine per dirigenti e allenatori dell'Itala. In particolare, oltre ai vari Ettore, Egidio, Aldo... vorrei scrivere qua che persona straordinaria sia Rosario Lo Monaco, che sarebbe stato il suo allenatore quest'anno e per cui l'addio è stato un fulmine a ciel sereno. Non scorderò facilmente il mezzogiorno in cui gli ho telefonato, per ufficializzare l'intenzione di cambiare squadra e, mentre io ero in evidente imbarazzo, lui ha capito la situazione ragionando come un padre, oltre che un amico. "Quante storie!" penserà qualcuno, che non conosce il mondo del calcio e penserà che sono esagerato. Sarà certo vero, ma per come siamo fatti, per come sono fatto, mi sentivo legato a un impegno e mi è spiaciuto - pur per motivi comprensibili - rompere il patto. Sta di fatto che, due mesi dopo quella scelta, devo ammettere che Giacomo aveva ragione. E non tanto perché la Faloppiese è mediamente più forte delle squadre che incontra e vince spesso (una volta però ha anche perso 3 a 0, pur in amichevole, con il Bulgarograsso e comunque il campionato è appena cominciato). Piuttosto, sono sollevato perché anche lì ha trovato persone di notevole spessore umano e vedo mio figlio divertirsi, andare ad allenarsi e a giocare contento. Per me non importa altro.
P.S. Ieri l'altro, sapendo che lo avrebbe comunque letto sul giornale, ho spiegato a mio figlio, meglio che potevo, cos'era successo a pochi chilometri da noi, a quel ragazzino che aveva soltanto undici anni e che era morto, in quel modo così assurdo e tremendo. Giacomo di anni ne ha uno in più ed è sensibile e quando gliel'ho detto si è come immagonito, poi mi ha chiesto un paio di cose, ma non ha voluto leggere nulla e con una scusa è salito a giocare. Oggi evidentemente ne hanno parlato in classe o tra compagni, poiché una volta tornato da scuola ha chiesto a mia madre il giornale di ieri, dov'era raccontata la tragedia. Terminato l'articolo, a mia mamma è venuto spontaneo chiedergli: "Hai visto Giacomo? Chissà che gli è passato per la testa?". E Giacomo, che con i suoi dodici anni si sente già un ometto, serio ha risposto: "Cosa vuoi, nonna, era un bambino..."
Foto by Leonora

Com'è accaduto? Perde la pazienza...

Com'è accaduto? Perde la pazienza pure Fra' Cristoforo

Senza scomodare Fra’ Cristoforo, verrà un giorno in cui pacatamente, senza le mosche al naso che saltano a noi per primi, risponderemo alla domanda: com’è potuto accadere? Com’è potuto succedere che nessuno se ne sia accorto prima, che non solo l’assessore Caradonna e il fido Viola, ma addirittura l’architetto Cosenza (tecnico dell’amministrazione provinciale di cui abbiamo somma stima e che s’è sempre dimostrato un paladino nella difesa del territorio dall’aggressione del cemento) abbiamo potuto partorire (i primi) e avvallare (il secondo) un simile obbrobrio, qual è il muro che impedisce la vista lago?La risposta non la conosciamo, ma armandoci di serenità proviamo a darla, prendendo spunto da ciò che domenica scorsa, mentre camminavamo in montagna, ci ha rivelato il nostro amico Angelo. È stato lui a raccontarci di un libro intitolato "La saggezza delle folle", dell’americano James Surowiecki, la cui tesi è la seguente: è più probabile che la soluzione a un problema non triviale venga fornita da un eterogeneo gruppo di persone che non da uno solo o da pochi individui, per quanto "esperti" siano. «Nel 1961 - ci ha detto Angelo - lo stato maggiore statunitense si convinse che era possibile invadere Cuba con trecento uomini e pur vantando uomini geniali, nessuno sollevò il minimo dubbio che si trattasse di un’assurdità votata al fallimento». S’incartarono, insomma. Lo stesso che potrebbe essere successo per il muro, la cui molesta invasività è stata ignorata. E non è un caso che la folla, il popolo, si sia sollevato in massa, comprendendo che quella barriera è una sciagura, pur non avendo studi o competenze alcuna. La differenza sta nella reazione, una volta scoperto il guaio. Caradonna e Bruni, invece di comprendere la bestialità dell’accaduto e "fidarsi" del popolo, hanno ostinatamente difeso la loro idea e sono tuttora convinti - da quello che riferiscono - che lo devono abbattere perché noi, tutti noi, non abbiamo capito. Una supponenza da far perdere la pazienza persino a un Fra’ Cristoforo.
La Provincia, 07.10.09

Sulla soglia di un dolore...

Sulla soglia di un dolore senza senso

Ci sono pagine che non si dovrebbero chiudere mai, che si vorrebbero lasciare bianche, candide come il cuore di un bimbo, spoglie, nude quanto il dolore di quei genitori che ieri, tornando a casa, hanno trovato senza vita il loro figlio. È toccato alla madre aprire la porta, scoprire cos’era successo, piombare nell’incubo. Noi ci fermiamo sulla soglia, perché non ci sono notizie peggiori della morte di un bambino. Aveva undici anni appena, vedeva gli stessi programmi tv dei nostri figli, giocava agli stessi giochi della play station. Se chiudiamo gli occhi li vediamo sorridenti a scuola, con la maglietta della squadra di calcio e pensiamo che nulla, ma proprio nulla, può esserci di differente nell’amore dei genitori e che soltanto una fatalità poteva dividere il nostro destino dal loro. A quel papà e a quella mamma, al loro pianto inconsolabile, vorremmo con tutte le nostre forze che un abbraccio facesse anche soltanto eco. La vicinanza di un’intera città che senza motivo ragionevole - perché non esistono spiegazioni, quando accadono simili tragedie - ha perso un figlio. E ci spiace non aver altre parole da aggiungere, non essere più bravi, più sensibili, per tentare almeno di dare a tutto questo un senso. Un senso non lo troviamo per quell’urlo di disperazione, per quelle lacrime che ieri sono arrivate fino al cielo. Restiamo così, affranti, di fronte all’enormità di una tragedia ch’è la morte di un bimbo.
La Provincia, 07.10.09

Il vecchio (e il) cuscino


Pausa. Per oggi niente discorsi epocali, massime filosofiche e riflessioni su vita, morte e miracoli. In queste settimane i miei giorni assomigliano ai governi democristiani del primo dopoguerra: monocolore. La somma totale delle persone che vedo, esclusi parenti stretti e colleghi, è zero virgola qualcosa e la mia giornata tipo è la seguente: sveglia, doccia, barba, vestizione, auto, redazione, auto, brevissima pausa pranzo a casa, di nuovo auto, redazione, auto, casa, cena, tv e computer, maglietta e calzoncini, letto, libro, dormiveglia, sonno, sonno profondo, di nuovo sveglia, doccia, barba... Non avendo da raccontare propriamente avventure da Indiana Jones, mi limiterò a scrivere qua del mio nuovo cuscino. Nuovo per modo di dire: lo uso già da tre o quattro mesi e lo aveva acquistato mia madre a inizio anno, credo. La notizia è che dopo svariati tentativi, il nuovo cuscino è riuscito finalmente a scalzare quello vecchio, in lana grezza, che mi ha fatto compagnia per infiniti anni e che inutilmente prima mia madre e poi Isabella hanno tentato di gettare nell'immondizia. Il fatto è che a me il cuscino piace morbido, ma non troppo e non me ne andava mai bene uno, tranne quello che ha fatto capolino tre o quattro mesi fa. Sabato scorso ho scoperto che non si tratta di un cuscino normale, bensì di un guanciale fatto con "un materiale scoperto dalla Nasa negli anni Sessanta e commercializzato soltanto recentemente". La caratteristica principale è la consistenza e la capacità di adattarsi al corpo, tornando alla forma iniziale gradualmente. Una figata, insomma. Almeno per me, che sono resistente al cambiamento e prima di accettare le novità (parlo di casa, non del lavoro) impiego lungo tempo. Prima del cuscino, un salto di qualità lo avevo avuto passando da due materassi di lana a uno solo, matrimoniale, a molle. Con i primi si creava nel mezzo una conca che al mattino occorreva una corda per tirarmi fuori dal letto. In altre situazioni, mi affeziono agli oggetti e prima di privarmene passa un'era geologica. Penso al mio attuale accappatoio azzurro turchino, che - ho notato stamattina - ha persino due buchi grossi quanto noci all'altezza delle ascelle ed è liso, ma proprio questo è il bello e il buono: lo sento come una seconda pelle e asciuga benissimo. Da vecchio vorrei essere anch'io così, consunto, ma ancora utile e a cui sei affezionato ed è per quello che ti spiace buttarlo.
Foto by Leonora

mercoledì 7 ottobre 2009

Undici anni


Quando Stefano (Ferrari, il collega che si occupa di cronaca nera) ha appeso la cornetta del telefono, passandosi le mani tra i capelli, avevo già compreso di cosa si trattava. L'avevo intuito dalle mezze parole che aveva scambiato con l'interlocutore all'altro capo del filo: un bambino di undici anni era morto, in casa, appeso chissà come, chissà perché, all'asta delle tende. Così l'ha trovato la sua mamma, appena varcata la porta e sentito un gelo che ora non le andrà più via. I minuti sono passati veloci in redazione, prima per capire cosa era successo, poi per decidere cosa fare, se dare la notizia e come. Il direttore, com'è solito fare nei momenti delicati, ci ha riunito nel suo ufficio, in modo da ragionare a ruota libera, dicendo ognuno la sua, senza briglie e bavagli, prima di prendere le decisioni che gli spettano. Facciamo un mestiere bello e tremendo, trattiamo la vita e la storia delle persone, raccontandola meglio che possiamo. Alla fine è prevalsa la linea di dire quanto è successo, ma con misura, con garbo, rispettosi del nostro ruolo, ma ancor di più della famiglia, senza dunque mettere nome e cognome e neppure i particolari, per non arrecare altro dolore all'abisso in cui sono precipitati quel padre e quella madre. In più, proprio per l'eccezionalità del fatto, abbiamo aggiunto qualche riga in corsivo, per ribadire che certi dolori rimangono un mistero senza senso ed esprimere vicinanza e affetto proprio a quei genitori che hanno perso se stessi insieme con quel figlio unico. Poi ci siamo concentrati anche sul resto della pagine, su un giornale che è frutto del nostro lavoro e come tale va rispettato, anche se la tentazione era quello di spegnere tutto e di staccare la spina anche mentalmente, almeno per un poco. Quando sono tornato a casa, stasera ormai tardi, la prima cosa è stata ovviamente correre da Giorgia e Giovanni e Giacomo. Dormivano già, o meglio erano in quella fase iniziale del sonno in cui ombre e luci non si distinguono. Ho accarezzato loro la testa, Giorgia con gli occhi semichiusi mi ha abbracciato, Giovanni s'è messo a ridere cercando di nascondersi sotto le lenzuola, mentre a Giacomo, che per età è il più vicino al bimbo che oggi è morto, ho dato un bacio sui capelli, a cui ha risposto con un incosciente sorriso. Ed ora sono qui, senza un motivo preciso, solo per condividere un'inquietudine, un disagio che a fine corsa sento più greve, mentre nelle orecchie suona la domanda che mia madre, che Isabella, mi hanno rivolto quando lo hanno saputo: "Perché lo ha fatto?". Non lo so, non lo sapremo, neppure rileggendo mille volte il biglietto di saluti che ai genitori ha lasciato.

Foto by Leonora

martedì 6 ottobre 2009

Trenta giorni per evadere...

Trenta giorni per evadere da prigioniero di se stesso
Potrebbe essere l’inizio di una filastrocca: trenta giorni ha settembre e anche Bruni, se vuol’essere ancora sindaco a novembre. È il riassunto di ciò che è accaduto nelle ultime ore, con l’ultimatum che il primo cittadino ha dato a se stesso. Un mese di tempo per comprendere se la maggioranza in consiglio è finalmente compatta, un mese di tempo per combinare qualcosa di buono, un mese di tempo per risolvere uno, almeno uno, dei mille problemi della città. Ma pure un mese di tempo per capire se dagli errori qualcosa ha imparato, se riuscirà a cavare un ragno dal buco e dimostrare a tutti che Stefano Bruni del politico ha la stoffa e non soltanto il vestito. Finora, da quando è stato eletto, non ha fatto una piega: avanti tutta anche quando andava indietro. Un monolite il cui decisionismo ha presto sovente le sembianze sterili dell’arroganza, come se lui non potesse sbagliare e fossero sempre gli altri - la stampa, i compagni di partito, gli alleati di coalizione, gli stessi cittadini - a remare contro, a non capire, a lasciarsi ingannare o, peggio, a boicottare. L’ultima, spropositata vicenda, con il muro spuntato in riva al lago, n’è stata un’ulteriore conferma. Non diciamo un Barak Obama o un Sarkozy, ma anche un qualunque assessore Cevoli avrebbe compreso in due minuti la malparata e avrebbe anticipato la rivolta popolare, armandosi di scuse e piccone. Chissà se la sera, quando torna a casa, mentre guarda la tv in famiglia o prima di addormentarsi gli sovviene mai il dubbio che il tempo fugge e che egli rischia seriamente di fallire, di naufragare. Non lo chiediamo all’amministratore Stefano Bruni, bensì all’uomo, e lo facciamo pubblicamente, non lodandolo faccia a faccia e poi sparlandone alle spalle. Chissà se ha mai pensato che in questa redazione, dal direttore all’ultimo redattore, sottoscritto compreso, non ha nemici, né avversari, bensì uomini e donne che fanno il loro dovere, con onestà intellettuale, e che se un appunto gli si muove è perché la città sia migliore. Ci pensi, in quel mese di tempo che si è dato.

La Provincia, 04.10.09

L'Angelo azzurro


Oggi, ieri anzi, lunedì, è stato uno di quei giorni neri, che partono male e non finiscono meglio. Capitano. Noie a casa, per strada, sul lavoro... L'unica cosa che vorresti fare é voltare pagina o dormirci sopra, a lungo, proprio sotto le coperte, al buio, nessuno attorno, neanche te stesso. Purtroppo gli impegni incombono e non puoi fare ciò che desideri, tanto vale continuare a testa bassa, piegarsi come i rami dell'abete sotto il peso della neve. Passerà, speriamo, ne sono certo: questione di tempo. Intanto ripenso alla bella giornata di ieri, alla camminata al monte San Giorgio, agli amici trovati in cima (Paola e Roberto, Mari ed Enzo) e soprattutto alle chiacchiere con Angelo, il mio miglior amico. Ci vediamo poco ma non serve neppure un minuto per riallacciare il discorso dove l'avevamo lasciato. E poi mi ha dato un sacco di spunti su cui riflettere e che, anche questo è certo, nei prossimi giorni metterò negli articoli che scrivo. Ci penso adesso ed è l'unico modo, in questa giornata al tramonto, per colorare d'azzurro il grigio, il nero.
Foto by Leonora

sabato 3 ottobre 2009

Se guardo indietro


Oggi Giacomo ha ricevuto la cresima, un sacramento che per i cattolici segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Un passaggio simbolico, presente in tutte le civiltà, anche se con i suoi dodici anni mio figlio resta orgogliosamente e direi pacificamente un bambino, com'ero io quando è stato il mio turno. Di quel giorno, ricordo la messa interminabile del vescovo Bernardino Citterio, che ci aveva poi "interrogato" nel salone del cinema Pax, alla presenza del parroco, don Clelio, tutto tonaca e perino (dicasi "perino" un colpo di nocca, con la mano chiusa a pugno, assestato sul capo dello sventurato che gli passava accanto). Esaurita la parte religiosa, c'era stato un pranzo a casa nostra, nel salone al primo piano tinteggiato di verdino, che fu usato per l'unica volta in trent'anni, prima di essere trasformato in ampio ripostiglio. Ricordo bene anche qualche regalo: un orologio da polso, una macchina fotografica, un atlante, un paio di penne e fors'anche un mappamondo. Anche Giacomo ha ricevuto dei doni: un sacco a pelo, un pallone, una tenda che si monta in un minuto (è per ripiegarla che occorre mezz'ora almeno), una maglietta, un borsone, un buono per il percorso sugli alberi di Civenna e - meraviglia delle meraviglie - un telescopio. Ad ogni pacchetto che ha aperto non si è scomposto, come nel suo stile, limitandosi a sorridere e ringraziare. Lui è fatto così, basti pensare che per un mese intero aveva risposto: "Niente" alla classica domanda: "Cosa ti piacerebbe ricevere?", salvo uno scatto di vitalità il penultimo giorno, quando ha innescato la marcia del decisionismo e a tutti coloro che insistevano replicava in automatico: "Vorrei l'abbonamento a Sky Calcio e così sarei a posto". Chissà cosa si ricorderà, fra trent'anni, di questo giorno. Chissà se capiterà anche a lui di guardarsi allo specchio e non riconoscere quasi il bambino ch'è stato, come quasi non riconosco il bambino che sono stato io. Ci pensavo prima, mentre mettevo il pigiama e nello specchio mi sono visto a dorso nudo, con i peli sul petto, e pochi capelli, tagliati corti corti. Per vent'anni sono stato convinto che sarei rimasto glabro, sul petto, come mio padre e come mio bisnonno, che avevano anche gambe lisce. E per vent'anni i capelli sono stati un tormento, perché quando li lavavo diventavano un batuffolo e pettinarli una "mission impossible". Le ho provate tutte: riga a destra, riga a sinistra, riga al centro, sul davanti, all'indietro, ma non mi sono mai piaciuto, poi arrivò l'epoca del gel e mi schiuse un mondo. E poi da bambino ero integerrimo. Lo ricordavo a Giorgia questa mattina: io per i primi venti cinque anni della mia vita, ogni santa sera ho mangiato latte e biscotti. Niente pasta, pastina, minestre o un altro primo piatto: cascasse il mondo, in tavola volevo la mia scodella di latte caldo, con un goccio di caffè e un mezzo pacchetto di biscotti del Mulino Bianco (le Campagnole erano le mie favorite, ma anche i Galletti, e prima c'erano i Gran Colussi e altre marche di cui mi sono dimenticato). E per trent'anni ho mangiato la pizza Margherita. Solo la Margherita, null'altro. Ecco, è quello il bambino che non ricordo quasi più di essere stato, quello che odiava il grasso del prosciutto e per vent'anni l'unico affettato era il salame. Sarà per quello che ora il salame lo mangio soltanto un paio di volte all'anno e il latte non lo bevo neppure al mattino. Perciò non sorrido troppo quando scorgo un pregio di Giacomo, né piango per un suo difetto. Noi siamo il frutto di ciò che abbiamo seminato, ma negli anni cambiamo molto, spesso in meglio, talvolta in peggio. E anche se vorrei poter guardare nel futuro, magari sbirciando con il telescopio che è appena stato regalato, l'unica opzione è quella di attendere, immaginando che quando sarò vecchio magari stenterò a riconoscere il Giorgio che sono adesso. Non dimenticherò invece che è stato un bel giorno questo, quello in cui ha fatto la cresima Giacomo.
Foto by Leonora

La fine dell'impero

La fine dell'impero. Parole grosse e piccole bugie

Emilio Frigerio, che occupa la scrivania di fronte alla nostra e che di amministrazione cittadina ne sa ben più di noi, lo aveva detto con largo anticipo. «Sembrano scene da fine impero» erano state le sue esatte parole, a commentare quanto stava avvenendo. Noi lo avevamo sentito ma non ascoltato, un po' supponenti e convinti che non era vero, che fosse tutto normale, che questa classe politica reagisse con l'indifferenza con cui ha digerito, in questi anni, più o meno tutto. Ci sbagliavamo ed Emilio aveva ragione. La conferma sono le parole a ruota libera ? insulti, sarebbe meglio definirli ? che ieri hanno costellato la giornata politica e di cui puntuale resoconto trovate negli articoli di questa pagina. Oggi potremmo stare qui, vanga e badile, a commentare quelle frasi a una a una, a soffermarci sul significato di espressioni quali «regolamento di conti» o «sindaco più rimpastato d'Italia». Se non lo facciamo è perché conosciamo chi ci legge e sappiamo che le somme le ha già tirate da sé. Piuttosto, lanciamo un appello ai protagonisti dell'attuale maggioranza, a tutti ma proprio tutti i componenti di quello schieramento Lega e Pdl che sei comaschi su dieci hanno votato (più un altro paio, che lo avrebbe forse fatto se non fosse stanco di turarsi il naso): c'è qualcosa di peggio che vedersi sfuggire il potere: perdere la decenza. Se qualcosa avete da dirvi, fatelo in una stanza, chiudendo porte e finestre e regolando i vostri conti come si fa tra uomini di tempra. E quando ve lo sarete detto, coglietene le conseguenze e comportatevi come i vostri padri avrebbero fatto, smettendola di mettere in scena ogni giorno un teatrino sterile, oltre che indegno. Ve lo chiediamo senza salire su alcun piedistallo, consci che anche noi siamo peggiori dei nostri padri, ma senza dimenticare ogni giorno che quello è il modello.Da ultimo, una parola su Stefano Bruni. Ieri l'altro, a Etv, ha riferito che Caradonna avrebbe detto di «badare ai muri di casa propria» a un giornalista (Pietro Berra) che credeva amico, senza sapere d'essere intervistato. Il sindaco ha detto una bugia. Eravamo noi di fronte a quel giornalista e a Caradonna, a cui si chiedeva ufficialmente una spiegazione sulla segnalazione che esistesse un muro, è stato chiesto persino se era sicuro di rispondere a quel modo. Ogni commento è superfluo.
La Provincia, o1.10.09

venerdì 2 ottobre 2009

Più ce n'è, meglio è


In questi giorni scrivo molto sul giornale, meno qui, in questa sorta di portolano ch'è diventato il blog, a cui sono affezionato poiché è la smentita concreta, tangibile, alla mia pigrizia. Domani è prevista in tutta Italia la manifestazione a sostegno della libertà di stampa. Ne chiacchierano molti, spesso a sproposito. Stamani, alla radio, ho sentito Enrico Mentana, che spiegava come la libertà non é in pericolo, che non contano gli editori, bensì giornalisti disposti a non piegare la schiena. Mi ha fatto sorridere. Avrei voluto vedere Mentana lavorare mezza giornata a Espansione Tv (e lo dico non per denigrare Etv, a cui rimango grato, ma per indicare una testata piccola, dove il padrone è padrone), lo avrei voluto vedere non in cima alla catena alimentare dell'informazione, ma nel sottobosco, senza diritti, senza tutela, con pochi soldi. Io sono dell'opinione opposta a Mentana: la libertà è nelle mani degli editori e l'unica forma di tutela è la pluralità degli editori stessi (e lo sostengo da un pulpito fortunato, lavorando per un editore che avendo sede a Bergamo e pochissimi, se non nulli interessi a Como, consente una serenità che probabilmente poche altre testate in Italia hanno).

Pluralità degli editori, pluralità degli organi d'informazione. Recentemente L'Ordine ha compiuto un anno di vita. Ne sono contento e non soltanto perché ci lavora il mio amico Mauro, così come sono soddisfatto che esista e resista il Corriere di Como. Come ho scritto qualche mese fa, considero la presenza di tre quotidiani un'eccellenza per la nostra città e parimenti un bene reciproco, poiché il confronto spinge, costringe addirittura al miglioramento e la competizione è la massima forma di collaborazione. Qualche sera fa, invitato ad una cena del periodico lariano di architettura "Tale&a", mi ha fatto piacere parlare con Sergio Pozzi, ingegnere e imprenditore, che mi ha raccontato di aver acquistato un enorme appezzamento di terra in Piemonte, con l'intenzione di costruire un campo da golf. Il fatto è che nelle vicinanze c'è un altro campo da golf, rinomatissimo, e Pozzi sospettava che l'accoglienza verso i nuovi arrivati fosse fredda, nella migliore delle ipotesi, o addirittura negativa, stizzita. E' capitato l'esatto contrario: i gestori del famoso campo da golf sono stati addirittura entusiasti ed il motivo sono stati loro stessi a spiegarlo: i turisti appassionati di questo sport cercano zone dove nel raggio di pochi chilometri esistono diversi campi, così da potersi cimentare su diversi "green". Per i giornali a mio parere vale lo stesso: la tattica vorrebbe che ci fosse meno concorrenza possibile, così da non disperdere lettori e soprattutto pubblicità, ma una visione strategica non può che valutare con favore la presenza di più testate, che come dicevo, costringe ognuno ad innalzare il proprio standard di qualità e, ampliando la fascia di lettori, crea un bacino assai più ricco, vivace. Oltre che un'opportunità di libertà in più.
Foto by Leonora