sabato 25 aprile 2015

Attenti agli squali (ma nuotate)

Foto by Leonora
Sono una persona normale, a volte mi sveglio di buonumore, altre mattine ho come un peso sul cuore, una sensazione di inadeguatezza, in certi casi di insoddisfazione. Mi aggrappo a ciò che ho, per prima all'ostinazione della positività, alla consapevolezza che serenità chiede serenità, per cui meglio guardare al mezzo pieno del bicchiere.
Sono una persona normale, con molti difetti, tra cui una dose abbondante di egoismo, un'attenzione a non farsi troppo coinvolgere dalle emozioni, una ricerca di tranquillità più forte dei dubbi esistenziali. E quando proprio proprio certi accadimenti costringono a fermarmi, a pensare, cerco di riportare tutto nei binari del possibile, senza vaneggiare di poter cambiare il mondo, se non con i piccoli gesti.
Sono una persona normale, mi sta a cuore soprattutto la felicità dei più vicini, a cominciare da me stesso, dai miei figli. Ecco perché la sensazione più desolante è volerli proteggere dalle sconfitte, dalle delusioni, dai fallimenti, senza riuscirci.
Eppure è proprio non riuscendoci, non mettendoli eccessivamente al riparo, che li si fa crescere forti, robusti, per cui un giorno sì e l'altro pure combatto tra il desiderio di far loro da scudo e la volontà di spingerli dal trampolino, in un tira e molla interiore spesso logorante.
Prendiamo Giacomo. Grande e grosso più di me, si capisce che sta maturando dentro, anche perché il sorriso gli nasce meno spontaneo di un tempo, la vita lo sta plasmando e non è propriamente un massaggio benefico, assomigliando in qualche caso più a un rullo compressore che lo schiaccia, a un vento che lo scuote. La tentazione è di farlo tornare bambino, di poterlo stringere tra le braccia e insieme sollevarlo, da terra e anche dalle frustrazioni. Abbandono l'idea con rammarico, sapendo che il suo è un passaggio obbligato e per quanto possa essere attento, efficiente, presente, dovrà sempre più cavarsela da solo, perché soltanto così un giorno farà a meno di me, come io ho continuato nonostante l'assenza di mio padre.

venerdì 24 aprile 2015

Paracadutiamo scrittori (contro l'indifferenza, al di là dei giudizi)

Foto by Leonora
Raccontare storie è un modo per saltare le barriere che ciascuno costruisce attorno a sé, inviando un messaggio.
Perciò ammiro gli scrittori, coloro che non si arrendono alla banalità del giudizio affrettato, al mondo spaccato in due come un guscio di noce, o di qua o di là, giusto o sbagliato.
Raccontare storie, immaginare un volto, un nome, un'età, è la mia difesa personale dall'egoismo, per non cedere alla tentazione di svicolare dalla realtà, di ritirarmi nel privato, visto che tutto ciò che è pubblico viene attaccato, sminuzzato, aggredito, digerito in quattro e quattr'otto, senza possibilità di valutare serenamente ragione e torto.
In questi giorni di barche rovesciate in mezzo al mare ho ceduto spesso alla tentazione di staccare la spina, di lobotomizzarmi, di non farmi coinvolgere, di pensare ad altro. Non è stato difficile, perché sono morti che è facile ignorare, con l'acqua che li inghiotte e ce li toglie dalla vista, lontano dal cuore. Le notizie che arrivano dal fronte enfatizzano i numeri, di per sé spaventosi, ma che non fanno spavento, essendo le cifre aride, a differenza delle storie appunto.
Succede anche per le guerre, vicine e lontane. Ricordo quando ero obiettore di coscienza e prestavo servizio civile alla Caritas: proponevamo un esercizio nelle scuole, indicando il numero di vittime a causa di un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, chiedendo ai ragazzi di ritagliare tanti quadratini quanti uomini e donne e bambini erano stati uccisi. Ore e ore con le forbici, interi pavimenti ricoperte di striscioline bianche. Mi accorgo ora che avremmo dovuto fare di più, avremmo dovuto scrivere su ognuno di essi un nome, incollarci una fotografia, di nostro padre, nostra madre, fratelli, cugini, amici di casa e gli amici degli amici, i compagni di scuola, conoscenti vari...
Possiamo pensarla come ci pare, rimanere con le braccia aperte e accoglienti (pur se quelle braccia sarebbero molte meno se la scelta consistesse nell'ospitarli nelle nostre case) oppure tenerle incrociate, considerandoli in qualche modo invasori (ma invasori di una disarmata Brancaleone, che va al macello senza colpo ferire). Di sicuro non resteremmo indifferenti se conoscessimo di ognuno i lineamenti, il ventre che li ha partoriti, riconoscendo loro l'essenza e la dignità di esseri umani, identici a noi, pur se con la pelle più scura o nati in un altro continente.
Ecco perché insieme ai soccorritori e ai militari in quel lembo di mare invierei gli scrittori: per raccontare le storie di vivi e di morti, rendendo quegli avvenimenti meno lontani, più umani.
P.S. Grazie a Enzo Gianmaria Napolillo, che ha avuto la gentilezza di inviarmi il suo secondo romanzo ("Le tartarughe tornano sempre", Feltrinelli) facendomi riflettere sul valore civile della scrittura.

mercoledì 15 aprile 2015

Ségnas (mia mamma)

Foto by Leonora
Ségnas. Lo dice mia madre, ogni volta che esco in macchina per mettermi in viaggio, specialmente se lungo (e lungo, per lei, è anche andare a Milano, Bergamo, Monza...).
"Ségnas". Segnati. Fatti il segno della croce.
E io lo faccio, magari non subito, perché con lei resto bambino pure se sono vicino ai cinquant'anni ed è da quando ne avevo quattordici che marco così la mia indipendenza: accontentandola, ma svoltato l'angolo.
"Ségnas" è la fede che mi è stata trasmessa, identica la radice, diversa invece nella modalità con cui si declina rispetto ai miei genitori. "Ségnas" è la premura per la mia salute, fisica e mentale. "Ségnas" è il testimone di una staffetta di cui sento di essere parte, forse epilogo sul filo di lana, forse invece semplicemente testimone a mia volta. "Ségnas" è ricordarmi che appartengo a qualcosa di infinitamente più grande e che non ho il potere di dominare, potendomi soltanto affidare. "Ségnas" è un gesto di superstizione e insieme un fare mente locale, un invito a concentrarsi e a mettersi il cuore in pace, accada quel che accada.
"Ségnas" è forse la parola che mi mancherà di più, insieme a "te vòri ben", ti voglio bene, quando non sarà più in grado di dirla. Ogni tanto ci penso, ringraziando il cielo che sulla soglia dei suoi settantacinque anni abbia dieci acciacchi ma nessun malanno grave, augurandomi perciò che rimanga con noi altri decenni.
Ad essere onesto, in queste settimane provo per lei una tenerezza che fino a qualche mese fa ignoravo, forse perché sono più lontano da casa, forse perché comincio a vivere l'età in cui la nostalgia per il tempo passato ha raggio più ampio della visione dei giorni che ho davanti. Anche per questo quando mi dice "ségnas" sorrido dentro e sento di volerla abbracciare, considerandola mamma e non soltanto madre.

sabato 4 aprile 2015

Trent'anni di Espansione Tv (riconoscibili e riconoscenti)

Foto by Leonora
"La differenza tra l'uomo e il cane è che il cane non azzanna mai la mano di chi gli ha dato da mangiare". Lo ha scritto Oscar Wilde ed è una mia stella polare, oltre che la sintesi di un valore a cui tengo molto: la riconoscenza.
L'altra sera, mercoledì, ho visto insieme con Giovanni e Giacomo lo speciale sui trent'anni di Espansione Tv. Due ore e passa di programma che mi hanno divertito e in certi casi commosso, facendomi rivedere com'ero e com'erano tante persone, amici, che per oltre un decennio mi sono state fianco a fianco, condividendo un tratto di vita.
Sono grato a Espansione Tv, senza la quale non sarei ciò che sono. Al netto del percorso ho imparato moltissimo, a cominciare dall'attenzione alla qualità, dall'aspirare al meglio, senza curarsi dei mezzi che si hanno. Un orizzonte che mi è chiaro, specialmente adesso, che sono tornato in tv, a Bergamo, in una struttura ancor più grande e professionale, in cui capisco quanto mi è utile il cammino che ho fatto (a proposito di Espansione Tv, dopo aver lavorato in altre realtà mi sono reso conto di che potenzialità poteva avere, se invece di concentrarsi soltanto sulle frequenze e sul "non disturbare gli amici" la proprietà avesse creduto nei contenuti, nel prodotto, ma questo è un altro discorso e non vuole essere una critica, trattandosi di scelte e facendo ciascuno come meglio crede per sé e per la propria società).
Sono grato a Espansione Tv, anche per le volte in cui l'altra sera sono stato citato e mostrato, anche se di contro mi sono sentito un po' in colpa per tutte le persone che per un motivo o per l'altro non hanno avuto altrettanto spazio, vuoi perché mancava l'occasione, vuoi per scelta, vuoi perché in due ore di programma non si può sintetizzare tutto. Penso a chi è andato in video e anche a chi è rimasto al di qua dello schermo, cameramen, tecnici, impiegati, segretarie, pubblicitari... Mi vengono in mente nomi in ordine sparso (Alvin, Filippo Franchino, Emilio Arnone, Bettina, Alessandra, Gino Gorno, Valentina Bigai, Annalisa Corti, Miriam, Marco Migliavada, senza contare Paola, Antonietta, Debora Lillia, Federica e altri cento potrei elencarne se soltanti avessi buona memoria o più tempo e avessi qui accanto Mauro Maggi, che in queste cose è più avanti di me un bel pezzo). L'altra sera, mentre mi rivedevo in video, pensavo anche a loro, a quelli che ci sono stati prima di me e a quelli che mi hanno seguito, compresi gli attuali - Andrea, Michela, Alessandra.. - e quelli che verranno ancora dopo. Il bello di una tv è che è come la scuola: si rinnova sempre, anche se poi resto affezionato a quelli della mia generazione, ai compagni di banco... Per quanto mi riguarda, gli anni più belli li ho passati al tg, con la redazione di cui sono più orgoglioso, composta da Marina Moretti, Marco Romualdi, Mauro Migliavada, Benedetta Lodolini e poi Manuela Brancatisano. Che squadra eravamo... Che squadra siamo ancora, una volta all'anno, quando ci troviamo da Marina, a mangiare insieme. Con loro ho vissuto momenti indimenticabili e se devo scegliere un episodio che più di altri dà l'idea di quanto speciali fossimo prendo spunto dal gesto di Mauro Migliavada, che quando vinse il premio cronista dell'anno per aver intervistato l'autore della strage di Erba, Olindo Romano, invece di tenere i soldi per sé, come chiunque avrebbe fatto, decise di dividerli, con noi, "perché siamo una squadra" disse. Non l'ho mai dimenticato e gli sono riconoscente, ancora adesso.