lunedì 25 giugno 2018

Lo so (Chi chiude la porta è perduto)


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Sì, lo so. Lo so che tra noi sei colui che più ci va di mezzo, che devi subire le conseguenze più forti, che non sei abbastanza piccolo da poterti lamentare né abbastanza grande da non farci caso. Lo so che è così e che sei incavolato per questo, e anche preoccupato, di perdere i tuoi spazi, la tua autonomia, forse anche un pezzetto del nostro bene o delle nostre attenzioni.
Lo so, perché per me sarebbe lo stesso. Per me è lo stesso, anzi. Provo infatti anch’io preoccupazione e dispiacere e irritazione persino, sapendo che parte del mio tempo libero non sarà più tanto libero, che l’apprensione avuta per voi tre “piccoli” tornerà attuale e non sarà più soltanto un ricordo passato, che dovrò dividere i miei spazi, cambiare alcune abitudini, tornare a barattare un po’ di intimità, dedicare a qualcun altro parte delle energie che pensavo di poter riservare per me stesso o al massimo a voi tre.
Non basta. Ho paura soprattutto. Paura di non essere un bravo adulto, un buon modello di riferimento per il nostro ospite. Più di ogni altra cosa però ho paura di rovinare il rapporto con voi, soprattutto ho paura di “perdere” l’equilibrio famigliare per aver voluto aggiungere un nuovo tassello, per aver fatto una scelta che come tutto questo tipo di scelte - avendo a che fare con l’umano - è sempre un salto nel buio.
Capisco il tuo disagio, la tua irritazione, il tuo fastidio. Lo capisco perché - ripeto - alla radice non è differente da quello che al tuo posto proverei io.
Capisco tutto questo, tuttavia è altrettanto vero che lo rifarei, anche se potessi tornare indietro.
E non lo farei per K., che magari in un’altra famiglia sarebbe stato meglio che da noi.
No. Lo rifarei per noi, per me. Lo rifarei perché so, perché mi è stato insegnato dal nonno e dalla nonna per primi, con l’esempio, che non si può ottenere la felicità chiudendo il recinto, non si può preferire la tranquillità, il mondo perfetto, chiudendo la porta a chi è più sfortunato di noi, a chi ha avuto meno. Non si può, non è giusto, crearsi la propria scialuppa super confortevole ed evitare di aprirsi al destino, a ciò che di misterioso riserva il nostro cammino nel mondo.
Abbiamo avuto molto dalla vita, caro Giovanni, abbiamo il dovere di dividerlo, perché soltanto “dividendo” il bene viene moltiplicato.
E lo scrivo a te, senza giri di parole, perché sei al mondo la persona che più mi assomiglia, perché ti voglio un bene sconfinato, incommensurabile, perché non smetterai mai - mai!!! - di essere il mio cucciolo, il mio piccolino, ma anche perché so di poterti parlare con sincerità, senza veli, come a un adulto.
Perdonami perciò se ti stiamo facendo provare dispiacere in questi giorni e aiutaci a starti vicino, come prima, più di prima.
Con te ho un rapporto unico e mi piaci così come sei, con i tuoi pregi e i tuoi difetti, come difetti (molti) e pregi (qualcuno) ho io.
Ti abbraccio fortissimo e non vedo l’ora di farlo di persona,
Tuo Padre

giovedì 14 giugno 2018

Diventare grandi (La stagione di Zaccaria)

Sulla battigia, a due metri dalle onde placide del mare, un bimbo siede gaudente con gli occhi fissi sulle mani minuscole, sporche di sabbia. Attorno a lui, disposti a semicerchio, in piedi, sei anziani, simili a colonne, che lo osservano silenti e compiaciuti, novelli Zaccaria che contemplano quello che per loro pare insieme Gesù Bambino e Giovanni Battista.
Appena incontrati non vi ho fatto caso, se non distrattamente. L'immagine però mi è rimasta impressa e per giorni e giorni l'ho ruminata, inconsciamente, finché ieri l'altro, di mattina, chiacchierando con Paolo e Beppe si è accesa la luce, una lampadina.
Fino a sessant'anni fa si partiva in tanti e alla vecchiaia giungevano pochi. La nostra società era zeppa di infanti, di giovani e con pochi anziani, che non a caso venivano messi al centro dell'attenzione, oltre che della tavola.
Ora è il contrario: la clessidra si è capovolta, si campa a lungo, ma le nascite sono merce rara ed è naturale che i pochi bambini siano posti su un piedistallo, soggetti di mille premure e coccolati, riveriti, venerati, mantenuti idealmente nella culla anche quando hanno gambe e braccia forti per conquistare il mondo e non soltanto per fare merenda.
Non basta. Pure la fascia di mezzo, che è poi la mia, paga dazio a questo cambiamento.
A illuminarmi, questa volta, è stata Ambra, con le parole commoventi con cui oggi ha salutato per sempre la sua mamma. "Attraverso questo dolore siamo più grandi" ha detto. È vero. L'ho provato sulla mia pelle e ne resto convinto: si diventa adulti passando per la sofferenza, per la malattia, per la morte di chi ci ha generato, partorito e cresciuto, chiunque esso sia.


P.S. Che poi, a pensarci bene, è una lezione ricevuta mille volte, proprio da bambino, ma a cui ho fatto sempre poco caso, non riuscendo appieno a comprenderla. Accadeva quando mi sbucciavo un ginocchio o facevo un capitombolo e mi mettevo a piangere, disperato, venendo consolato da un abbraccio, da un bacio e dall'immancabile frase: "Dai, che sei diventato più grande". Grande, non alto, come invece fraintendevo perplesso allora. "Più grande". Più saggio, più adulto. Migliore insomma, anche se meno innocente, e a volte più triste, di prima.