domenica 30 agosto 2020

Il cucciolo in giardino (Finché c'è vita...)


Giulio ha un giardino che è un incanto e non esagero, so quello che scrivo.
Giulio è il mio vicino di casa, anche se da un paio d’anni non mi rivolge parola, questo però è un altro discorso e comunque è colpa mia, che per una banalità non mi sono cucito la bocca e ho detto ciò che potevo risparmiarmi, dimenticando che il buon senso trova strada da sé, mentre se s'accompagna al risentimento può condurre alla meta, ma a un costo troppo alto.
Questo però è un altro discorso, dicevo, poiché a Giulio continuo a volere bene, al netto delle asprezze di un carattere che sa anche lui di avere, così come io ho il mio, prendendo il buono dei molti ricordi insieme, quand'ero ragazzo, di situazioni che - per adesione o per contrasto - hanno contribuito a formare parte dell’uomo che sono.
Giulio si prende cura delle piante e del prato con dedizione certosina. Non c’è giorno in cui non se ne occupi, stando pure a lungo a contemplarlo, seduto in veranda, con la meticolosa pazienza dei suoi settantanove anni compiuti una settimana or sono e di un tempo che soltanto visto da fuori non passa, scorre lento.
Il mio, invece, è un prato brado, soggetto agli umori del meteo, smeraldo quando piove a lungo, a chiazze paglierine se invece si susseguono settimane di secco.
Quattro anni fa, quando arrivò a casa nostra Larry, portandosi appresso tutta la scatenata esuberanza dei setter, ricordo lo sguardo perplesso di Giulio osservando proprio il mio prato, messo a dura prova dal cucciolo.
Era una sera, del mese di maggio, e il prete aveva proposto la recita del Rosario ogni giorno in un caseggiato diverso, chiedendo disponibilità anche a Isabella e c’erano un sacco di persone e tra esse proprio Giulio, che andandosene accanto a Piera, sua moglie, scuoteva la testa, osservando le buche e le chiazze nel manto erboso.
Cambio di scena.
Quest'anno, una manciata di giorni fa..
Giulio è seduto al solito posto, nel patio di casa, ma in mezzo al prato immacolato ci sono due bimbe accovacciate, le sue nipoti Emma e Sofia, e a due metri da loro una palla di pelo che è una meraviglia, una cucciola di meticcio, che si rotola, sfugge, s'accovaccia, guaisce, trotta, si mette infine a pancia in su, come a chiedere un grattino.
Sento la voce un po’ rauca di Giulio che parla affettuoso con le nipotine.
Non ne vedo il volto, ma sono certo sorrida, divertito.
È un bel quadretto, che fa sorridere a mia volta, ricordandomi il motivo per cui i giovani - i bimbi e i ragazzi in particolare, non importa se propri o altrui - sono così utili, fondamentali per la nostra sopravvivenza: ci costringono in un modo o nell'altro a cambiare, non permettono che ci fermiamo, rompono gli schemi e alla fine migliorano la vita, il mondo.

P.S. Giulio ha da anni una malattia che è giogo pesante, senza impedirgli tuttavia di stare accanto alle persone care, di dare una mano, di accudire se stesso e i mille e passa metri di giardino con la grande abitazione nel mezzo, di gioire delle cose buone e rammaricarsi per quelle grame.
La sua è una di quelle malattie da cui credo non ci guarisca, ma che si cura. Quando la scoprì, vent'anni fa, non c’era alcuna certezza su come sarebbe andata e rammento nitidamente in quei giorni il dispiacere di mio padre e di mio zio Gianni (proprio ieri l'altro è spuntata dal cassetto la fotografia che riporta a quell'esatto momento: stavamo sistemando della mia casa il tetto).
Poi, nel volgere di tre anni, per una di quelle capriole di cui è prodigo il destino, mio zio e mio padre si sono anch'essi malati, d’un male però più ostinato, che non ha lasciato loro vie di fuga, spezzandoli uno dopo l’altro via, mentre Giulio - pur con i suoi acciacchi - è ancora qua.
Ed è una presenza che mi allieta, di cui sono intimamente grato, poiché è un esempio per non darsi sconfitti, per tenere duro, per vedere una speranza dove sembrerebbe esserci soltanto timore, incertezza, sipario.
Lo dico per ciascuno che passa da qui, ma in particolare per uno dei tre sopravvissuti della fotografia di cui poco sopra tra parentesi ho scritto, mio coetaneo e nella sostanza fratello, che di tener duro in quest'anno bislacco ha più di tutti bisogno.

venerdì 28 agosto 2020

Un passo dopo l'altro (Risalgo)


Mi sei stato collega, abbiamo lavorato insieme, pur se tu superiore di grado, in una stagione in cui la differenza di generazione impediva di colmare il divario del ruolo.
Ti ho rivisto ieri, che camminavi in centro, il volto scavato, a braccetto di tua moglie, uno sguardo spaurito, prima ancora che perso.
Ho stentato a riconoscerti e quell'istante è bastato affinché le nostre strade non ci incrociassero, lasciandomi un senso di colpa, per quell'esitazione di troppo, che nella coscienza ha retrogusto d'un gesto vigliacco.
Eppure da allora mi sei stato accanto e ti porto con me anche ora, che è passato qualche giorno. L’immagine tua è nel contempo eco e riflesso di sentimenti che di tanto in tanto mi rincorrono (pur se io sono quasi sempre più lesto e rifuggo): la caducità del mondo, il tempo che scorre inesorabile, l’idea che un giorno non lontano potrei essere io quell'uomo, quell'occhio vuoto, quel volto smarrito.
È forse per questo che nel tempo attuale scrivo così spesso. Uso le parole come ago e filo, per ricucire strappi che raramente si vedono e che io stesso tendo a minimizzare, tirando dritto, sentendomi funambolo in cima a una piramide di sedie, con sotto i piedi un appoggio apparentemente solido, ma che avverto incerto, precario, che basta un refolo di vento imprevisto - un problema serio, un colpo di sfortuna - per far precipitare, per farmi sentire di fronte al dolore, alla sofferenza, com'è da millenni l'essere umano: fragile, nudo.

P.S. "Abbiamo spalle più larghe di quanto immaginiamo". L'ho sentito ripetere cento volte da Paolo e me ne sono convinto anch'io. Spesso l'incertezza o l'ipotesi di qualcosa di pessimo genera più spavento di quanto poi avvenga in concreto, quando il brutto arriva davvero e bene o male in quel vortice occorre nuotare, cercare di mettersi in salvo, senza badare ai fronzoli, facendo leva su quell'istinto di sopravvivenza che - non per caso - da milioni di anni a carezze o pedate ci fa andare avanti invece che indietro.
Un pensiero speciale, in questo senso, va all'amica Francesca, a cui il destino ha risparmiato poco, senza tuttavia mai cancellare il tratto suo inconfondibile: il sorriso. Un sorriso contagioso, che viene dal cuore, che dimostra quanto profondo è il pozzo di risorse che abbiamo, attingendo speranza e dolcezza e bontà pure nei momenti in cui logica vorrebbe soltanto che si maledisse il cielo.
Francesca fin dal primo palpito di vita non ha avuto nulla in saldo, perdendo poi presto la mamma e questa settimana pure il papà, una tra le persone più distinte e miti che abbia conosciuto.
"Vedi quelle scale? Ora mi rigiro e un passo dopo l'altro, risalgo. Sarà difficilissimo ma le sfide, così come la morte, fanno parte della vita" ha scritto Francesca, per salutarlo.
Parole che valgono poesia, parole di cui lascio traccia qui, prendendole a prestito, perché di così "vere" ne ho lette di rado.

sabato 22 agosto 2020

Ho molto taciuto (Sbagliando)

Viviamo attimi intrecciati come un canestro di vimini: a guardarli da lontano sembrano un tutt'uno, da vicino invece si notano giunture, spazi, fessure, intagli, rammendi.
Osservo con questo spirito le migliaia di immagini pubblicate in questi giorni da amici e conoscenti e persino da sconosciuti nei più disparati luoghi di vacanza.
Me ne curo poco, guardo e passo, senza invidia o, peggio, astio.
Propenso per natura a godere delle gioie altrui e sapendo che in ogni caso, come ho scritto all'inizio, non tutto è oro ciò che luccica, sono sinceramente contento per chi è in villeggiatura, per chi gusta appieno il proprio tempo e anche per chi bleffa, trovando in quel bluff la sua coperta di Linus.
Per quanto mi riguarda evito di mettere eccessivamente in piazza i momenti lieti, un po' perché non sono memorabili, un po' per una sorta di pudore iniettatomi nelle vene fin da piccino, quando il riposo e ancor più la vacanza erano un lusso imparentato stretto alla colpa, visto che il pane si guadagna col lavoro e ogni giorno senza fatica era considerato una sorta di mangiare a ufo.
Astenersi, non ostentare, passare inosservati, evitare di proferire verbo. Ottimi modi per farsi voler bene da tutti, per scansare critiche, per non collezionare maldicenze a grappolo.
Come ricordava Franca Valeri poco prima di lasciare questo mondo, dall'alto dei suoi cent'anni appena compiuti: "Io sono molto benvoluta e mi chiedo il perché, se me lo merito. Poi, riflettendo, qualcosa ho fatto: ho taciuto molto. Non è poco".
Una verità assoluta, che tuttavia non preclude la possibilità di stimare chi invece rema contro, chi ogni giorno si schiera, prende posizione, rompe l'omertà, indossa una casacca, persegue qualcosa in cui crede, si ribella alla condizione di eunuco.
Lo scrivo per chi la pensa come me e per quanti mi sono distanti anni luce, per coloro che espongono le loro tesi col fioretto e per chi usa clava e megafono, per chi credo abbia ragione e ancor più per chi ha torto marcio.

P.S. Ci ho girato attorno, avrei potuto mettere un nome fin dall'inizio: Marco.
Marco Migliavada, il mio amico Marco, con cui sono d'accordo sul nocciolo di tutto ciò che nella vita conta davvero, anche se lui ha una capacità non comune di mettere ovunque i distinguo.
Marco ha deciso di proporsi come consigliere comunale del proprio paese, Casnate con Bernate, in provincia di Como.
Di Marco so che è il politico meno bravo del mondo, se per politico si intende colui che dà ragione a tutti, che mette al primo posto il consenso, che trova su ogni scelta un compromesso, ma se dovessi affidare vita e portafoglio a una persona scrupolosa, limpida, capace di mediazione e intellettualmente onesta, su lui punterei senza batter ciglio.
Non so come andrà a finire alle elezioni di metà settembre, però di una cosa sono grato a lui e a tutti gli altri che si candidano, a prescindere dallo schieramento: di metterci la faccia, di non aver "taciuto", espiando le molte, troppe volte in cui avrei potuto farlo e non l'ho fatto io.

giovedì 20 agosto 2020

A spalle dritte (La differenza in una goccia)

Le spalle dritte. Ricorda di tenerle sempre, non soltanto per il motivo che così sei ancora più bella, bensì poiché esse sono il segno di chi indossa orgogliosa la propria essenza, la propria originalità e inviolabilità di essere umano, prima ancora che di donna.
Anche se, a dire il vero, non è dalle spalle dritte che si nota la tua fierezza, la personalità forte, unica.
Quella infatti si distingue dallo sguardo, da come osservi l’altro quando sei interessata, curiosa, e ancor più nell'istante in cui ti salta la mosca al naso e ti arrabbi, sale in te una furia.
Uno sguardo che pare il crogiolo di una fucina, tant'è bollente, eppure nello stesso tempo raggela.
Occhi duri, rivestiti come d’una patina, un misto di durezza, superiorità e indifferenza.
Per fortuna li ho incrociati di rado e mai a lungo, non più di un paio d’attimi, prima che la volontà rimettesse le briglie all'istinto e tornassi ad essere la persona comprensiva e buona che sei, che conosco, che stimo, che ogni giorno riesce a farmi breccia.
Quel lampo è gemello in ogni donna, almeno di quelle che ho conosciuto io - chi poco chi tanto, chi per sangue chi per scelta, chi per una vita chi per pochi mesi chi per una sera, chi sorella madre moglie amica complice compagna - e, pur se lo temo, lo considero una fortuna, poiché mi mette in guardia, mi avvisa, mentre l’eccesso di bontà, la sottomissione, l’arrendevolezza, rischierebbero di far ignorare il limite, come quando cade troppa neve e non si distingue più qual è la pista, la strada.
Non è una giustificazione, semmai un aggravante per chi sbaglia, e insieme un invito a non lasciare margine, a non accettare nemmeno il principio di una pena per quanti si trovano sul lato debole della barricata.
In giorni in cui la cronaca riporta nuovi delitti, altre prevaricazioni del più forte sul debole, mi vengono in mente le tue spalle dritte e sento sulle mie il peso di non fare abbastanza, di non mettere a dimora a sufficienza il seme del rispetto, della non violenza, dell’accettazione delle decisioni altrui, della tolleranza.
Per questo ho scritto questo post, affinché chi si ritiene debole trovi forza e chi sospetta o intuisce qualcosa che non va abbia il coraggio di non voltare dall'altra parte la faccia.

P.S. Queste parole arruffate sono una goccia nel mare, ne sono consapevole. Però il mare ha questo di bello, di grande: è fatto da ogni singola goccia.

domenica 16 agosto 2020

Ciciù (Andare oltre, l'apparenza)

Ci scriviamo di rado, ma raramente passa giorno in cui non ricordi l'ultima e unica volta che ci siamo visti di persona, uno di fronte all'altra, al tavolino di un bar, quando ancora non c'era obbligo di mascherina.
Un momento, in particolare, oltre le chiacchiere, le risate, le reciproche confidenze: l'istante in cui mi hai raccontato di quand'eri ragazzina e il corpo non era quello che ti ritrovi ora.
"Ciciù". Così ti chiamavano, con quel sarcasmo graffiante che diventa umiliazione e ti marchia a fuoco, per tutta la vita, pure quando le forme cambiano e tu puoi prenderti una rivincita.
"Ciciù". Cicciona. Per le guance piene, le rotondità in evidenza, i movimenti goffi dell'adolescenza.
Guardavo te, pensavo alle ragazzine e alle donne di oggi, ma pure agli uomini - che in questo caso la parità di (mal)trattamento è garantita - a come passano gli anni e identica rimane la facilità di ferire, il giudizio legato all'apparenza, a come pure io contribuisca al ripetersi di un modello di estetica, di perfezione patinata, incapace di andare un passo più in là, di badare all'essenza.
Vorrei dire che ora sei splendida, ma commetterei un nuovo torto.
Splendida infatti lo eri anche allora, pure se ti prendevano in giro, pure se guardandoti allo specchio avresti voluto essere diversa.
Eri splendida e lo sei tuttora, poiché la bruttezza è come la bellezza: risiede negli occhi di chi guarda. Piuttosto che detestare se stessi allora, meglio fare "ciao ciao" con la mano, sorridere, voltare le spalle e cambiare direzione, oltre che compagnia.

P.S. È strano come proviamo empatia guardando "da fuori", sentendo raccontare una storia, mentre da protagonisti ripetiamo gli errori, le meschinità, le cattiverie, le indifferenze di chi biasimiamo assistendo da seduti in poltrona allo spettacolo della vita. Al di qua dello schermo ci sentiamo Zorro, mentre una volta entrati nella pellicola ci riveliamo peggio di quel pasticcione del sergente Garcia.

domenica 9 agosto 2020

La conversione di un pigro (Mettersi in viaggio)

Due ore di andata, due di ritorno, tre di sosta, con pranzo alla buona, incluso: oggi hai fatto quasi tutte le tue ferie ed è comunque molto.
Questione di generazione, di necessità, di carattere...
Il tempo della vacanza lo hai sempre speso tra le mura domestiche e il giardino, nella casa in cui hai dimora tuttora, costruita mattone su mattone insieme con tuo marito e che per quindici anni è stata l'unico obiettivo. Un sacrificio enorme, ripagato da un altrettanto gigantesco compenso: aver sempre vissuto nel posto desiderato, dove volevi stare, meglio di qualsiasi residence, appartamento, albergo.
Ho preso da te la pigrizia dello spostamento, la mancanza di entusiasmo per ogni partenza, il desiderio dopo breve tempo di tornare al proprio nido, forse perché abitiamo in un bel posto, forse perché sono i nostri geni poco propensi ad esplorare il mondo.
È parlando con Giorgia, in questi giorni, che mi sono reso conto di quanto potente sia questa ritrosia "ereditaria", che intacca le generazioni che seguono, ma che proprio grazie a loro, ai tuoi nipoti, può essere compresa, accettata, smussata, comprendendo che la vita è anche fatta d'altro e che non è un caso se poi i momenti belli, memorabili, sono quelli in cui si fa come oggi, prendendo e andandosene, vivendo un'esperienza insolita, godendo un tempo che è uno squarcio alla normalità, al blando e rassicurante ripetersi del giorno dopo giorno, sempre identico a se stesso.
E siccome a Giorgia (e a me stesso e a Isabella) voglio dimostrare che non è mai tardi per cambiare e che migliorare è sempre possibile, basta volerlo, dopo cinquanta e passi anni di esistenza ammetto di sentirmi mutato anch'io, di considerare sotto una luce nuova la vacanza, la gita, il viaggio.
Vorrei che davvero la gita, il viaggio, la vacanza diventassero ciò che più di ogni altra cosa sono: un'occasione. Il pretesto, la scusa, lo spunto per vivere esperienze d'insieme o in solitaria, rompendo la monotonia delle pagine che scorrono e rendendole vive, scrivendo in ognuna di esse un paragrafo, un capitolo.

P.S. Oggi siamo andati a trovare Roberta e Loris, in baita, sopra Pianello, sul lago di Como, presentandoci a sorpresa e organizzando una grigliata veloce quanto squisita, anche con Giorgia, Laura, Roberto. Più di una volta, mentre percorrevamo la strada costiera, senza farmi notare, ho sorriso, perché non hai smesso di parlare e non c'era frazione, grumo di case o anfratto di cui tu non conservi memoria, per qualcosa che nei tuoi ottant'anni di vita hai fatto o saputo.
Lì vi siete fermati con papà a mangiare le alborelle tornando dalla Valtellina quell'anno, qua il risotto con il persico per il compleanno di uno zio, qui avevano la villa accanto a quella di Adenauer i parenti di tua nonna paterna, là andavano in villeggiatura i cugini ricchi, su c'è un crotto che gestiva quel tale, giù sei andata l'anno scorso col battello...
Di vacanze ne hai fatte pochissime o punto, è vero, però mi sono reso conto che non hai smesso di "viaggiare", di interessarti e di toccare con mano ciò che di bello e buono esiste fuori dal tuo cancello.

Il mostro che ci abita accanto (A volte dentro)

Lo farò. Prima o poi lo farò, manderò a quel paese qualcuno, commenterò con cattiveria, sarcasmo, volgarità, sostituirò il fioretto con la clava, aggiungerò alla lingua la lama, sfogando frustrazioni e arrabbiature tarpate cento volte, alcune per una vita intera, altre per un giorno soltanto, ma con quel giorno che mi è costato in bile, caro.
Lo farò e per un minuto sarò euforico e orgoglioso e poi per anni pentito e scontento e avrò rimorsi, ma basta rimpianti e non sarà comunque poco.
Lo farò, togliendomi tonnellate di sassolini dalla scarpa, rivelando finalmente l'istinto che la formazione tiene sopito, che cova senza bruciare, domato tranne che nel privato più intimo.
Lo farò, ma voi amici non giudicatemi soltanto da quello, bensì considerate le migliaia, le decine di migliaia di volte in cui ho tirato dritto, mi sono morso le labbra, ho inghiottito amaro, inchiodato i polpastrelli lontano dalla tastiera, facendo finta di nulla, non replicando mai alla marea devastante di fango che quotidianamente circola attorno e non soltanto a me, a chiunque frequenta i social senza chiudersi nella bolla di amici, solcando delle relazioni il mare aperto.
Lo farò. O forse no. Forse continuerò ostinatamente a comportarmi come mi sono sempre comportato, conoscendo le regole della comunicazione, sapendo che chiunque ha un ruolo pubblico, fosse anche quello di semplice cronista cittadino, non può permettersi un attimo di vuoto, l'istante in cui la mente va in corto circuito e i nervi hanno il sopravvento sulla ragione, sul garbo di chi "nato non fu per viver come bruto".

P.S. Volete un esempio, affinché quelle sopra non siano soltanto chiacchiere e distintivo?
Questo è il video di un’intervista che ho fatto in tv tre anni fa a un ricercatore dell’Università Bicocca sui videogiochi e il loro utilizzo.
Una semplice chiacchierata, nulla di più, con una persona che non è Satana né Dio, bensì si interessa del fenomeno ed esprime pareri, offre degli spunti, presenta il suo punto di vista certo opinabile, non infallibile, tuttavia in modo sereno, senza bava alla bocca, pacato.
Poi leggete i commenti lasciati sotto.
Non li ho omessi mai, censurati nemmeno, perché sono per la libertà più cristallina, ma anche perché è giusto rendersi conto di come siamo distanti da un confronto civile su tutto, persino su un gioco, e ci sono persone sguaiate che insultano e offendono e trattano gli altri con superiorità sommaria, spesso non mettendoci la faccia, il muso.
Ora, l’uomo tribale che abita in me pensa: “Non ce la faranno, non ce la faremo mai”. L’altro, quello che non vuole diventare come loro, si ostina a credere che si tratta di un percorso, di una fase, e che soltanto l’educazione - compresa la "buona educazione" - renderà migliore questo mondo.

lunedì 3 agosto 2020

Quel che resta del giorno (anche di notte)

Il giorno in cui ho smesso di innervosirmi era una notte.
Una di quelle nelle quali capita di svegliarsi all'improvviso e fuori è buio pesto e l'orologio segna le tre, le cinque, le quattro.
Non mi succede sempre, neppure di rado.
Spesso è legato al lavoro e ci sono stati anni in cui si è ripetuto per mesi, mentre ora accade con minor frequenza, un paio di volte la settimana, con orari ballerini, che spaziano dalla notte profonda al principio dell’alba, quando filtra la prima luce ed è un concerto di cinguettii (mi hanno spiegato che gli uccelli cantano di più agli albori del giorno perché, essendo stati per ore a digiuno, vogliono dimostrare di essere forti abbastanza: lo fanno per convincere e convincersi, insomma, un po' come quando alzo la voce io, a casa).
Decenni fa, le prime volte che capitava, passavo dall'arrabbiatura allo sconforto, incaponendomi nel ripigliare sonno. Invano.
Era cavare una vite girandola al contrario: più non riuscivo più mi agitavo e più mi agitavo meno riuscivo.
Così ho smesso.
Basta prendermela, basta arrabbiarsi, basta sforzarsi di riaddormentarmi, come se l’addormentarsi equivalesse a eseguire un esercizio, sollevare un peso, svolgere un operazione algebrica.
Basta.
Pace interiore.
Accettazione, rimozione di tutte le ansie (“Devo svegliarmi presto e non dormo...”; “Sono già le tre, le tre e mezza, le quattro...”; “Chissà come sarò rimbambito domattina...”), considerazione di quel tempo come guadagnato e non perso.
Invece di impuntarmi in una lotta, guardo al bicchiere mezzo pieno e ne approfitto per leggere un libro o scrivere appunti, ascoltare podcast, ripassare la grammatica inglese, riflettere sulle grandi domande della vita ("Chi siamo? Dove andiamo? Ci sarà posto?"), sognare a occhi semichiusi, mettendomi in ascolto di corpo e mente invece che contrappormi loro, in una snervante quanto inutile battaglia.

P.S. La parte più difficile, me ne rendo conto, è superare l’apprensione per le conseguenze del mancato sonno. Se si ragiona teoricamente, si è spiazzati del tutto. Se invece si confida nel pragmatismo e si accetta il tempo biologico, allora il passo principale è fatto (che tanto un po’ rimbambito al mattino e pure pomeriggio e sera lo sono comunque, sonno o non sonno, dunque tanto vale non prendersela)

sabato 1 agosto 2020

Donne (La diversità come valore)

"Sono contenta di avere due figli maschi. Così potrò crescerli facendo loro un mazzo così, facendo capire cosa significa rispettare, dare valore, considerare alla pari una donna". Me lo dice d'un fiato, fissandomi con quei suoi occhi celesti d'un celeste che pare un lago di montagna e uno sguardo che - per un lampo - di dolce non ha nulla, pur se sorride, un sorriso che rivela determinazione senza mascherarla.
Eravamo entrati in argomento tra colleghi non per caso, considerato che in questi mesi ne parlo parecchio, specialmente con mia figlia, che ha una vita davanti e di buono vorrei non le fosse precluso nulla.
Sono anni che insisto con Giorgia, l'unica figlia femmina. D'un tratto ho realizzato che la chiave di volta sono gli altri tre, i figli maschi, poiché dalla loro sensibilità, dalla loro consapevolezza, dipende la capacità di inclusione, il rispetto delle diversità, delle pari opportunità e più in generale il futuro del mondo.
Non la sopravvivenza: la forma.
La forma della società che vogliamo costruire, delle comunità che desideriamo abitare, delle famiglie nelle quali vivere, tenendo il buono di ciò che abbiamo ricevuto in eredità e scartando il gramo, a cominciare da una divisione rigida dei ruoli, dalla mancata valorizzazione delle diversità, dal mantenimento di stereotipi triti, che meritano di essere archiviati senza una lacrima.
Evito di puntare il dito contro altri, mi accorgo di esser stato cresciuto io per primo con una mentalità che oggi mi pare fuori luogo, stretta, ottusa. Ad essa mi sono adattato, ne ho preso ciò che era comodo, vantaggioso, egoisticamente utile. Per questo non sono innocente, per questo non voglio apparire migliore di quanto non sia, per questo voglio assumermi responsabilità, chiedendo scusa e contribuendo concretamente, nei fatti e non soltanto a parole, per deviare il corso della strada.
Non ne faccio una questione di quote (aborro le quote! Come se intelligenza e buon senso potessero essere sostituiti dall'aritmetica) e nemmeno di eguaglianza, che uguali non lo siamo affatto, non lo è nessuno, né mai né ora. Anzi, ne faccio una questione di ineguaglianza, di diversità, intendendola come un valore, una risorsa, una ricchezza. 
Ma la diversità diventa valore, risorsa, ricchezza, soltanto se accompagnata da equità, pari opportunità, giustizia.
Ecco perché ha ragione quella mamma, che parla a ragion veduta, sperimentando ogni giorno sulla propria pelle la ruggine di un meccanismo che non ingrana.
Per ottenere un cambio di mentalità non basta la consapevolezza femminile, occorre anche e soprattutto quella maschile, unita a comprensione reciproca, aiuto vicendevole e solidarietà tra generi, invece di contrapposizione ottusa, becera, ostinata.

P.S. Sono grato a molte persone che in questi giorni contribuiscono a mettere a fuoco il problema, che non soltanto accettano, ma stimolano il confronto, si mettono per prime in discussione, offrono intuizioni, riflessioni, punti di vista. A una, in particolare, debbo riconoscenza, poiché con un atto di coraggio mi ha reso partecipe del percorso che stanno compiendo nell'azienda in cui lavora, mostrandomi una delle tante "piccole grandi" battaglie che vengono combattute senza pubblicità, senza l'attenzione dei mass media, con quei gesti apparentemente minuscoli che alla fine cambiano davvero il mondo, nell'essenza.