sabato 27 gennaio 2018

Sette, quattordici, ventuno, diciotto

Sette, quattordici, ventuno, diciotto. In quella tabellina sbilenca che è la vita, mi ritrovo a fare i conti e dare i numeri ad ogni compleanno.
Ventuno. Gli anni che ha da poco compiuto Giacomo, con le sue linee tracciate sempre per diritto, i pensieri che fanno più rumore delle parole, le spalle larghe, che per abbracciarle devo stare in punta di piedi e creano un effetto strano, poiché inverte le posizioni naturali padre, figlio, adulto, ragazzo.
Diciotto. Gli anni che tra poco compirà Giorgia, anche lei alta ma non da non poterla prendere tuttora in braccio, con i suoi balzi d'umore e una sensibilità che ha preso dalla madre, anche se da me ha imparato a mascherarla spesso.
Giacomo e Giorgia. Li vedo crescere, con uno stupore doppio: da un lato notare come si stiano formando, con una loro personalità originale e indipendente, dall'altro non potere né volere fare nulla affinché si fermi il tempo, esattamente come uno spettatore separato dalla scena da un vetro, che assiste impotente ma pure lieto di fronte all'ineluttabilità del destino.
Non ho scelto di ricordare Giacomo e Giorgia (e aggiungo anche Giovanni) oggi, per caso.
Il 27 gennaio è un giorno che ho a cuore poiché si celebra la "memoria" e alla memoria, a qualsiasi memoria, sono affezionato.
Oggi non voglio soltanto ricordare ciò che di orribile c'è stato, ma anche condividere la fortuna che ho io, che abbiamo noi, che hanno Giacomo e Giorgia e Giovanni e milioni di loro coetanei, che vivono in case più che tiepide, con nel piatto cibo abbondante e attorno visi amici invece di violenza, freddo, sangue, sofferenza, solitudine, devastazione, terrore, dolore, morte, abbandono.
Esserne consapevoli è più che un dovere: è un regalo. Un regalo che ci facciamo reciprocamente, ad ogni compleanno.

sabato 20 gennaio 2018

Il filo ingarbugliato delle cose (Nessuno è perfetto, per fortuna)


Imparo ogni giorno dalle piccole cose, pur se resto uno zuccone e per capire non basta mai una lezione.
Ieri l’altro la scoperta più recente, estraendo dalla tasca della giacca per la millesima volta gli auricolari del telefono e constatando con sorpresa che quando le ripiego con ordine poi si ingarbugliano e intrecciano e fanno nodi, mentre se le ripongo alla rinfusa nove volte su dieci, quando le riprendo, in un battibaleno sono pronte.
Così va la vita, in cui non sempre uno più uno fa due e raramente ciò che consideriamo perfetto porta frutti.
Penso al terreno senza sassi, alle camere sterili, ai panorami piatti, all’utilità degli insetti, alle relazioni prive di contrasti, al picco di gioia dopo le preoccupazioni, alle soddisfazione partorite dalle fatiche, al sollievo esaurite le paure, a quanto mi hanno reso migliore le persone peggiori, paziente con gli altri in ragione delle mie debolezze, a quanto mi sono servite le cadute, costringendomi ogni volta ad alzarmi.
Tendere all’ideale non significa disprezzare storture e dissonanze.
Credo sia utile ricordarlo pure in questo tempo di schieramenti ed elezioni, in cui differenze di pensiero e di atteggiamento si fanno più evidenti. Da parte mia faccio esercizio di tolleranza ogni giorno, evitando di farmi contagiare dal malumore cronico e dallo scandalizzarsi continuo di coloro a cui non va bene niente e si siedono sempre dalla parte della ragione. La vita è troppo breve per passarla in un continuo scontento.

mercoledì 10 gennaio 2018

L'anniversario (Dieci anni con te accanto)


Foto by Leonora

Dieci anni oggi, io che con le date non ci azzecco proprio e spesso sbaglio persino questa, che pure mi ha marchiato a fuoco.
Dieci anni con te in un altro modo, perché se scrivessi “senza te” non sarebbe giusto, non corrisponderebbe al vero.
Dieci anni dal giorno in cui hai tenuto chiusi gli occhi più a lungo e sei morto.
Sì, sei morto. Non mi piacciono i giri di parole, le perifrasi, i modi attenuati per dire cos’è successo.
È possibile che tu sia “salito alla casa del Padre”, non è vero invece che ti sia semplicemente “addormentato”, n’è tanto meno che ci abbia “lasciato”.
No, tu non ci hai lasciato. In me, in noi, nelle persone che ti hanno conosciuto vivi sempre e sempre vivrai, finché noi a nostra volta chiuderemo gli occhi per non riaprirli più, portando con noi ogni ricordo.
In tutti questi anni mi sei stato accanto. Rare quanto preziose le occasioni in cui mi sei apparso nitido, infinite invece quelle in cui ti ho nominato, spesso aggiungendo a mente ciò che già ti dicevo in vita, ringraziandoti per avermi insegnato la volontà e il piacere del dialogo, per l’essere stato un esempio, non soltanto nelle cose buone, anche nelle debolezze, nelle fragilità.
Tu non mi hai mai schiacciato, mostrandomi di ogni cosa dritto e rovescio, pure di te stesso.
Persino nella morte, nel modo in cui lo hai fatto, senza nascondere la paura ma neppure ostentandola, affrontandola con dignità, con quella serenità che accetta l’ineluttabile, quasi a proteggere me e le persone più care.
Se ripenso a quelle ore di passaggio mi viene in mente proprio questo: la dignità, la compostezza unita allo sgomento, come chi si arrende a un avversario che non può battere, piegandosi alla forza degli eventi, lasciando la vita senza rinnegarla, accettando il destino, cercando la pace nel sonno.
Dieci anni oggi, papà, un nome che ripeto spesso, con naturalezza, a testimonianza di quanto tu rimanga vivo, avendomi insegnato quasi tutto non di quello che so, ma di ciò che importa davvero.

P.S. Non era una storia triste allora, non lo è nemmeno oggi. Debbo a te pure questo, per avermi permesso di superare la paura del distacco, facendomi diventare uomo senza smarrire il sorriso.