"Ho creduto a quello che mi dicevano". Ascolto le parole di Giustino Parisse, un giornalista abruzzese che nel terremoto dell'Aquila ha perso i due figlioletti e si sente in colpa, perché alla prima scossa di quella notte tra il 5 e il 6 aprile, invece di prendere i bambini, fasciarli in una coperta e portarli in macchina, al sicuro, ha prestato ascolto agli esperti che lui stesso intervistava e che sostenevano che non ci fosse pericolo. Guardo per caso "Draquila" su Sky Cinema e non mi colpiscono né impressionano le accuse a Berlusconi e al suo governo (Berlusconi ha già vinto: il tasso di assuefazione e saturazione è già massimo, per cui se pure lo vedessi strangolare qualcuno, penserei tra me e me: "E che diamine sarà mai, tanti altri fanno di peggio" oppure "E che diamine sarà mai, perché, non lo sapevamo già prima che era così?", convinto che basti voltare lo sguardo dall'altra parte o girare canale con il telecomando, per dimenticare il già sentito, il già visto. Berlusconi è più che dannoso o eroico: è ineluttabile). Resto scosso - l'ho scritto d'impeto, ma mi accorgo ch'è un verbo beffardo oltre che tragico, in un simile contesto - non dalla cricca degli appalti o dai soldi gettati, bensì dalla parte finale del film, dalle immagini di ciò che è successo, dei crolli, del panico di quella notte, i muri diventati macerie, cumoli di mattoni, spezzoni di travi come legno di croce, case sventrate e gente impaurita, con le lacrime agli occhi. Le registrazioni delle telefonate di quella notte ai vigili del fuoco sono terribili e nella loro compostezza angoscianti. Mi domando dov'ero in quei giorni, come è possibile che non mi sia accorto di quanto avveniva? Eppure non ero dall'altra parte del pianeta. Di più, ero al giornale, ho curato pagine e pagine, messo fotografie, passato testimonianze e resoconti. Mi do due spiegazioni. La prima è il limite stesso della cronaca, ch'è un guardare la vita posando il naso sul foglio e far su e giù con il capo, vedendo perfettamente il dettaglio senza capire quale parte sia del tutto. La storia invece è un allontanarsi in tutto, perdendo definizione ma guadagnando in visuale, per cui posso scoprire che quella macchia impercettibile di rosso in realtà è un lembo della Gioconda dipinta da Leonardo. La seconda spiegazione non sta in un limite oggettivo, bensì nel modo in cui noi raccontiamo i fatti del mondo, dall'assuefazione di cui parlavo prima, per cui non distinguo più alcun rumore essendoci sempre chiasso. Battiamo la gran cassa tutto il giorno, non possiamo stupirci se, del pizzicar di dita sulle corde della chitarra o dell'appoggiar la mazzuola sullo xilofono, nulla percepiamo. Prendiamo un caso recente, un altro terremoto: quello in Giappone. Quando è entrato in crisi il reattore di Fukushima, per sei giorni siamo stati con il fiato sospeso, a tutte le ore un bollettino trasmesso da telegiornali, radio o Internet di turno. E' bastato l'aggravarsi della tensione con la Libia e su Tripoli i primi raid aerei della coalizione atlantica per eclissare il Giappone e l'incubo della tragedia nucleare. Ora l'interesse dei media s'è un po' riequilibrato, contaminazioni e centrali atomiche fanno concorrenza a bombardamenti e petrolio. Fino alla prossima emergenza, poi altro giro, altra corsa. Con il naso sempre appoggiato, schiacchiato proprio sul foglio della cronaca, sapendo tutto della macchia rossa di colore e nulla sul volto di Monnalisa.
Foto by Leonora