sabato 30 ottobre 2010

La tigre e il dragone


"I dittatori cavalcano avanti e indietro su tigri dalle quali non osano scendere. E le tigri diventano sempre più affamate". Lo ha detto Winston Churchill e lo ricordo a me stesso, quando invece di raccontare sono tentato di scrivere ciò che la gente vuole sentirsi dire. Non è facile restare in equilibrio tra due burroni: quello di lisciare il pelo ai potenti e quello, opposto, di cedere al populismo. Da quando ho compiuto quarant'anni mi sono convinto che se fossero i giovani a governare staremmo meglio. Lo sostengo ripensando a me, ventenne, idealista e caparbio e appassionato: avrei potuto sollevare il mondo, se solo non mi avessero fatto da tappo, urtando o blandendo. Con il senno del poi, avrei corso però un rischio: mettere a repentaglio onestà e buon senso, cedendo alle sirene del potere, dei soldi, del lusso. La maturità, la gavetta, l'esperienza credo siano determinanti per forgiare un carattere più temprato, avveduto. Vale pure per il mio lavoro, che apprezzo proprio per averlo a lungo atteso, desiderato e di cui ho cura affinché non venga sprecato. Perciò sul giornale cerco di ottenere il gradimento del lettore, senza però assecondarlo, badando piuttosto a tener la schiena dritta, sapendo che solo chi guida, chi ha personalità viene rispettato, mentre chi va a rimorchio prima o poi finisce per essere ignorato o, peggio, schiacciato.

Foto by Leonora

mercoledì 27 ottobre 2010

Le regole dell'ingaggio


Approfitto di quest'ora libera per definire le regole dell'ingaggio.

Non sono un coraggioso alla Pietro Micca, che si butta nella mischia a capofitto, senza pensare alle conseguenze, accada quel che accada. Io alle conseguenze ci devo pensare. In compenso, proprio come certi mammiferi che si sono adattati all'esistenza in mare, ho sviluppato alcune peculiarità che compensano questa esitazione iniziale: una volta che ci ho pensato, riesco a tuffarmi anche sapendo o anche semplicemente intuendo gli sviluppi negativi. Ora David, che sono certo mi legge, sorriderà, sentendomi raccontare un episodio dei tempi dell'università. Avevamo un professore di statistica ch'era una zecca paurosa e, appena entrato in aula, si metteva a fare domande e a interrogare, proprio come al liceo. Una situazione imbarazzante, poiché la preparazione a nostro giudizio doveva essere provata all'esame, essendoci tra gli scopi dell'università pure quello di formare a un'autonomia di studio, la programmazione, senza che ci fosse la mamma severa a controllare ogni giorno se avessimo o meno studiato. Il personaggio tuttavia era tale da non lasciare adito a discussioni e pur ingoiando amaro, nessuno fiatava. Ricordo che quel giorno, un venerdì, ci pensai due o tre minuti, poi alzai la mano e gli dissi ciò che pensavo, cioè che se avesse badato più all'entusiasmo e all'amore per la materia che insegnava invece di perdere tempo con un puntiglio fuori luogo, ci avremmo guadagnato tutti. Non ricordo la sua risposta, ma soltanto il silenzio dei miei compagni mentre parlavo e il fatto che da quel giorno non interrogò più. In compenso all'esame mi fece sudare sette camicie per strappare un voticino striminzito: aveva ragione, me lo meritavo.

Sono partito da lontano. Neanche tanto lontano. Ieri ho discusso con Isabella, che si era messa a gridare con Giorgia chiedendo che fosse spento il televisore. Dopo cinque minuti di rimbrotti suoi e repliche lacrimevoli della figlia, Isabella (che è buona vera e non come me, che sotto sotto sono un Caino) ha lasciato perdere. E' lì che m'è saltato in mente di scrivere un post sulle regole dell'ingaggio: prima di pretendere, è necessario essere disposti ad andare fino in fondo, costi quel costi. Capita in casa, in famiglia, tra amici, sul lavoro. Altrimenti il rischio non è soltanto restare inascoltati, bensì perdere autorevolezza. E anche la faccia.

P.S. Una nota per David. Se il ricordo che ho dell'episodio scolastico diverge da ciò che accadde veramente (tipo: io mi vedo come Cicerone che intima l'ultimatum a Catilina, mentre in verità ero un questuante balbuziente alla Johnny Glamour) lo dica pure, nei pensieri qui sotto. M'appello solo alla bontà e alla discrezione dei modi: ho una reputazione, e sono anche più vecchio di lui, non venga dimenticato.


Foto by Leonora

martedì 26 ottobre 2010

Il prescelto


Senza chiedere nulla in cambio. L'ha detto il prete, domenica, a messa. La predica è continuata ma io mi sono fermato lì, a pensare a tutte le cose che vengono fatte per me senza chiedere nulla in cambio. Ho riflettutto sulla circostanza che - non per caso - sono le stesse che hanno valore ai miei occhi, che mi fanno distinguere il falso amico dal vero. E ho cominciato a tenere il conto delle cose che faccio io senza badare al tornaconto. Ce ne sono? Forse. Assai meno di quelle che avrei desiderato, che considero giusto. Rovisto tra i ricordi, cercando la perla che luccica nel cestino vuoto. Così, su due piedi, adesso, ne trovo poche, poco più d'un paio: il magro bottino d'un finto buono. Dicevo l'altro giorno che l'egoismo è il motore dell'uomo, ma labile è il confine tra l'egoismo che ti fa voler bene a te stesso (condizione non sufficiente ma necessaria per voler bene anche all'altro) e quello che ti fa innalzare un recinto e calpestare tutto attorno.

Cambio argomento, ma neanche tanto. Domenica sera, a Report, hanno raccontato la storia di Ambrogio Mauri, brianzolo di Desio, costruttore di autobus, morto suicida con una lettera lasciata ai figli, in cui - nel succo - si diceva questo: "Ho creduto che Tangentopoli spazzasse via i disonesti e per noi tornasse ad essere un tempo propizio per lavorare, per fare ciò che abbiamo sempre fatto. Non è così, io mi fermo qui". S'è sparato. La disillusione è stata più forte di tutto in un uomo che non conosceva il cinismo: invece di continuare a lottare s'è arreso. Ma non è morto del tutto. Ogni volta che entro al giornale, ad esempio, so che nel mio piccolo, nel nostro piccolo, possiamo fare tanto, possiamo mettere un mattone per fare argine all'ingordigia di coloro che nessuna inchiesta ha ancora affondato. Anch'io, come Mauri, avevo creduto che da quella stagione non si potesse tornare indietro. A differenza sua, oltre all'egoismo, m'ha salvato l'esser più giovane, l'incoscienza abbinata a un entusiamo ottuso, eppure utilissimo, poiché antidoto naturale al veleno indotto dalle sconfitte di ogni giorno. "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile e la fecero". Vale anche per me, che mi ostino a pensare di poter cambiare le cose, almeno un pezzettino. L'onestà, un'onestà non bacchettona, di fondo, credo debba tornare requisito fondamentale per distinguere la gramigna dall'erba medica. Se uno è incapace, può imparare. Se invece è ladro, ruberà sempre, senza accontentarsi mai. Non so se questa sia "mettere al centro la questione morale", però qualcosa dobbiamo pur farlo, da qualche parte è importante cominciare. La prossima volta che sarò chiamato a votare, sceglierò il mio candidato rispondendo a questa semplice domanda: "A chi, tra loro, darei il mio portafoglio?".
Foto by Leonora

domenica 24 ottobre 2010

L'orecchio e il convento


Un gradino sulla scala di legno che porta al soppalco. Mi sono seduto lì, stasera, a casa di Brunella e Angelo, mentre suonavano musica jazz dal vivo (non Angelo e Brunella, due loro amici). Il suono giungeva perfetto, ero io fuori posto, rozzo d'orecchio e di gusto. Almeno lo ammetto, senza fingere competenza e darmi tono. E comunque dopo una decina di minuti, sul davanzale d'un finestrino, poco lontano, ho visto un libro. L'ho preso, l'ho sfogliato, s'intitolava "Confessioni di un sicario economico", ho cominciato a leggerlo, scoprendo che il jazz è fantastico come sottofondo. Tra un brano e l'altro mi fermavo, applaudivo, e in quei pochi secondi riflettevo su quanto poco sia educato alla musica. Tanto per fare un paragone, se fosse cibo, sarei come un porcellino, mangerei di tutto. Non è vanto. Sempre stasera, tramite Facebook, Rosa mi chiedeva quali fossero i miei autori preferiti. Gli ho risposto che sono onnivoro, gli ho fatto anche qualche nome, dimenticandone però molti altri, che mi sono venuti in mente dopo, mentre riflettevo su quanto mi sentivo inadeguato. David, due settimane fa, mi ha regalato un cd: Giorgio Gaber. E a lui che devo la passione per i cantautori italiani, per Fossati, De André, Guccini... I miei figli ascoltano Van De Sfroos, l'ultimo disco, che ha fatto da compagnia alle vacanze dell'anno scorso e pure questo agosto. Al fratello di Angelo, che si chiama come me, Giorgio, debbo la passione per la musica inglese e d'oltre oceano: Elton John, Bruce Springsteen, ma anche Loggins & Messina, tanto per fare qualche nome. Da ventenne è stata la volta degli italiani: ogni estate al mare una colonna sonora. Più Zucchero di Vasco Rossi, Carboni e persino - lo confesso - Masini, anche se non ne ho mai fatto una malattia (ma lo ascoltava Mauro Pellizzoni, da mattina a sera, ed era impossibile toglierselo dalla testa). Poi Ramazzotti. A un concerto, a Varese, andai con un pulmino da otto posti. Eravamo io e sette ragazzine adolescenti, che ora sono mamme a loro volta di figli, qualcuno già grandicello. Una decina d'anni fa cominciai ad apprezzare la classica e la lirica, senza tuttavia farne un culto, tanto che ora è sparita dallo spartito. Potrei continuare a lungo ma credo non interessi a nessuno, nemmeno a me, che riconosco la mediocrità della mia personale compilation. A proposito, concludo aggiungendo la lista attuale del mio Ipod, che comprende una trentina di canzoni, i cui autori sono nell'ordine: Eurythmics, Alessandra Amoroso, Tiziano Ferro, Renato Zero, Charles Aznavour, Gilbert Becaud, Elton John, Billy Joel, gli Abba, una mini compilation di disco dance anni Settanta, Mary J. Blidge, Michael Buble, Frank Sinatra, Michael McDonald, gli Acdc, Celine Dion, Steve Wonder, Guccini, Bertoli, Max Gazzè, Luther Vandros, John Legend, Black Eyes Peas. Chiedo scusa a chi è fine d'orecchio: questo è ciò che passa il convento.
Foto by Leonora

lunedì 18 ottobre 2010

La cura


Da un paio di settimane sono ufficialmente disturbato. Non da un compagno di banco, né da un vicino di casa e nemmeno da un ficcanaso: è invece un male che viene dalle cattive abitudini alimentari. Tradotto in parole povere: torno a casa tardi e m'abbuffo come un suino, ragion per cui lo stomaco ha cominciato a lagnarsi. Prima come un fastidio avvertito ai polmoni, ma in verità era l'esofago. Me l'ha detto il dottor House, al secolo Daniele Bellocco, medico di base a Lurate Caccivio. Dottor House perché quando sono andato da lui, prima di visitarmi, farmi fare i colpi di tosse, guardarmi la lingua e tutto il resto, mi ha fatto una serie di domande che neppure una portinaia curiosa avrebbe partorito. "Che mestiere fa?", "A che ora torna la sera?", "Cosa mangia?", "Vero che non si accontenta del primo ma si fa pure un secondo?"... Poi ho capito dove andava a parare e ne sono rimasto anche affascinato e ammirato, ma all'inizio pensavo solo: guarda un po' 'sto curioso! Sta di fatto che la diagnosi è stata lapidaria: "C'è un accenno di reflusso gastroesofageo". Una cosa che se me l'avessero detta un mese fa sarei sbiancato, ma da qualche giorno ero praticamente convinto di avere un male brutto ai polmoni, per cui quando me l'ha detto avrei voluto abbracciarlo. Ora la situazione non è migliorata, anzi: quasi tutte le notti mi sveglio e tossisco. La metto giù dura, come quasi tutti i maschi, che fanno i duri e poi al minimo dolorino frignano. A mia parziale discolpa porto il fatto che in quarantatrè anni (quasi quarantaquattro) è la prima volta che ho qualcosa di semiserio. Lo scrivo qua, a espiazione del fastidio che procuro a quasi tutto coloro con cui sono in confidenza e che non risparmio dal renderli edotti di ciò che mi accade sotto il mento. Potrei farne a meno e lo comprendo dai loro sguardi, dalle loro reazioni. Chiedo scusa a tutti. Scusa a Isabella e ai miei figli, che talvolta sveglio con colpi di tosse da elefante costipato. Scusa ai colleghi, che in riunione e in privato ho messo a parte dell'acciacco. Scusa a Federica, che gentilmente s'è offerta di consigliarmi un "inibitore della pompa gastroesofagea" e che ho guardato con sospetto, come se mi avesse proposto un trapianto di cuore fatto dal macellaio ("E vabbé, non ti fidi, ho capito, torna dal tuo medico" m'ha detto). Scusa a mia madre, a cui ho sottratto un flacone di Riopan nottetempo. Scusa al tappetino in cucina, su cui ho versato buona parte dello stesso Riopan, facendolo traboccare dal cucchiaino. Scusa al dottor Bellocco, da cui non sono più tornato. E scusa anche e soprattutto al mio stomaco, che da decenni mi serve a meraviglia: sono bastati pochi giorni di disagio e già l'ho considerato infido, infedele, infingardo. Ora vado a letto: di raccontare oltre non ho fegato.

Foto by Leonora

sabato 16 ottobre 2010

I pionieri e la frontiera


Marco ha scritto l'ultimo post un paio di settimane fa, Mauro invece sono mesi che non aggiorna il suo blog, così come Andrea, e anche sua moglie, Valentina. Elena poi ha addirittura chiuso il suo, preferendo aprirne un'altro, di fotografia. Per non parlare di Maddalena, ch'è inchiodata al 9 dicembre dell'anno scorso: passo quasi ogni giorno per vedere se cambia idea, ma continua a restare muta. Di recente perde i colpi anche Wilma, la mia preferita, ma per fortuna ci pensa Miranda a tener viva la baracca. Chi non tradisce mai è Silvia, che per me rimane Fuma e aggiorna il suo sito quasi ogni giorno, come del resto Paolo, Gaspar e i due altri Andrea, compreso colui che con il suo "Per strada" percorre quella a fianco della mia. Ma sono eccezioni alla regola: al cospetto della vitalità dei blogger un paio d'anni fa, sembriamo i sopravissuti al termine di un'epidemia. Uso la prima persona plurale perché mi ci metto anch'io, che nel bene e nel male continuo qui la semina. A volte dimentico che tutto cambia e che ciò accade ancor più velocemente nella nostra epoca liquida, dove poco è ancorato al profondo e tutto il resto galleggia. Il blog rimane per me rampa di lancio e àncora, spazio di libertà assoluta (pur se ora come ora della libertà non sento la mancanza) e sassolini di Pollicino, lasciati nel bosco per ritrovar la strada. Ripenso a quando l'ho aperto, sudando e sbuffando come un mantice, perché con la tecnologia avevo la dimestichezza di un elefante che vuole schioccare le dita. Era il 1 ottobre 2007. Non mi sono neppure ricordato l'anniversario: padre sbadato. Un paio di mesi dopo ci ritrovammo insieme, i blogger di Como e dintorni, per mangiare una pizza. E' lì che ho conosciuto Frenz, Giovanni, Luca, Leonora, Alessandro, Stefania, Giuseppe, Francesco, Palmasco e i già citati Elena, Gaspar, Valentina, Andrea... Persone incredibili. Fu la sera in cui più di ogni altra sentii il futuro vicino, a portata di mano e nello stesso tempo sterminato, immenso. Sempre grazie al blog risalgo alla data esatta: era il 19 novembre del 2007. Mi piacerebbe riproporre una rimpatriata, a tre anni esatti di distanza.
Foto by Leonora

martedì 12 ottobre 2010

Facciamole un applauso


"Facciamole un applauso! E andiamo in pubblicità...". L'avvocato di famiglia ha appena finito di parlare della madre di Sarah Scazzi, del suo dolore, della dignità, della compostezza di queste ore e soprattutto del suo desiderio di silenzio. Il legale, cicciottello, sudaticcio, bravo oratore, finisce in crescendo, pur se tutt'attorno non vola una mosca. "Perché la mamma di Sarah - conclude al confine dell'urlo - è una gran donna!". Nello studio di Matrix nessuno fiata. Un secondo, due, tre. Poi prende la parola lui, il conduttore scialbo, Alessio Vinci. "Facciamole un applauso!" sentenzia. E senza neppure aspettarlo aggiunge: "E andiamo in pubblicità...".

Lo so, voglio farmi del male. Oppure dev'essere una vena di inaspettato masochismo che per due sere di fila m'induce a lasciare libri e film, per tornare alla cara, vecchia tv generalista. "Cara" perché m'ha tenuto a balia, tenendomi compagnia dai dieci ai vent'anni assai più che amici, genitori e compagni di scuola. "Vecchia" perché da un paio d'anni non la guardo (quasi) più, scalzata dal satellite e dal computer. Eppure l'imprinting dev'essere fortissimo, s'è vero com'è vero che a volte mi basta incappare per caso in Porta a porta o Anno zero per non staccare gli occhi dalla schermo. "Esci! Esci da questo corpo!" devo fare come nell'Esorcista per spegnere o cambiare canale. Ieri, ad esempio, non ce l'ho fatta. Tornato tardi e reduce da una bella serata con David, mi si è parata davanti la puntata di Matrix sulla morte di Sarah Scazzi, strangolata dallo zio. In studio la solita compagnia briscola, collegata dal paese Sabrina Misseri, la cugina di Sarah, figlia dello stesso assassino. Descriverei il tutto così: uno spettacolo agghiacciante. Agghiacciante perché l'inquadratura stretta sul volto della ragazza mentre la regia manda in onda la confessione del padre è qualcosa che va al di là del cattivo gusto: è pornografia. Spettacolo perché l'informazione è assolutamente marginale a confronto dell'intrattenimento, infatti anche il linguaggio, i rituali sono quelli del varietà, del festival di Sanremo. "Facciamole un appluaso! E andiamo in pubblicità...".

Oggi, recidivo, m'imbatto in Ballarò. Lo ricordavo meglio. Del mercato di Palermo non prende soltanto il nome, ma pure la confusione. Tutti gridano, sbraitano, si parlano addosso e soprattutto nessuno ascolta ciò che dice l'altro! Conduttore incluso. Ricordavo meglio pure lui.
Foto by Leonora

domenica 10 ottobre 2010

A mì el me piàs no (libertà di stampa, sempre)


Non conosco di persona Alessandro Sallusti, non ho mai scambiato con lui una parola, non gli devo favore alcuno. Quasi tutti i miei attuali colleghi invece l'hanno avuto per direttore e, di recente, il mio amico Mauro ha avuto la buona sorte di lavorare con lui e me ne parla spesso, perché lo stima e - pur quando la pensa diversamente da lui - gli riconosce onestà intellettuale oltre che un carattere sostanzialmente buono. Buono dentro. Ricordo quand'ero un ragazzo e vedevo questo mio mestiere col binocolo: Sallusti prese in mano La Provincia e la rivoltò come un calzino, trasformando la palude in un laghetto d'acqua limpida, frizzante persino. Ne restai ammirato. Di Sallusti parlo talvolta con mio cognato Fulvio, che l'ha avuto per compagno e amico negli anni delle superiori, al Setificio. Recentemente anche con mia mamma, che invece lo detesta quando compare con quel volto scarno e austero, nei vari telegiornali, Ballarò o Anno Zero. "Guarda che è un bravo giornalista - le dico io - e Mauro che lo conosce bene dice ch'è un buono...". "Sarà - replica lei, scettica, in dialetto - ma a mì el me piàs no". A lei non piace.

Questa però è soltanto la cornice: il soggetto del quadro è un altro.
Tre giorni fa degli agenti sono entrati nell'ufficio e in casa del direttore de "Il Giornale", Sallusti appunto. Avevano un mandato e il potere di perquisire l'abitazione palmo a palmo, compreso chi ci abitava, ch'è rimasto in mutande, attendendo che fosse finito tutto. I magistrati che avevano impartito l'ordine cercavano dei dossier, che lo stesso giornalista avrebbe detenuto o commissionato, potenzialmente dannosi per gli oppositori del capo del governo, che del suddetto giornale ha nella sostanza il controllo. Nel frattempo, su tutti gli organi d'informazione, venivano pubblicati gli stralci delle intercettazioni telefoniche subite dal vice direttore de Il giornale, Nicola Porro detto Nicolino, a colloquio con il responsabile dell'ufficio stampa di Emma Marcegaglia, attuale presidente di Confindustria. Tali telefonate mettevano pressione, inutile nasconderlo. Sarei però un ipocrita se sostenessi che di simili pressioni non ne abbia fatte anch'io: è una regola del gioco, anche se tale gioco può essere ritenuto da taluni brutale, fetente, esasperato. Se rischio di prendere un buco, cioè di non dare una notizia che altri hanno, e il motivo è qualcuno troppo ciarliero con la concorrenza e poco con noi, la prima cosa che faccio è prendere il telefono e mettere in chiaro le cose: se domani la leggo sull'altro giornale, per noi sei morto. Oppure, come diceva un direttore placido di carattere ma colorito nel linguaggio: "Tu sul nostro giornale non verrai mai più nominato, se non per cose a te spiacevoli compreso quando passarei a miglior vita e pubblicheremo la tua fotografia, in cui sei ritratto brutto".
Diversa l'ipotesi che il presidente del consiglio orienti in qualche modo il lavoro dei servizi segreti, per screditare i propri avversari, utilizzando poi la stampa che controlla per dare eco e clamore all'evento. Una possibilità inquietante ma tutta da dimostrare, più simile ai libri di fantapolitica e dietrologia che allo scenario concreto. Controllare che i servizi segreti non "devino" dalla strada della legalità è compito del parlamento e dovere di ogni buon magistrato, che tuttavia nella ricerca della verità non può calpestare un altro diritto inviolabile, la libertà di parola e di stampa, che in un paese civile hanno valore assoluto e non possono essere imbrigliate in modo alcuno. A prescindere dal colore politico e anche dal nome e cognome dell'editore. Se poi uno compra "Il Giornale" sa da chi dipende, conosce quale sia l'orientamento, e perciò potrà "pesare" la notizia a seconda del suo modo d'intendere il mondo.
Ecco perché esprimo solidarietà a Sallusti, che paga quel volto scarno e corrucciato da infausto annunciatore di sventura (difetto imperdonabile in un paese da commedia avere un volto tragico). Le sue idee possono non essere le mie (figuriamoci quelle di mia madre), ma ha il diritto di esprimerle come crede meglio.

Foto by Leonora

sabato 9 ottobre 2010

Cartellino giallo


Il cartellino giallo mi ha fatto diventare rosso. E' successo una settimana fa, a Legnano. Mio figlio era reduce da un infortunio ed è entrato in campo a partita già iniziata e segnata: tre a zero per gli avversari. A metà della ripresa, quando i gol erano già diventati quattro, su un calcio d'angolo Giacomo ha sentito di esser stato trattenuto e ha protestato con l'arbitro. Peggio, allontanandosi da lui lo ha mandato platealmente a quel paese con la mano. Non una, due volte! Fischio, gioco fermo e ammonizione sacrosanta, mentre io in tribuna sarei voluto sprofondare: passi un giocatore scarso, anche falloso, ma maleducato no, non lo posso tollerare. La rabbia mista a delusione è durata un quarto d'ora buono, fino al termine della partita, quando - unico delle due squadre - Giacomo è andato verso l'arbitro per stringerli la mano. "Ah, quello è mio figlio - ho pensato - mi sembrava strano". Che abbia fatto una stupidaggine, che non abbia ragionato se n'è accorto anche lui, che infatti appena uscito dagli spogliatoi aveva basso lo sguardo. Da parte mia, ero ancora rammaricato e sono stato tagliente e persino un po' bastardo, come solo con i miei stretti familiari faccio. "Ti dico solo una cosa: che non capiti mai più - gli ho detto - tu vedi troppa televisione. Sembravi Totti invece sei solo un bambino che deve crescere". Lui non ha replicato, gli sono scesi due lacrimoni lenti lenti, mentre guardava dritto avanti a sé, combattendo tra il groppo in gola e l'orgoglio.

Se lo appunto qua, se racconto un episodio minuscolo, è per collegarlo a una vicenda ben peggiore, di cui scriverò domani sul giornale: lo stato d'animo di un padre il cui figlio, perdendo il controllo dell'auto, ha ucciso una ragazza che sarebbe diventata mamma di lì a poco e ch'è morta sull'ambulanza, mentre metteva al mondo la creatura che portava nel grembo. Mi sono immaginato spesso, nei giorni scorsi, di essere nei panni di quel padre, che non c'entra nulla, e che pure ha davanti agli occhi la rovina del figlio, che non può abbandonare, a cui deve stare vicino anche se non può negare lo sbaglio, né la gravità di quanto accaduto, la sterminata tragedia che ha procurato. Non so cosa farei se fossi al suo posto: prego Dio che mi risparmi da simili situazioni, pur sapendo che neppure Dio può mettere al riparo dalle disgrazie della vita, sia che rientrino in un vasto e impescrutabile disegno, sia che risultino un banale terno al lotto. Se mai dovesse accadere, vorrei la forza di non fuggire, di non negare, di aiutare chi mi è vicino e per primo me stesso ad assumermi le responsabilità, a chiedere scusa, perdono, anche se difficilmente verrà accordato. Domandarlo però, avere il coraggio di compiere quel gesto, è il primo passo se non per ottenere il perdono degli innocenti, almeno per concederlo a se stessi, per cominciare a farlo, avendo coscienza del tremendo sbaglio compiuto, ma pure della dignità di chi non fugge, decidendo di restare innanzi tutto un uomo.
Foto by Leonora

lunedì 4 ottobre 2010

Allargare il cerchio


Non faccio parte di gruppi, associazioni, partiti, club, circoli o confraternite né palesi né segrete. Per il lavoro dipendo da un'azienda e nella vita privata ho molti conoscenti e meno amici, sparsi qua e là, che nulla chiedono e molto danno: soprattutto in pazienza, nel perdonarmi le troppe e ingiustificate latitanze. Due domeniche fa parlavo con Brunella, era reduce da un raduno regionale (credo) di Comunione e liberazione, a Milano. "Erano più di settemila persone - mi ha detto - e quando cantavano erano impressionanti". Erano, terza persona plurale. Brunella non fa parte del "movimento", ma neppure ha il paraocchi contrario, quello che giudica da fuori vedendo solo nero. Credo anch'io che abbiano un carisma particolare e sono pronto a mettere la mano sul fuoco sulla buona fede dei più. La loro strada non è la mia, per la semplice premessa che ho messo all'inizio: preferisco non avere appartenenze, mantenere autonomia di giudizio. Però con Brunella e con Raffaele, che s'è aggiunto alle chiacchiere che stavamo facendo, condivido l'esigenza di non essere soli del tutto, del poter contare su amici che camminano a fianco. Non è solo questione di individui, anche di famiglie. Non siamo "animali sociali" per caso e la bellezza dello stare insieme, di allargare il cerchio, che abbiamo riprovato nei tre giorni passati ad agosto in montagna, in val di Sacco, dovrebbe trovare sbocco e compimento anche durante l'anno. In questo ammiro Isabella, che rispetto a me ha una sensibilità e una generosità maggiore e pur se io sono egoista, preferendo la pigrizia della tv o del divano, insiste nell'intrecciare occasioni d'incontro con le altre famiglie, con conoscenti nuovi o di vecchia data che siano.
Foto by Leonora

sabato 2 ottobre 2010

Il piano inclinato


Guardo "Ombre rosse" di John Ford, un film western che mi faceva impazzire quand'ero bambino. Lo rivedo ora e penso che - essendo stato girato nel 1939 - è più vicino all'epoca in cui è ambientata la vicenda (con cow-boy, indiani, dilegenze, fucili Winchester e tutto il resto) che a quella attuale. Allora, visto nel televisore Mivar in bianco e nero che si accendeva grazie a un trasformatore pesante, rumoroso e grigio, sembrava un prodigio della modernità, ora è esso stesso un reperto storico. In quegli anni mi pareva che tutto fosse immortale, che la storia umana, che l'intera creazione universale esistesse solo per dare compimento al bimbo che ero, principio senza fine di tutto. L'esatto opposto di quanto credo adesso, avvertendo fisicamente la sensazione che tutto muta e che in quest'enorme e pur spettacolare ruota che gira, nulla si conserva, né i pensieri, né le opere e neppure la memoria. Tempo. E' solo questione di tempo e ogni cosa finirà, tutto verrà cancellato. Non è un pensiero triste. Ammetto anzi che la qual cosa mi consola, perché toglie l'ansia di rimanere aggrappato sul piano inclinato, di lasciare impronta di sé più a lungo di quel paio di generazioni che seguiranno. Anche se fossero dieci, cento, mille, arriverà sempre l'ora in cui il tempio in tre giorni verrà distrutto.

Non c'è speranza allora? No, tutt'altro. Perché spesso le apparenze ingannano.

Foto by Leonora