sabato 26 novembre 2022

Il gradino più alto del podio (A sostegno)

Si dice sarete il mio sostegno.
Non è vero. Io sto in piedi da me e da me voglio continuare a restarci, neppure troppo a lungo, andandomene un secondo prima dell’istante in cui dirò o sarò tentato di pensare: “Ai miei tempi sì che…”.
Piuttosto, voi siete spunto di partenza, trampolino, gancio in mezzo al cielo: andando avanti costringete me ad inseguirvi, a non sedermi, a restare aggiornato, cura naturale al decadimento, ch’è ineluttabile, insito nella condizione umana, non può essere evitato.
Affrontato con dignità però sì, invecchiando bene, senza tasso di acidità elevato.
Non è questione di figli, che quelli si hanno o non si hanno e a volte pure chi li ha è come non li avesse, tanto procede nella vita ripiegato su stesso, tronfio delle proprie certezze, incapace di mettersi in discussione, su tutto.
È questione di giovani, di stare loro accanto, di avere la possibilità di frequentarli in qualche modo, nelle famiglie allargate, come vicini di casa, sul lavoro…

P.S. Una nota speciale a margine la voglio mettere collegandomi all’inizio. Sulla bella parola “sostegno”. Sulla grandezza di uno Stato e di una scuola, spesso criticata, con cognizione di causa, da me per primo, che anni fa ha però deciso di introdurre la figura dell’insegnante “di sostegno”.
Certo, l'istituzione dovrebbe fare di più, non limitarsi alla forma, fornire più risorse, liberare dall’assurda burocrazia, dare compimento concreto a un’enunciazione di principio.
Però il poterlo fare meglio, il doverci credere di più, non deve sminuire il valore dell’inclusività, la promozione della diversità, il tentativo di eliminare o almeno attenuare le conseguenze della sfortuna o del destino o del caso o come si vuole chiamarlo, dando appunto supporto, sostegno.
Proprio per questo, per la bontà del proposito e per la fatica nel renderlo concreto, sono ancora più grato a chi l’insegnante di sostegno lo fa, a cominciare dalle molte persone che conosco, di cui sono parente, conoscente o amico: medaglie d’oro di una corsa ad ostacoli altrui, esse occupano - per quel poco o nulla che conta la mia considerazione - il gradino del podio più alto.

venerdì 11 novembre 2022

Decidi tu (Cinquant'anni qua)

Mi manca tutto di te. I gesti, ancor più delle parole.
Conosco il modo in cui pensavi, di ragionare, pure le increspature, le ossidazioni, le gabbie mentali figlie del tuo tempo, della storia, del tondo in cui sei nato o cresciuto.
Posso evocarli e attualizzarli, contestualizzarli al bisogno, con margine di errore in superficie, non all’osso.
I gesti invece, le abilità, la sapienza del fare, dei tuoi molti mestieri, è un vuoto che stride e urla e rode e grava: so che non si potrà colmare, ho consapevolezza piena di un patrimonio svanito, per sempre, perduto.
Mettere a dimora un albero, piantare un chiodo, riparare un guasto, intrecciare corde, stringere un nodo, alzare un peso, oleare un giunto, avviare un motore, manutenere un macchinario, vangare l’orto, sistemare tegole e coppi del tetto, cambiare una gomma, accudire animali, impilare mattoni, tagliare la legna, impastare sabbia e cemento…
Ho scarsa abilità tramandata, ma memoria su tutto, anche per la scelta di abitare nella casa che con le tue mani hai costruito e che respira ancora di te, in ogni angolo.
Oggi, proprio oggi, nel giorno di San Martino, esattamente cinquant’anni fa, entrammo per trascorrerci la prima notte, pur se non c’erano ancora porte e finestre e per riparare dal freddo avevi messo dei cellophane, alzando al massimo il riscaldamento, con il gasolio che allora costava pochi centesimi, niente rispetto adesso.
Prendermene cura e mantenerla almeno per un’altra generazione è la promessa che ti ho fatto la sera prima che lasciassi questo mondo.
Anche in quel momento hai saputo darmi esempio della tua lezione più importante, quella della libertà di scelta, dell’assenza di vincolo, chiudendo gli occhi, prima di iniziare a parlare, a tuo modo, e poi dicendo, con voce bassa, piana: “Non importa. Decidi tu. Io sono contento così”.
In quelle otto parole e l’accenno di un sorriso sta tutto il tuo testamento, il lascito di un uomo qualunque, per fortuna non esente da difetti, per me, soltanto per me, unico.

P.S. Questa non è una storia triste. Nessuna lo è, se ti riguarda. La sofferenza per la malattia, negli anni in cui ci hai convissuto, ha temprato il carattere e reso meno urticante l’ineluttabile distacco.
È una ruota che gira. Lo ripetevi spesso tu, è vero in generale e anche nello specifico.
Avrai piacere perciò nel sapere che sono andato avanti e procedo tuttora, ricordando con dolcezza il passato, ma senza aggrapparmici, cosciente che il futuro non è mai alle nostre spalle ed è giusto che siano altre generazioni a incontrarlo, comprenderlo, costruirlo, con altre abilità, spero però lo stesso stile del buono che hai lasciato.