sabato 31 dicembre 2016

D come Dicembre (e come Diversità)

Foto by Leonora
Scordo molto e lo considero un dono, così come l'incostanza, la volubilità e il lasciar correre parecchio, trattenendo poco o nulla, specialmente ciò che ha peso.
Scrivo poco, complice il cambio di lavoro, il ritorno alla tv, la mancanza di occasioni e la scelta di essere parsimonioso con le parole nero su bianco, secondo l'idea un poco snob (lo riconosco) che in un tempo in cui troppi urlano l'unico modo per farsi ascoltare e restare il più possibile in silenzio.
E' trascorso un anno zeppo di persone, emozioni, sorprese, qualche delusione e assai più gioie di quante meritavo. Porto con me tutto sulle spalle, come in uno zaino, senza darmi eccessiva importanza, conscio che ciascuna esistenza è una meraviglia e il proprio ombelico non corrisponde con quello del mondo.
C'è tuttavia una lezione che negli ultimi mesi ho compreso meglio e che vorrei condividere con chi mi cammina per un tratto di strada accanto. Questa: la diversità è un valore.
Sì, la diversità è un valore positivo, in ogni ambito.
Un brindisi allora a chi la pensa e vive differentemente da me, a quanti costringono a interrogarmi, a mettermi in discussione, a fare i conti con ciò che mi assomiglia nulla o poco, a coloro che battono sentieri lontani, persino a chi si arrocca quando io vorrei tendere la mano, a chi mi fa arrabbiare o cadere le braccia o scuotere il capo, a chi non legge i miei libri, non dà fiducia alle persone in cui credo e si fida invece di coloro a cui non credo io. Un brindisi ai battitori liberi, alle persone originali, ai colori vari, ai gusti unici, persino ai conoscenti invasati o ottusi, perché senza di essi io sarei più seduto, meno agile, più povero.
La diversità è un valore. Sempre. Anche quando sembra o è più comodo il contrario.
Di tutto ciò che dimenticherò, questo mi piacerebbe ricordarlo.

sabato 3 dicembre 2016

Sì e No (Il coraggio della responsabilità)

Foto by Leonora
Faccio un mestiere che mi ha insegnato molto, soprattutto a comprendere "le ragioni degli altri", di coloro che non la pensano come me. Per questo mi torna difficile riassumere tutto in un "sì" o in un "no", tuttavia capisco l'esigenza di fare delle scelte, essendo cresciuto in una famiglia pratica, da cui ho imparato che a un certo punto occorre fare sintesi, senza perdersi nei distinguo.
Domani si andrà a votare per il referendum e confido che ciascuno decida in base alle proprie convinzioni, entrando nel merito della questione e non affidandosi alle indicazioni dei vari leader di partito, considerando che ognuno di loro - da Renzi a Grillo, da Berlusconi a Salvini - ha un tornaconto politico, un interesse particolare e privato, pur se legittimo.
Questo è dunque l'invito che rivolgo per primo a me stesso: usare la propria testa, in piena serenità di spirito, sapendo che il voto è importante ma non ci saranno carestie o invasioni di cavalette a seconda che vinca l'uno e l'altro, la differenza infatti la fanno sempre le persone, mai le regole o le leggi, neppure quelle costituzionali.
Premesso questo, anche se è forte la tentazione di non aggiungere altro, lascio scritto qui nero su bianco chi mi ha convinto di più. O meglio, coloro che mi hanno convinto meno e in questo molti sostenitori del "no" hanno vinto per distacco.
Anche i sostenitori del "sì" spesso l'hanno fatta fuori dal vaso, tentando di spacciare per panacea di tutti i mali una riforma che per molti versi resta un salto nel buio, tuttavia il maggior numero di bufale, inasettezze e grossolane falsità le ho registrate nello schieramento opposto.
Cito tre esempi, che mi hanno particolarmente impressionato.
1. Un volantino fatto girare da persone pie e devote spaventate e a loro volta "spaventanti", che proclamano una vera apocalisse se vincesse il sì, mentre la riforma non c'entra nulla con eutanasia infantile, teorie dei gender, droghe e uteri in affitto.
2. Un disegno con illustrata la composizione del parlamento prima e dopo e la scritta: "Così capisce anche un bambino", mentre così al massimo un bambino lo si può imbrogliare, visto che lo schema è falso (a differenza di quanto scritto in tale manifesto, è il Parlamento attuale ad avere parlamentari votati al cento per cento in base alle indicazioni dei partiti - la legge elettorale cui è stato eletto prevedeva infatti liste bloccate, senza preferenze - mentre il possibile Parlamento futuro non sappiamo come sarà composto, poiché non è la riforma in discussione oggi che lo decide, bensì la prossima legge elettorale, cioè una legge ordinaria, non sottoposta a referendum confermativo).
3. I commenti di tante persone che pur stimo e che persino sono preparate, ma prese dalla fregola di convincere le hanno sparate più grosse di Pinocchio (cito il commento su Facebook di un'amica - per di più avvocato e che dunque dovrebbe usare le parole con cognizone di causa - che ha scritto: "Dopo ampia riflessione mi sono convinta che la riforma costituzionale non può esser accettata. E poi, quantomeno, vorrei che fosse stata proposta da un governo regolarmente eletto". Regolarmente eletto? Ma questo è un governo "regolarmente eletto"! Posso dire che non mi piace, che non lo condivido, che lo vorrei diverso, che mi fa schifo, ma scrivere che non è "regolarmente eletto" è una falsità che grida vendetta agli occhi del cielo e del senso civico.
Concludendo, le convinzioni principali a cui sono arrivato sono queste:
  • la legge ideale non esiste;
  • l'attuale Costituzione ha punti contraddittori e faraginosi, così come quella nuova, proposta dalla riforma;
  • la Costituzione è stata già modificata molte volte negli ultimi settant'anni, per fortuna mai nella prima parte, quella dei diritti e doveri fondamentali, che rimarrà immutata anche dopo questo referendum;
  • votare sì va nel solco del cambiamento e io del cambiamento non ho mai avuto paura, anche se confesso che l'incertezza che ne consegue mi mette ansia, agitazione, preoccupazione, disagio;
  • troppi decidono non perché sono convinti cosa è giusto o cosa è sbagliato ma perché ci si fida di questo o di quel leader politico, scordando ciò che ho scritto qui sopra: ognuna di loro ha un tornaconto politico e giudica la riforma non dai benefici o dai danni che produrrà all'Italia, ma da quelli che comporterà per sé e per il proprio partito/movimento.
  • la riforma non è quella che avrei voluto, tuttavia - come sta scritto all'ingresso della sede di Facebook: "Done is better than perfect", cioè una cosa fatta è meglio di una cosa perfetta, e votare "sì" è un passo in avanti verso quella che considero l'ideale, cioè una maggiore governabilità, esattamente come già avviene per Regioni e Comuni.
Questo è quanto. Lo scrivo senza smania di convincere nessuno, rispettoso di chi è giunto a conclusioni diverse, convinto soprattutto del fatto che occorra portare il peso delle proprie scelte, assumendosene la responsabilità, specialmente in Italia, dove la vittoria ha molti padri e la sconfitta nessuno.
E domenica sera, a prescindere da come andrà, troviamoci idealmente a brindare, insieme, accettando qualsiasi risultato e ripartendo per avere un Paese meno diviso, più unito.

P.S. Al di là delle opionioni del sottoscritto, chi fosse tuttora indeciso può comprendere un poco meglio le cose ascoltando il presidente della Regione, Roberto Maroni, per il "no" o il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, per il "Sì", intervistati dal sottoscritto.

mercoledì 19 ottobre 2016

Chiedo scusa (preghiera laica)

Foto by Leonora
Chiedo scusa. Chiedo scusa per le porte aperte che chiudo, per quelle chiuse che non apro, per ciò che dovrei andare a prendermi ma sono troppo pigro o pavido per farlo. Chiedo scusa per le mani tese che ignoro, per le offerte che eludo, per gli spiccioli che conto, uno a uno, confondendo ciò che rappresentano da quanto realmente valgono. Chiedo scusa per i bicchieri di vino gramo che ho versato e per i pasti sciatti, fatti senza gioia né gusto. Chiedo scusa per il tempo perso, per tutti i momenti che spreco, per le banalità che rincorro, ignorando ciò che conta davvero. Chiedo scusa ai libri e alle creature sagge che ho incontrato, per il troppo poco che ho imparato da loro, per tutte le lezioni che mi sono entrate in un orecchio e uscite dall'altro. Chiedo scusa alle innumerevoli pagine che ho lasciato bianche, al talento sciupato, alle occasioni non colte. Chiedo scusa per gli attimi di sconforto, per gli scatti di nervosismo, per i silenzi che tagliano quanto un coltello nel burro e alzano barriere più alte e resistenti di un muro. Chiedo scusa per tutti i rinvii, le attese sterili, i "vediamo" e i "vedremo". Chiedo scusa ai miei sogni, a quelli che non ho cullato a sufficienza, a quelli che ho dimenticato, a quelli appassiti per mancanza di fiducia, a quelli che non sbocciano, perché sono diventato cinico, arido. Chiedo scusa per le incoerenze e ancor più per le coerenze ottuse, stolide, per i giudizi affrettati, per le sentenze acide, per l'astio. Chiedo scusa per le domande che non ho fatto e per le risposte non richieste che ho dato, in particolare per quelle che ero talmente ansioso di dare che la domanda nemmeno ho ascoltato. Chiedo scusa alle persone che da me si sono sentite trascurate o, peggio, prese in giro, che hanno visto in me ciò che non sono, che si sono illuse di cambiarmi mentre sono rimasto sempre identico. Chiedo scusa a chi mi è vicino e mi sente lontano, ai troppi amici a cui non scrivo e non vedo, a quanti si fidano di me nonostante io sia spesso assente, distratto. Chiedo scusa a tutti, ma soprattutto a me stesso.
Per fortuna o per iattura infatti - decidetelo voi - nessuno paga gli errori più di chi li commette.
P.S. Ora però basta fustigazioni, che di molto debbo chiedere scusa, non di essere sempre contrito e triste e mesto.

sabato 24 settembre 2016

L'aria in faccia (Lasciarsi, tenendoci)

Foto by Leonora
Mi stringi come se non dovessi andar più via e nel contempo come se mi stessi già lasciando, carne della mia carne e creatura unica, a sé stante, com'è giusto che sia, da che mondo è mondo.
Sei nel mezzo di un dosso, terminata la discesa del bambino che eri e iniziata la rincorsa per l'uomo che sarai, ragazzo ancora in tutto per tutto, senza un filo di barba né un pelo sulle gambe, proprio come alla tua età ero io. Adoro le tue battute, il tuo cervello lesto, persino gli scatti e le furie che ti prendono per un nonnulla, carattere di chi un carattere ce l'ha, pur se a volte ti vorrei diverso, meno volubile, più pacato, tranquillo. Ti osservo mentre cresci, quando sei in compagnia dei tuoi amici, specie in questo tempo di vita in cui l'indipendenza è un pane che si assaggia ogni giorno, uscendo la sera, andandosene in giro in bicicletta, scoprendo il mondo che esiste oltre la strada avanti e indietro casa e oratorio e campo da calcio, trascorrendo ore e ore senza un compito preciso né un doverne dare conto.
Mi accorgo adesso, e un po' ne provo imbarazzo, di quanto sciocchi fossero i timori che avevo quando eri piccino: che non trovassi la tua strada nel mondo, che frequentassi compagnie sbagliate, che avessi spirito gregario e ti facessi trascinare, ribelle a conto terzi, banderuola sbattuta dal vento. Non abbasso la guardia, semplicemente comprendo che di guardie non ce n'è bisogno, che nessuno può tenere a te più di te stesso e che un padre non è custode, semmai un compagno di viaggio.
Così mi godo i momenti con te, fianco a fianco - vedendo un film sul divano, discutendo su quale giocatore inserire nel fantacalcio, al ritorno da scuola sulla Vespa io davanti e tu dietro mentre mi dici: "L'aria in faccia, ecco quello che mi piace un sacco" - sapendo che a breve sarai ancor più indipendente e ce ne saranno sempre meno, ma l'intensità e il bene colmeranno gli spazi dei differenti percorsi, del ruolo distinto che abbiamo.
Ho una fortuna immensa, immeritata nel senso che non esistono meriti tanto grandi da poter giustificare un simile dono: ho avuto voi, tu e i tuoi fratelli, ma so benissimo che pur avendovi non mi appartenete e che lasciarvi crescere, lasciarvi andare, è l'unico modo per tenervi, oltre che per dimostrarvi quanto a voi tengo.

sabato 10 settembre 2016

Padri e figli (Ascoltarsi in silenzio)

Foto by Leonora
Mi sei seduto accanto, in auto, e non ho bisogno di guardarti per vederti così serio, quasi severo. Io ascolto e tu non parli e nemmeno a tentarci riesco a immaginare i tuoi pensieri. Provo soltanto un bene prorompente, sterminato, una tenerezza tanto intensa da superare quella di quando eri bambino e malfermo sulle gambe giocavi a pallone, in giardino, o quando da neonato te ne stavi lì, quieto, addormentato sul mio petto. Ora al massimo capita di abbracciarti, cingere quel corpo fatto uomo, avvertire sul viso la barba ispida, mentre te ne resti in piedi, più alto e largo di me, un palmo. Talvolta mi scopro ad osservarti da lontano, mentre sei con gli amici, e ridi, sereno. Mi domando spesso se tu lo sia, temendo l'esistenza di un cruccio o, peggio, che il cuor contento che eri da piccolo si sia perso in questi vent'anni di strada, rimasto sfregiato dai graffi che l'esperienza riserva inevitabilmente all'essere umano.
La tua voce, bassa, profonda, pacata, irrompe improvvisa, uno squarcio, ma uno squarcio che cuce, che in un istante cancella e annulla tutto attorno e nel mezzo restiamo soltanto noi due, tu e io. Mi accorgo allora pienamente di quanto sei cresciuto, anche dentro, provo ammirazione per l'uomo che sei diventato, anche se resti un ragazzo. Ascolto i tuoi ragionamenti e mi viene in mente il mio, di un padre. Sorrido pensando che anche con lui funzionava così: io gli parlavo quando lui sapeva restare in silenzio, davo risposte a domande che non poneva, pesce che affiora a pelo d'acqua se nulla increspa la superficie, se il lago rimane placido, indisturbato. (L'esatto contrario di molte madri, che invece interrogano di continuo lamentandosi di non sapere mai nulla, di sbattere sempre contro un muro).
Ogni stagione ha i suoi frutti, sono appagato da quelli che mieto adesso, accorgendomi di essere sul culmine di un dosso. Mi commuovo facilmente (vedendoti allenare i ragazzini, all'oratorio, ad esempio, o per un complimento che ti riguarda e che mi giunge all'orecchio). Non credo tu sia migliore di altri, non ho mai preteso lo fossi, preferendo l'eccezionalità delle persone normali, che sanno mettere in fila ciò che conta davvero, imparando da ciascuno e insegnando a nessuno. Neppure provo preoccupazione per il futuro, conscio che percorrerai la tua strada, augurandomi unicamente che tu sia appunto sereno, sorridente, cordiale e gentile con chiunque, per primo e soprattutto con te stesso.

martedì 30 agosto 2016

L come Luglio (e come L'America)

Foto by Leonora
L'America sono i ponti imponenti, tele di ragno che tengono sospese le strade a mezz'aria e cuciono sponde. Ce ne sono moltissimi, ma per percorrerli spesso si pagano: immagine emblematica di questo paese, che sa essere simbolo (ciò che unisce) e anche diavolo (ciò che divide, che tiene separato).
L'America, la mia America, quest'anno sono state due settimane nel nord-est, tra lo stato di New York e il Vermont, compresi dieci giorni ospite di persone splendide, che portano il mio stesso cognome e una gentilezza senza fronzoli, che bada al sodo e insegna molto.
Proprio come certi vini - ne fanno di ottimi, anche là, vini giovani, come dopo tutto sono loro - quella iniziata il 24 luglio scorso è una vacanza di cui si gusterà il sapore migliore tra qualche mese o anno, il tempo di decantare e far emergere ciò che alla fine conta davvero. Per il momento mi limito ad elencare qui i primi ricordi che mi vengono in mente, quelli che affiorano da sé, senza le briglie del pensiero.
  • La colonna sonora di J-Ax, imposta da Giovanni, Giorgia e Giacomo.
  • New York più sporca di come la ricordavo.
  • I viaggi in auto e le autostrade a quattro corsie, con il prato nel mezzo.
  • Gli scoiattoli rossi, che lì sono considerati invasori (qui gli invasori sono quelli grigi, i loro: questione di punti di vista).
  • Gli animali selvatici, moltissimi, che sbucano da ogni parte e convivono con l'uomo (coyote, puzzole, cervi, i chipmunks, cioè i Cip e Ciop della Disney e Alvin superstar della 20th Century Fox, serpenti, orsi, tassi, procioni...).
  • L'ossessione che Donald Trump diventi presidente.
  • Le case di legno, con il patio.
  • Lo stile italiano o greco delle abitazioni, ma di una Italia e una Grecia arcadica che hanno in mente loro.
  • Il rispetto delle regole e pure una burocrazia molto meno invadente della nostra, con una libertà simile a quella che qui c'era negli anni Settanta, quando - ad esempio - andare per strade di campagna su una vecchia auto senza targa e da rottamare non era uno scandalo né un crimine abominevole.
  • La lentezza ai margini dell'indolenza di chi svolge un lavoro a contatto con il pubblico.
  • I laghi vasti quanto un nostro mare, ma bassi, più dell'Adriatico.
  • Le distanze.
  • Gli spazi.
  • L'assenza di recinzione tra le case (avendo così tanto spazio a disposizione a dividere provvedono già le distanze: mi viene in mente il paragone con la Valtellina, dove per un termine di confine spostato di mezzo metro in un bosco o peggio in un prato si veniva alle mani e si portavano rancori destinati a durare generazioni).
  • I "garage market" del sabato mattino, perché gli americani sprecano molto ma buttano via poco (lo so, è una contraddizione, ma con le contraddizioni da che mondo è mondo conviviamo).
  • La fila lunghissima, di fronte alla chiesa di San Francesco, sulla Trentunesima, la domenica mattina, per fare colazione gratis.
  • La frutta fresca già pulita, già lavata, già selezionata, già confezionata.
  • I recipienti da un gallone, quasi quattro litri, di limonata.
  • I fast-food che hanno lo stesso nome e gli stessi arredamenti di quelli in Italia, ma sapori, menù e pietanze differenti (d'accordo Giovanni, non c'era il McToast, però non era il caso di farne un dramma cosmico e limitarsi a mangiare soltanto patatine per tutto il viaggio!).

sabato 27 agosto 2016

Su, coraggio (La faccia tosta di scrivere)

Foto by Leonora
Due mesi e un giorno. Due mesi e un giorno di silenzio qui e poche chiacchiere altrove. Il tempo di prendere fiato e togliere laccio e museruola ai pensieri, facendoli decantare come in una pozza, una pozza di acqua limpida e placida ma dal fondale scuro, quasi nero. Ho sciacquato i miei panni lì, guardando il mio volto riflesso, cercando di capire come posso essere migliore dell'uomo che sono.
Lo ammetto subito: non l'ho compreso. Però sono contento di ciò che mi è capitato nel frattempo: ho viaggiato parecchio, corso molto, camminato altrettanto, lavorato il giusto, letto tantissimo. Steinbeck, Faulkner, Tolstoj, Cronin, Bernanos... Compagni di viaggio ingombranti e discreti, che hanno moltiplicato le epoche vissute e i luoghi che ho visitato.
Una dozzina di volte ho deciso di scrivere qualcosa, altrettante volte ho rinunciato, consapevole dell'impossibilità - almeno da parte mia - di mettere nero su bianco qualcosa di serio, di definitivo.
Un'ambizione a cui ho rinunciato presto, mentre più difficile è stato superare la pigrizia subentrata nel mezzo. La supero oggi, più per rompere il ghiaccio che per un concetto di senso compiuto.
Se proprio dovessi scegliere un pensiero, uno solo, su tutti, direi che nella vita spesso occorre sfrontatezza, assenza di eccessivo pudore. In una parola, occorre "coraggio". Il coraggio della faccia tosta, anche, o della leggerezza, meglio. Il coraggio del non darsi troppa importanza, di non pretenderla soprattutto. Il coraggio dell'autoironia, di sfidare il senso del ridicolo. Il coraggio dei buoni propositi, dei progetti ambiziosi, delle aspirazioni ardite, dei sogni da realizzare e prima ancora da avere. Il coraggio di parlare, di esprimersi, di dialogare, dopo essere stati per lungo tempo in silenzio.

sabato 25 giugno 2016

G come Giugno (e come Fiducia)

Foto by Leonora
Sì, lo so che "fiducia" non inizia per g, ma febbraio è passato e altri mesi che cominciano con la lettera f non ce ne sono, mentre di fiducia c'è sempre bisogno, oggi più che mai, fidarsi l'uno dell'altro, dare per scontata - fino a prova evidente e contraria - la buona fede reciproca, cancellare le tentazioni di diffidenza, circospezione, sospetto.
Ho trascorso settimane da solo con me stesso, da solo anche quando ero in mezzo agli altri, pure i momenti in cui ridevo, scherzavo, chiacchieravo come se nulla fosse, all'apparenza tale e quale al Giorgio che sono sempre, in realtà più pensieroso del solito, persino un filo più preoccupato, senza un motivo preciso, semplicemente con un desiderio di fare ordine, di vedere chiaro, di eliminare i lacci e lacciuoli che limitano e vincolano al passo dopo passo quotidiano, come quei cavalli o quei buoi da tiro che tengono la testa bassa e non hanno altro orizzonte del solco già tracciato, del metro di terra davanti al loro naso.
Ogni tanto mi capitano i periodi così, in cui sono "selvatico" e in un certo senso ricarico le batterie, metto in fila sulla scacchiera torri, pedine, alfieri, regine e cavalli, senza conoscere la mossa che mi aspetta ma preparandomi a farla, in qualsiasi modo.
Tra i mille pensieri, a volte lisci e fini come fili di nylon, a volte ispidi e intrecciati o aggrovigliati che è difficile persino comprenderne coda e capo, quello della "fiducia" è rimasto pressoché fisso.
Fiducia generazionale, tra padri e figli; fiducia negli ambienti di lavoro, tra chi sta sopra e chi sotto; fiducia tra chi gestisce la cosa pubblica e chi è semplice cittadino; fiducia tra amici; fiducia anche in se stessi, nelle proprie abilità, nelle doti che ciascuno di noi ha, nella capacità di imparare dagli errori che facciano e di non ripeterli con la cocciutaggine di chi continua a pestare la testa contro un muro.
Fiducia. Fiducia come base di partenza, come atteggiamento. Fiducia come virtù, fiducia anche come proposito buono, come conquista quotidiana, con meno tensioni e più serenità. Fiducia come stile, come modo di vivere, meglio. Che tutto ciò sia utile poi non lo so: ma mi fido.

sabato 28 maggio 2016

"Anche meno" (La virtù del togliere)

Foto by Leonora
"Anche meno". Mi viene da ridere e insieme riflettere ascoltando l'astronauta Paolo Nespoli a Radio DeeJay (minuto 80.25) quando spiega che "lo Shuttle va in pensione non perché vecchio, bensì è troppo nuovo. Gli americani, così come noi, tendono a rispondere con la tecnologia a tutti i problemi che incontrano. Serve un sensore? Beh, ne mettono due. E poi cinque, dieci. Alla fine diventa una macchina così complessa che è impossibile da gestire. Nelle navicelle russe invece non c'è neanche il computer! Se non c'è, loro dicono, non si spacca. Noi restiamo increduli e dubbiosi, ma si può fare. E valutando la sicurezza, la navicella russa è persino più sicura dello Shuttle".
Più banalmente, tornando con i piedi per terra e senza andare nello spazio, capita anche a me: quando l'auto nuova si blocca non posso far altro che chiamare il carro attrezzi, se invece ha problemi di avviamento la Vespa (anno di immatricolazione 1984) basta spingerla e nove volte su dieci si mette in moto
Lo scrivo con un filo di imbarazzo, essendo pienamente figlio del mio tempo, invaghito, affascinato, intrigato da tutto quel ben di dio di aggeggi che la tecnologia sforna di continuo.
A volte tuttavia togliere è meglio che aggiungere. Vale anche per l'arte (lo scultore con il blocco di marmo, lo scrittore con le parole...) e talvolta pure per la vita.
"Anche meno" potrebbe diventare uno stile, un metodo, una stella polare e un'àncora al tempo stesso.
Ecco allora, tanto per non restare nel vago, alcune indicazioni pratiche che hanno valore e significato di buon proposito per il sottoscritto.
Meno libri ma quelli che restano leggerli.
Meno cibo, gustandolo.
Meno riguardo per il denaro, spendedolo senza avarizia né prodigalità.
Meno fesso: anche se lo siamo tutti prima o poi e - chi non lo è - facile sia un arrogante o un farabutto.
Meno ipocrisia.
Meno carne sotto i denti e nella pancia.
Meno applicazioni nel telefono.
Meno chiacchiere banali.
Meno scatti di nervosismo.
Meno scarpe e vestiti nell'armadio (tanto poi metto sempre quel paio).
Meno tempo libero sciupato.
Meno tentazioni e magari in più qualche vizio o sfizio.
Meno ascensori da prendere.
Meno paranoie di fronte alle novità o al cambiamento.
Meno giudizi prima di "camminare almeno tre lune nei mocassini dell'altro".
Meno consigli inutili e scritti retorici. E qui, per coerenza, mi fermo.

lunedì 16 maggio 2016

Cartoline vista lago (La rabbia e l'orgoglio)

Guardo sempre con sospetto gli album dei ricordi che hanno stampato sulla copertina "Io c'ero". Al rischio di esagerare con la retorica si aggiunge quello di apparire ridicolo, come lo sono i re nudi e i Napoleone da manicomio.
Corro comunque il rischio per una buona causa, riassunta oggi da Giorgio Gandola (qui il suo editoriale): "A Como riparte la battaglia di civiltà per rivedere il lago da piazza Cavour. Dopo otto anni e per merito del giornale La Provincia. Come ai vecchi tempi, quando il cane Pluto scoprì la malefatta. I lettori sono invitati a firmare una cartolina inserita nel quotidiano - martedì, giovedì e domenica - e a consegnarla all'edicola per coinvolgere Renzi. Per abbattere i muri serve sempre una spallata".
Conosco bene l'argomento, non mi dilungherò raccontando nel dettaglio il giorno in cui Innocente Proverbio scrisse al giornale dicendo che avevano costruito un muro (la lettera arrivò sulla scrivania di Pietro Berra che lo richiamò per accertarsi che con un nome così non si trattasse di uno scherzo). Non aggiungerò nulla sul sabato in redazione quando venne il momento di pubblicare le migliaia di nomi e cognomi di comaschi che avevano scritto al giornale chiedendo di abbatterlo (verso le sette di sera il capo redattore Francesco Angelini e il manipolo di valorosi in Cronaca non erano ancora certi di riuscire a metterli in pagina tutti, quei nomi). Non occorre neppure ricordare il lavoro che l'intera redazione svolse per settimane (un grazie però lo meritano Emilio Frigerio, Stefano Ferrari, Gisella Roncoroni, Paolo Moretti, lo stesso Pietro Berra, Anna Savini, insieme con Michele Sada, Dario Alemanno e Alessio Brunialti).
Ricordo tutto questo e molto altro, ma domani compilerò la cartolina de La Provincia per un motivo più banale, concreto: il danno che il progetto funesto delle paratie ha causato al di fuori di Como.
Ne ebbi completa consapevolezza un paio di settimane dopo essere arrivato alla direzione del Cittadino di Monza, quando a quello che consideravo un buffetto rispose incrociando i guantoni da pugilato l'allora prima cittadino brianzolo. Della gragnuola di epiteti incassati, soltanto uno mi mise in crisi davvero. Fu quando mi sentii dire a bruciapelo: "Ma cosa volete insegnare voi comaschi, che avete costruito il muro!".
"Io il muro non l'ho costruito" avrei voluto rispondere, "io sono uno di quei giornalisti e di quei comaschi che il muro l'ha fermato!". Invece stetti zitto. Perché tutti i torti quel sindaco non li aveva, un po' in colpa mi sentivo davvero, avendo fatto molto ma non abbastanza per impedire quello scempio.
Quattro anni dopo siamo ancora qua, fermi come il palo della banda dell'Ortica che "per sentirci ci sentiva poco o niente ma per vederci non ci vedeva un accident". Non so se compilare una cartolina servirà, non so se Renzi ascolterà, non so se potrà combinare qualcosa più del nulla di chi finora ha messo mano, per quello che importa però io ci sono. Con le prime firme abbiamo bloccato il muro, con queste speriamo venga restituito alla città il lago.

sabato 14 maggio 2016

Grazie Bianconiglio (Punti di sutura e cicatrici)

Foto by Leonora
Punti di sutura. Sono quelli che tocco con mano tra l'occhio e lo zigomo sinistro, ricordo di una rissa quand'ero bambino, la prima e non a caso l'ultima in cui mi sia mai cimentato.
"Le ferite si rimarginano ma le cicatrici restano". Me lo disse, con una nota di asprezza ma con tono benevolo, accalorato, l'amministratore delegato poche settimane dopo il mio arrivo alla direzione del Cittadino. Abituato alla lievità e alla schiettezza di Como mi mancava l'esperienza di comprendere che il contesto ha sempre importanza, oltre che significato. Non mi pento di quei giorni di svolta per il giornale, i lettori apprezzarono e vendemmo più copie di quanto fosse accaduto negli anni immediatamente precedenti, ammetto però che avrei potuto essere meno maldestro, più accondiscendente non nello scrivere e tanto meno nel dare notizie, bensì nel tessere buoni rapporti con tutti, perché - parafrasando una frase che mi è cara - "il giornalismo è importante, ma la vita lo è di più".
L'ho presa larga, come al solito, ma l'immagine dei punti di sutura non m'è venuta in mente guardandomi allo specchio né ripensando ai miei primi giorni monzesi.
La terra. La terra, il luogo dove abito e dove il sabato e la domenica vado a correre o passeggio con il cane, i medesimi posti che mi hanno visto crescere, dove andavo ad arrampicarmi sugli alberi o a giocare a due bandiere quand'ero ragazzo. Le coordinate sono le stesse, il paesaggio visto dall'alto pressoché identico, differente è invece osservandolo da vicino: le piante e il verde hanno ripreso vigore sullo squarcio fatto dalle costruzioni negli anni Sessanta e Settanta, ridotto sensibilmente è l'intreccio di rovi e sterpi causato dall'abbandono della campagna a favore delle fabbriche, sempre in quegli anni, lasciando ora posto a un paesaggio più curato, così come nuove piste e vecchi sentieri sono tornati percorribili, accanto al letto dei torrenti e tra i boschi. Sono questi dettagli che ai miei occhi paiono punti di sutura tessuti con l'ago e il filo di una nuova sensibilità, di una maggiore attenzione all'ambiente e alla possibilità di viverlo appieno, senza farne scempio. Punti di sutura che non hanno cancellato le ferite, medicandole però, dando nuova forma, vitalità, armonia. E lo stesso vale per la città. Ogni volta che vado a correre al parco della Trucca, a Bergamo, mi si apre il cuore. E così in quello di zona Loreto, dove non è raro, mentre si cammina, vedersi attraversare la strada da un coniglio selvatico.
E' stato proprio uno di loro, un animaletto non più grande di un palmo e spuntato all'improvviso come il Bianconiglio di Alice, a suggerirmi di vedere le cose in modo diverso. Lo ha fatto senza proferire suono, semplicemente piazzandosi davanti e inducendomi a rallentare e portare la mano al volto, sentendo così il lieve solco lasciato dal medico che mise i punti al mio sopraciglio e rammentando in quello stesso istante, per associazione di idee, le altre ferite, quelle che "poi si rimarginano ma rimane il segno". Ai punti di sutura ho pensato proprio lì, in quell'attimo esatto, realizzando che nonostante gli errori che facciamo non è mai troppo tardi per porre rimedio e se ci mettiamo intelligenza, passione, impegno le cicatrici possono avere pure un che di affascinante, di bello.

giovedì 5 maggio 2016

M di Maggio (e Meraviglia)

Foto by Leonora
Occhi nuovi. Guardano me, senza vedermi. Sono quelli dei ragazzi tra i diciassette e i diciotto anni che riempiono il piazzale antistante il teatro di Colognola. Apparteniamo a generazioni differenti e ho imparato ad essere ignorato esattamente come avviene ai rami di un albero, al selciato del marciapiede, alle auto che sfrecciano sulla via accanto: oggetti qualsiasi che esistono e che rientrano nel campo visivo per un motivo che non li riguarda da vicino.
Non è cattiveria o maleducazione, semplicemente non appartengo al loro mondo, sono estraneo nel senso letterale del termine: una persona fuori dal contesto, che resta assente fino all'istante in cui per una coincidenza o un motivo particolare viene inquadrata e classificata nella categoria degli "adulti", esseri umani di una specie simile soltanto vagamente alla loro.
Occhi nuovi sono pure i miei, che invece li osservo meticoloso, scorgendone i particolari, tentando di indovinare che tipi di persone sono, che uomini e donne diventeranno, con la sensazione perfetta di assistere a un passaggio epocale: vagoncini dell'otto volante al culmine della salita e pronti a tuffarsi nel vuoto, farfalle che spiegano le ali uscendo dal bozzolo.
E' uno sguardo di meraviglia il mio e uno sguardo di meraviglia vorrei avessero sempre quei ragazzi, una continua ed inesauribile capacità di stupirsi di fronte a ciò che è grande, diverso, nuovo.
A loro e anche ai miei figli - Giovanni, Giorgia, Giacomo - che hanno più o meno la stessa età, non ho nulla di imprescindibile da dire: so che la strada, qualsiasi essa sia, la troveranno da soli, sbattendo il muso, se proprio proprio, ma confidando in piedi buoni, testa, mani e cuore per affrontare tutto, compreso il momento in cui saranno loro gli "adulti" e si accorgeranno di essere invisibili per chi ha venti o trent'anni in meno.
P.S. In verità una cosa nell'orecchio di Giovanni, Giorgia e Giacomo vorrei dirla. E' una cosa che anche io ho imparato dai miei genitori, pur se non in modo diretto, perché mio padre e mia madre erano grandi davvero: facevano capire le cose senza bisogno di dirle. Proprio in quel modo ho capito che nella vita non mi sarei dovuto vergognare del lavoro più umile, purché fatto con dignità, ma al contempo avrei potuto ambire al posto migliore, fosse anche ciò che gli altri definiscono "sogno": il calciatore di serie A, il presidente della Repubblica, un premio Nobel, il direttore di giornale, uno scienziato... Puntare in alto, poter aspirare al massimo, senza biasimare il basso, con la possibilità di andare avanti e anche indietro: credo sia stata questa la dote più bella che ho ricevuto in dono. Un dono che merita di essere tramandato.

sabato 16 aprile 2016

La pazienza del corniolo (Non diamoci troppa importanza)

Il "cornus rubra" in fiore
I colori sgargianti hanno il sopravvento in questa stagione di principio ch'è la primavera, con le giornate che si allungano, la luce che si distende come vernice, senza bisogno di pennello.
Lascio da parte le misere preoccupazioni quotidiane, concentrando l'attenzione su una pianta messa a dimora a lato del giardino. E' un "cornus rubra" (chiamato comunemente "corniolo") ed era stato scelto quattro o cinque anni fa per la fioritura splendida, un rosa acceso e impertinente, uno spesso ricamo della natura, che lo adorna da cima a fondo.
Rari erano però finora i boccioli e rachitici i petali, fragili persino i rami, tanto che talvolta non nego mi sia passato per la testa di dargli un taglio, netto.
Quest'anno invece, in un aprile all'apparenza come tutti gli altri, forse un po' più caldo, forse un filo più umido rispetto a quello passato, ecco che il cornus s'è ammantato di quei fiori stupendi che invano negli anni scorsi avevamo aspettato e ora fa bella mostra di sé, tra lo smeraldo dei prati, il rosso dell'acero, il verde carico del faggio e quello più tenue del fico.
Lo osservo ogni volta che torno a casa e me ne compiaccio, pur non avendo io alcun merito, con la natura che semplicemente ha fatto il suo corso. Lo fa sempre, la natura. Semmai siamo noi figli frettolosi e impazienti del creato a pretendere di dettare i ritmi, a incapricciarci se il corso degli eventi è differente da ciò che desideriamo. Una consapevolezza che mi prostra e nel contempo porta conforto: se infatti esiste uno scorrere più imponente di qualsiasi nostro sforzo, eccessivo è allora ogni affanno e tanto vale abbandonarsi al fluire placido del tempo, che tutto modella, tutto plasma, a proprio piacimento. Ciò non significa disinteressarti di tutto, bensì non darsi eccessiva importanza, comprendere la giusta portata del nostro impegno, accettandone i limiti, sapendo che tutto non inizia e non finisce con noi, ma c'è stato sempre un prima e ci sarà sempre un dopo.

giovedì 7 aprile 2016

Sereno è (passione non fa rima con astio)

Foto by Leonora
"La politica è importante, ma la vita è più importante della politica". Lo ripeteva spesso una persona che considero tuttora un maestro, anche se è da qualche anno che se n'è andato.
"La politica è importante, ma la vita è più importante della politica". Non l'ho mai dimenticato, cercando di distinguere sempre la passione dalla foga, la razionalità dall'istinto, il confronto dallo scontro, i principi ideali dal tifo, le ragioni degli altri dai torti, compresi i miei.
"La politica è importante, ma la vita è più importante della politica". Sarà per questo che rimango basito, quasi sconcertato, osservando le reazioni scomposte, violente persino, quando si tratta di argomenti riguardanti il bene che dovrebbe essere comune e che invece ciascuno considera proprio.
Lo noto nelle questioni nazionali, con un livello di astio e volgarità da scandalizzare Attila l'Unno, e pure in quelle più banali del paese dove abito, anche da persone che considero amiche e con le quali non dovrebbe essere difficile trovare un punto di incontro.
Serenità. Serenità è ciò che manca, che serve, che cerco. Serenità di giudizio, serenità nel dialogo, serenità nella consapevolezza che per quanto le decisioni possano essere delicate nulla attiene la vita e la morte e tutto si può cambiare anche senza mostrare i muscoli o alzare della voce il tono.

venerdì 1 aprile 2016

A di Aprile (e Attimo)

Foto by Leonora
Un mese. Un mese esatto, senza nemmeno un rigo, perché se si ha talento limitato o non lo si deve fare per mestiere pure lo scrivere, visto dalla parte del lettore, rischia di diventare arido, banale, noioso.
Un mese è lungo e corto insieme: una campata di ponte in cui ci sta tutto.
Nel mio caso c'è stato sopratutto un libro, che ho letto come scalando una montagna, con un misto di piacere e sofferenza, tanto che il più delle volte non riuscivo ad andare oltre le dieci pagine al giorno. Un libro che mi è entrato sotto pelle, che mi ha stretto il cuore, che ho trovato ricco ed estenuante insieme, evocando esso ancestrali paure e una realtà fotografata allora, negli anni Trenta del secolo scorso, ma che resta attuale oggigiorno.
"Furore". Il titolo è questo. L'ha scritto John Steinbeck ed è un capolavoro.
Insieme a "I Miserabili" di Victor Hugo lo metto in cima alla scala dei romanzi preferiti, poiché entrambi alla sapienza della scrittura e alla prorompente sorgente narrativa abbinano l'interesse per il destino dell'essere umano, la tensione verso un mondo più giusto.
Tralascio qui gli spunti e le riflessioni infinite che mi ha suscitato, preferisco appuntare a futura memoria un momento di felicità perfetto.
Era martedì, stavo finendo il penultimo capitolo disteso sulla pietra calda e piatta di un masso, in Liguria, a Ospedaletti. Il rumore del mare si confondeva con quello del vento, il sole splendeva alto, le dita avvertivano la consistenza coriacea e porosa della carta, leggevo avido parola dopo parola, con la consapevolezza di colui che dopo aver scollinato si lancia in discesa e pregusta il traguardo. Ad un tratto, non ricordo per quale frase, ho avvertito una totale pienezza, un senso di equilibrio assoluto e di sintonia tra ciò che stavo leggendo e il mondo in cui ero immerso.
E' stato un attimo, un attimo di sospensione tra spazio e tempo, un istante di allineamento cosmico, tanto che ho sentito l'urgenza di alzarmi, di neppure guardarmi appresso e di dirigermi a passi lenti fino al termine del molo, avvolto in pensieri indefiniti e precisi al tempo stesso, con la consapevolezza di non poter restare con le mani in mano, di essere chiamato a qualcosa di alto, di utile per gli altri e per me stesso.
Se dicessi che quel "qualcosa" so cosa sia affermerei il falso. Per intanto, colgo l'attimo.

martedì 1 marzo 2016

M di Marzo (e Memorandum)

Foto by Leonora
Tre considerazioni che voglio condividere qui, oltre che conservare a futura memoria.
Primo: è la passione con cui si fa il proprio lavoro a fare la differenza. Di più. E' la passione con cui si fa "bene" il proprio lavoro, curandone i particolari, cercando continuamente di migliorarlo, provando piacere - invece di ansia - per le novità,  per la scoperta. Non è questione di mestieri, è una regola che vale per l'astrofisico quanto per chi lustra il pavimento di casa, in ciabatte. Una professione si può apprendere o inventare, la passione invece è una dote innata, un segno distintivo della personalità, della formazione del carattere. Il lavoro si può perdere, la passione no. Ed è grazie ad essa che qualsiasi lavoro diventa parte stessa dell'esistenza, senza alcuna cesura e dunque stemperando assai la fatica.
Secondo: è la conoscenza che rende minime le distanze e permette l'integrazione tra diversi. L'ho avvertito chiaramente questa sera osservando la registrazione di Pinzimonio, una trasmissione fatta dai ragazzi ma rivolta non soltanto ai loro coetanei. In studio insieme a Daniele, Marianna, Sebastiano, Martina, Giacomo e Sharon c'erano Nanà, Maua e Fatma, anch'essi poco più che diciassettenni, scura la pelle, ciascuno proveniente da terre diverse. Non hanno fatto grandi discorsi, non si sono persi in dissertazioni sociologiche, si sono limitati - se di limite si può parlare - a raccontare la loro esperienza, elencando fatti e sensazioni. Ed è così, conoscendoli appunto, che l'indifferenza è diventata curiosità e poi simpatia, esattamente com'è capitato con i loro compagni, che al loro arrivo in Italia, per usare l'espressione usata da una professoressa, "li avrebbero bruciati, mentre ora sono diventati amici".
Terzo: non ho mai scritto un libro, ma infiniti sono quelli che vivo, incontrando persone nuove e conoscendo meglio quelle con cui esiste già un legame. Da qualche tempo ho imparato a non misurare l'orizzonte, badando piuttosto a che sia bello e buono ogni momento, ogni contatto con chi incrocia per un motivo o per l'altro le mie impronte. Non ho mai chissà quali mire o aspettative o obiettivi prefissati, vivo il piacere della scoperta (e della riscoperta) e delle attenzioni reciproche, proprio come fosse uno sfogliare di pagine, un libro che invece di sole parole e fatto di materia psichica e fisica e la cui trama non è definita da qualcun altro, ma giorno per giorno viene tessuta, insieme.

mercoledì 24 febbraio 2016

Attenti al lupo (Ridere senza offendere nessuno)

Foto by Leonora
Il branco non è soltanto quello di lupi, né l'uomo che fa impallidire la bestia e stupra, annichilisce, violenta il debole, l'indifeso. Il branco sono anche persone che restano all'ombra oltre la luce di uno schermo, facendosi forza l'un l'altro, come valanga che diventa greve lungo il pendio.
Un caso lo conosco da vicino: un frammento di trasmissione della televisione in cui lavoro.
Risale a quasi un mese fa, ma è diventato famoso ieri l'altro, dopo essere stato ripreso da una pagina che va per la maggiore in Facebook. L'episodio in sé è simpatico: una ragazza ospite di un programma sportivo di intrattenimento - una sorta di Quelli che il calcio in versione locale - viene invitata dal conduttore a leggere la classifica di serie A e confonde i punti con la posizione.
La gaffe è talmente clamorosa da farci quattro risate e in effetti le fanno, le facciamo anche noi e pure lei, quando glielo fanno notare. Basta però che il taglia e cuci di quell'intervento sia pubblicato sulla pagina di "Calciatori Brutti" e si scatena l'inferno. Non soltanto risate, com'è giusto, ma una pletora sterminata di insulti, di illazioni, di offese, che vanno dalle ipotesi più ardite sul motivo per cui la ragazza è stata invitata in studio alle prefiche sull'assenza in Italia del concetto di merito e via di questo passo, tromboneggiando, spargendo sale e fiele, spalleggiandosi l'un l'altro, in una gara a chi la spara più grossa e si indigna di più e denigra peggio. Con conseguenze e frasi sconclusionate che sarebbero anch'esse divertenti se non contenessero una tale carica di odio da far passare in secondo piano tutto il resto.
Perché lo scrivo qua? Per un motivo spiccio e personalissimo, perché queste pagine al nocciolo hanno un destinatario fisso, cioè i miei figli, chi sta diventando cittadino del mondo. Senza alzare la voce, allora, senza pretendere di essere ascoltato quale oracolo, vorrei che non vestissero mai i panni del fustigatore becero, vorrei che non si confondessero nel gruppo e menassero legnate senza cervello.
E' vero che ho insegnato loro a ridere di tutto, persino dei fatti più tragici, e che preferirei perdere un amico piuttosto che una battuta, ma tra l'ironia o il sarcasmo persino e la clava dell'insulto passa un oceano intero. Affondarci è facile, specialmente in gruppo.
P.S. Ludovica, entrata nell'occhio del ciclone, ha tutta la mia solidarietà. La sua gaffe è assai più innocente e meno grave delle offese e delle inesattezze nei suoi confronti. Volevo dirglielo, anche in pubblico.

venerdì 5 febbraio 2016

Sedici anni (Pane caldo e uva americana)

Foto by Leonora
I tuoi sedici anni, oggi. Vorrei bloccare il tempo, congelarlo come si fa con le provette e l'azoto, per averti sempre così, splendida e splendente, nell'aprile dei tuoi anni, sorridente di quel sorriso in bilico tra l'innocenza che non è più innocenza e la malizia che non è ancora malizia.
Nessun espediente però cattura e intrappola la magia della tua età senza guastarla e alla fine soffocarla, ucciderla. Gusto perciò l'attimo, questo battito d'ali breve ed intensissimo, istante perfetto di felicità, conscio di avere un'immensa fortuna già ad essermene accorto.
Non è accontentarsi, semmai l'opposto: godere pienamente di piccole gioie che porto idealmente al collo, grani perenni di un rosario gaudioso e umanissimo.
Come quando mi infilo nel tuo letto ogni tanto, la sera, e tu hai occhi e dita incollate al cellulare e mi dici sbuffando "Dai, papà!" ma poi porti pazienza e ridi mentre ti canto "Un corpo e un'anima" di Wes e Dori Ghezzi (due che se si presentassero oggi a Sanremo farebbero girare canale a quattro italiani su dieci perché no, gli extracomunitari con le nostre donne non li vogliamo) o "Tornerò"dei Santo California (con i cantanti che avevano senza saperlo il look degli iracheni durante il regime di Saddam Hussein eppure negli anni Settanta spopolavano). E poi canti anche tu e ti fai grattare la schiena, come piaceva a tua nonna che non hai conosciuto. O come quando fai la lotta con Giovanni e gli tiri i cuscini e lui fa versi da maiale sgozzato, che per fortuna non abitiamo in un condominio altrimenti ci avrebbero già denunciato. O ancora quando torni la sera tardi tardi ma sei con Giacomo e senza dirvi una parola vi ascolto congedarvi, ciascuno verso la propria camera, mentre continuo a tenere gli occhi chiusi per cercare il sonno e ringrazio il cielo che siete sani e salvi, al sicuro. Oppure quando abbassi gli occhi, diventati lucidi e con un lacrimone all'angolo, dopo l'ennesima ramanzina di tua madre, perché hai tenuto spento il telefono o hai lasciato disordine dappertutto.
Gesti banalissimi conservati nelle gocce d'ambra della memoria, preziosi più di un gioiello.
Auguri allora, figlia mia. Tu sai quanto poco assomigli la nostra famiglia a quella del Mulino Bianco, eppure grazie a te la mia vita profuma di pane caldo e uva americana ogni giorno.

lunedì 1 febbraio 2016

F di Febbraio (e Fortuna)


Foto by Leonora
Sono un uomo fortunato. Sono un uomo fortunato nel senso che mi rendo conto dei mille doni che ho ricevuto, di quante volte si è aperta la porta giusta e non quella che mi avrebbe fatto arrivare dritto sul grugno un autobus o il treno.
Sono un uomo fortunato, lo ripeto spesso, a dispetto della scaramanzia e del timore atavico che l'invidia altrui possa fare da sgambetto. Un'ostentazione che non odora di superbia, né si fa beffa della precarietà della condizione umana, bensì ha radice nel sentimento di riconoscenza, avendo ricevuto in dote più di quanto mi sia stato tolto.
Semmai, se ho una convinzione irrazionale ma profonda, è quella che fortuna chiami fortuna, che è poi lo stesso motivo per cui mi arrabbio quando un famigliare si lamenta oltre modo, arrivando persino a rinfacciargli la teoria della "profezia che si auto avvera" e di non venire a piangere poi,m che io l'ho avvisato.
Sono un uomo fortunato e alla fortuna debbo tutto, anche se ammetto che in alcune circostanze cruciali - senza scomodare Machiavelli - ho avuto il merito di coglierla al balzo, dimostrando quanto valevo.
Sono un uomo fortunato anche perché da piccolo desideravo un sacco esserlo, specie quando ascoltavo le fiabe sonore, quelle del "A mille ce n'è..." e in particolare il Gatto con gli stivali e I tre capelli d'oro dell'orco. Chiuso nella mia cameretta, mangiadischi alla mano e libro con le figure sotto gli occhi, rimanevo affascinato da colui o colei che nasceva "con la camicia". Nella mia placida e serafica ingenuità davo a questa espressione un significato reale, fisico, e non nutrivo dubbi che davvero qualche bimbo potesse essere così fortunato da nascere vestito di tutto punto. Ricordo pure la delusione quando interrogai mia madre scoprendo che io no, ero nato nudo, come chiunque altro.
Se ci ripenso credo che il seme dell'ambizione nel diventare qualcuno sia maturato in quel momento, dalla consapevolezza di non avere alcunché di speciale e al contempo dal desiderio di non rassegnarsi al destino.

sabato 23 gennaio 2016

Famiglia al plurale (Contro gli steccati)

Foto by Leonora
Famiglia. Ne avevo una quando sono nato, la mantengo anche se nel frattempo ne ho formata un'altra e formandone un'altra mi sono intrecciato ad altre famiglie a cui sono legato.
Ed è proprio questo mischiarsi, questa gemmazione continua che esiste da che mondo e mondo, il tratto caratteristico della famiglia rispetto al singolo individuo. Non la chiusura, non l'idea di recinto, di steccato, che diamo quando la disegniamo delineandone i bordi in modo preciso, specialmente se lo facciamo per scopo propagandistico o politico.
La famiglia è un'istituzione naturale, prescinde e comprende tutto. "Senza famiglia" è il titolo di un libro (quanto ho pianto da ragazzo, vedendone in tv la versione cartone animato) ma senza famiglia non lo è nessuno.
Ecco perché oggi rifuggo le polemiche sia pro sia contro il Family Day, dichiarandomi fieramente neutro, non avendo bisogno di brandirlo come spada né di combatterlo ritenendolo un ipocrita feticcio.
Piuttosto sono lieto che Giacomo oggi, come dono per il suo compleanno, abbia chiesto di cenare tutti assieme, a casa, non soltanto noi cinque, ma anche nonna, zii, cugini, amici persino. Lui il Family Day non sa neppure cos'è, credo, però il significato positivo di famiglia lo ha stampato nel cuore ed è forse il più bel regalo che lui fa a me e a noi, ogni giorno.

P.S. Tanto per rimarcare il concetto, è famiglia quella a tinte pastello del Mulino Bianco e pure quella nero lutto evocata nel Padrino. C'è chi scrive che "famiglia" è dove ci sono persone felici e io obietto pure su questo, perché mai mi sono sentito parte di una famiglia più di quando volavano urla e c'erano attriti e dolore o pianto. Ognuno può chiamare "famiglia" ciò che vuole, però nulla cancella la sostanza di quella che è la famiglia davvero e che non ha mai pronome singolare, mia o tua o sua, ma soltanto plurale, nostra, vostra, loro.

domenica 17 gennaio 2016

Oltre la rete (La generazione delle attese)

Foto by Leonora
La partita è amichevole, tra ragazzini che hanno compiuto appena tredici anni. I genitori avversari sono ammassati alla rete di protezione e incitano, spronano, commentano, urlano, inveiscono. Colgo spezzoni di frasi qua e là. "Dai, si capiva che rimbalzava male!". "Corri, corri, altrimenti resta a casa a dormire!". "Passala, passala che è libero!". "Ma basta! Possibile che sbagli sempre l'appoggio!".
Ficco la testa nel cappuccio per ripararmi dal vento artico che arriva alle spalle, la bolla che si crea mi permette di assistere alla scena da perfetto spettatore e mi scopro un po' innervosito a pensare: "Perché non ci vai tu in campo? Perché non metti maglietta e calzoncini e prendi il posto di tuo figlio, lì in mezzo a quel terreno gelato, dove le scarpe coi tacchetti fanno un rumore da ballerino di tip tap che anche Maradona avrebbe difficoltà a non scivolare? Cosa facevi di così grande quando avevi la loro età per permetterti ora di giudicare e sbraitare? Hai mai provato a giocarla una partita, con il fiatone, mentre tutti ti corrono incontro e tutto è appiattito, che quando ti arriva la palla tra i piedi è già un miracolo non inciampare?".
Tolgo il cappuccio e con il tepore del sole sul volto la stizza lascia spazio alla comprensione, alla solidarietà tra coetanei, loro gridano meno e io li capisco di più, ammetto a me stesso che anche io - pur pacato - non sono esente da atteggiamenti simili, cerco persino giustificazioni: "Lo fanno per il loro bene. Lo facciamo per il loro bene".
No. Crediamo di fare il loro bene, invece accade esattamente il contrario: stiamo crescendo una generazione che ha caricato sulle spalle tutto il peso dei nostri sogni, delle nostre attese. Non soltanto rispetto all'orizzonte di vita, cioè la famiglia, il lavoro, gli affetti, ma anche e soprattutto in quelle riserve indiane che dovrebbero essere lo sport, il gioco, i passatempi.
Spazi di autonomia nei quali i miei genitori neppure si sognavano di interferire, limitandosi a una regola elementare: "Pensa a studiare oppure vai a lavorare, perché a fare niente di certo nella nostra casa non puoi stare". Punto. Nonostante fossi figlio unico e dunque discretamente coccolato, mio padre non è mai venuto a vedermi giocare, mia madre nemmeno la riteneva tra le possibilità remote, così pure i papà e le mamme dei miei compagni.
Trent'anni dopo è un mondo cambiato radicalmente. Io per primo non mi perdo una partita dei miei figli, figuriamoci un saggio di chitarra o di danza moderna, anche se in quel caso mi annoio maggiormente.
Parlo per me stesso, non vorrei generalizzare, tuttavia ho la sensazione che stiamo crescendo ragazzi a cui abbiamo tolto il desiderio, concedendo loro tutto, e che di rimbalzo rischiamo di schiacciare con il peso delle nostre aspettative.
Mi consolano e sollevano un'intuizione e una constatazione.
La constatazione è che l'essere umano riesce da milioni di anni a cambiare e adattarsi, superando gli ostacoli che di volta in volta ha di fronte: lo faranno anche i ragazzi di questo tempo.
L'intuizione è conseguente al fatto che i miei figli sorridono comunque. Anzi, spesso ridono proprio e dunque sospetto che al di là dell'amore e del rispetto che mi portano, in realtà quando guardano oltre la rete o sulle tribune, io e gli altri genitori dobbiamo sembrargli tanti scimpanzé o bestie curiose, che sbraitano, gesticolano, inveiscono credendosi tanti Maradona, mentre al più hanno vinto una volta a palla avvelenata, quando gli altri erano in bagno.

domenica 10 gennaio 2016

Il riflesso di Medusa (Raccontare storie)

Foto by Leonora
Ci sono mattine come questa, umide, con la nebbia, mattine di gennaio che sembra novembre, in cui il silenzio è come una mano che avvolge, mentre il tempo scorre lento, tanto che è quasi un rumore, l'unico che puoi percepire.
Mattine in cui penso al valore di raccontare storie, perché se vedo o leggo di un padre che sgrida il figlio mi commuovo, mentre se sono io quel padre resto indifferente.
Raccontare storie è il gesto di Perseo che uccide Medusa senza guardarla negli occhi, usando lo scudo per scorgerla attraverso il riflesso, evitando così di rimanere pietrificato.
Rimanere pietrificati è l'equivalente di quel restare indifferenti di cui scrivevo prima, quell'ostinazione nel compiere un'azione nonostante ci si renda conto che è sbagliata, senza però trovare la forza e il coraggio di cambiare registro. Mi accade nei piccoli gesti, come appunto sgridare esageratamente un figlio oppure discutere in famiglia su dettagli da niente o arroccarmi in un silenzio ostinato, ma pure in alcuni atteggiamenti a mente fredda: una certa pigrizia, ad esempio, evitando di fare qualcosa di utile, con costanza e medoto.
Oggi perciò chiedo perdono a Giovanni, per tutte le volte che lo prendo in giro sottolineando un suo difetto; a Isabella che deve sopportare i giorni in cui mi chiudo a riccio e ho i nervi a fior di pelle, tanto che è inutile sia trattarmi con riguardo sia prendermi di petto; alle persone povere che mi tendono la mano mentre passo oltre, con la scusa che non potendo aiutare tutti tanto vale preoccuparsi di nessuno; agli amici che non sento da parecchio e che spesso mi vengono in mente, ma con il proposito di voler dare loro molto non faccio neppure quel poco che basterebbe per far sentire che sono a loro vicino.
Chiedo perdono oggi, sapendo che domani tornerò ad essere in difetto, sollevato però dalla constatazione che non tutto è perduto, poiché riesco ancora a distinguere giusto e sbagliato.

P.S. Pioveva a dirotto nel primo pomeriggio di otto anni fa, quando camminavo accanto a mio padre per l'ultima volta, io mano nella mano ai miei figli, lui in una cassa di legno. Essendo negato nel ricordare le date è stata mia madre a fare memoria di questo anniversario, eppure io che non credo nei segni qualche segno - devo ammetterlo - lo avevo ricevuto, in sogno, ieri l'altro, quando nel dormiveglia mi sono trovato a pensare al grande nulla, che c'è dopo, come un buio intenso, un'assenza totale, un vuoto nero, in quel momento però non spaventevole, accogliente anzi, come una tregua dal tutto. Così mi sono trovato a pensare alla morte, con la consapevolezza tuttavia che essa non fosse la fine e che la pace che sentivo fosse dovuta alla sensazione che dietro quella barriera, quella bolla color pece, ci fosse qualcuno, per l'esattezza mio padre, che stava sorridendo.

venerdì 1 gennaio 2016

G di Gennaio (e Gentilezza)

Foto by Leonora
Gennaio. G. Gentilezza. Il primo aggettivo per associazione di idee, un buon proposito per l'anno appena cominciato e una virtù che apprezzo nei gesti di chi incontro sulla mia strada.
Gentilezza contrapposta all'arroganza, gentilezza come antidoto all'indifferenza, gentilezza nei modi, gentilezza che fa rima con dolcezza e va a braccetto con garbo, misura, eleganza. Gentilezza di cuore, spontanea, ma gentilezza anche della testa, ferma volontà nel guardare l'altro da pari a pari, senza sussiego, supponenza, falsità o piaggeria.
In un mondo di urlatori, di predicatori con la verità in tasca, ammetto di giudicare le ragioni altrui dalle enunciazioni senza foga, allenando l'orecchio ad escludere chi sbraita e ad ascoltare chi accompagna la schiettezza con il candore di un sorriso, con una simpatia che si coglie dagli occhi, nei quali non c'è ombra di cinismo o freddezza.
Gentilezza che premio, parlando bene dei luoghi in cui l'ho trovata. Ieri sera ad esempio, alla pizzeria Mamma Rita di Bulgarograsso. Oppure al supermercato di Massimo Gerolamo Augusto Ricca, sulla via che da San Lorenzo porta a Civezza, in Liguria. E ancora allo sportello dell'ufficio abbonamenti dell'Eco di Bergamo e della Provincia, le cui risposte mi capita di sentire mentre passo accanto alle scrivanie di chi se ne occupa (e non è un caso se gli abbonamenti aumentino, nonostante la crisi dell'editoria: gentilezza pure come lievito e motore della ripartenza).
Nella dedica su un libro che mi è stato regalato per Natale, uno dei colleghi che stimo di più ha scritto: "Manteniamo lo sguardo sulle stelle polari". Lo prendo in parola, augurandomi che non soltanto il nuovo anno, ma tutti quelli a venire, portino in dote una gentilezza rinnovata, nella consapevolezza che per chiederla agli altri devo essere per primo io a dimostrarla.